i casi di accertamento basati sul cosiddetto abuso del diritto sono fra i più complessi da affrontare: in questo approfondimento di 15 pagine analizziamo la storia giuridica dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto, il valore delle norme dello Statuto del contribuente, la gestione degli interpelli e la prospettive sulla base della più recente giurisprudenza
Come noto, la nozione di abuso del diritto, che torna come una formula scaramantica in norme, prassi ufficiale e sentenze tributarie, circoscrive il perimetro non perfettamente definito dei comportamenti che, pur non violando direttamente delle disposizioni di diritto positivo, procurano un vantaggio tributario che si assume “disapprovato” dall’ordinamento.
Recenti innovazioni normative hanno condotto al superamento dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, legato al più datato ma analogo concetto di elusione fiscale. Nel permanere delle garanzie concesse sia in sede interlocutoria (interpello specifico), sia nell’accertamento, le maggiori novità sembrano costituite dall’estensione delle ipotesi di abuso a tutti i settori impositivi e a tutti i comportamenti possibili, e nella riconduzione di questo tipo di contestazioni a un ambito residuale, con onere di dimostrazione del carattere abusivo a carico dell’ufficio e con l’impossibilità di rilevare l’abuso d’ufficio da parte di organi giurisdizionali.
Il peggior effetto della dottrina dell’abuso del diritto quale scaturiva dalle sentenze della Corte di Cassazione in epoca anteriore alle innovazioni del D.Lgs. n. 128/2015 era costituito dalla totale assenza di garanzie speciali in sede di accertamento. Quelle garanzie che il legislatore aveva inteso inserire nell’art. 37-bis in considerazione del forte rischio di “svarioni” interpretativi, trattandosi di definitiva di contestazioni del fisco non supportate da alcuna norma (sul filo del principio di legalità).
La “vecchia” elusione
L’art. 37-bis del D.P.R. 29.9.1973, n. 600, abrogato dal richiamato D.Lgs. n. 128/2015, si poneva come norma antielusiva a vocazione generale ma di fatto confinata al settore delle imposte sui redditi e alla valutazione di determinate tipologie di operazioni tassativamente individuate.
Per rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 37-bis, l’operazione posta in essere doveva essere elusiva nel suo complesso, mentre non era richiesto che, in presenza di un “comportamento elusivo” costituito da una molteplicità di atti, fossero proprio quelli indicati dalla norma a produrre il risultato elusivo o a essere privi di valide ragioni economiche.
In linea generale, l’intento elusivo perseguito dal contribuente poteva essere ravvisato in presenza (contestualmente) delle seguenti due condizioni:
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una serie di atti la cui sequenza apparisse anomala in relazione al risultato economico cui essi sono stati preordinati, o caratterizzata dall’assenza di una qualsiasi plausibile ragione non fiscale della loro concatenazione;
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un’interdipendenza funzionale tra le singole operazioni che, apparentemente autonome e casuali nella loro successione, perseguivano nella sostanza uno scopo unitario.
Valide ragioni economiche
La condizione per ottenere dall’amministrazione finanziaria il riconoscimento degli effetti fiscali delle operazioni potenzialmente elusive nel contesto normativo previgente era costituita dalle valide ragioni economiche, ossia dalla “apprezzabilità economico-gestionale” che dovrebbe supportarle.
Tali “ragioni” dovevano essere “valide”, cioè dotate di una propria necessità non meramente giuridica, e in nessun caso potevano ridursi alla ricerca della soluzione più vantaggiosa dal punto di vista tributario.
La nuova normativa introdotta dal decreto abuso, ossia l’art. 10-bis dello Statuto del contribuente, non evoca più tale nozione facendo invece riferimento alla sussistenza di ragioni extrafiscali non marginali.
“Scoperta” dell’abuso
Prima della riformulazione normativa del 2015, l’irruzione della nozione di abuso del diritto ha rappresentato una nuova frontiera giurisprudenziale in materia di comportamenti elusivi.
L’applicazione del principio dilagò nella giurisprudenza a seguito di alcune pronunce della Suprema Corte, influenzate dalle precedenti prese di posizione della Corte di Giustizia comunitaria (a tale riguardo, è solitamente richiamata la sentenza della CGCE 21.2.2006, nella causa C-255/02 – Halifax).
Le sentenze emanate dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nel corso del 2008 (nn. 30055 e 30057/2008) hanno accolto un’applicazione estensiva della nozione di abuso del diritto, in grado di legittimare le contestazioni degli uffici fiscali anche in assenza di specifiche disposizioni antielusive.
Una parziale limitazione dei poteri del fisco (discendente dalla necessità di dimostrare l’esistenza del disegno elusivo a sostegno delle rettifiche operate, oltre alle supposte modalità di manipolazione o di alterazione di schemi classici rinvenute, evidenziando per quali motivi se ne determini l’aggiramento, e tenendo conto dell’evoluzione degli strumenti giuridici) è stata individuata dalla successiva sentenza della sezione tributaria n. 1465 del 17.11.2008, depositata il 21.01.2009.
Secondo la pronuncia, anche se il carattere fiscalmente elusivo dell’operazione poteva essere riconosciuto e contestato dal fisco in modo ampio, nell’esercizio di un potere che era diretta espressione dell’art. 53 della Costituzione, la contestazione era legittima solamente se il fine elusivo si poneva come predominante e assorbente rispetto al complessivo comportamento del contribuente.
Sotto il profilo della difesa della parte, era osservato che i contribuenti dovevano dimostrare il motivo per cui era stato posto in essere il comportamento, con una facoltà di dimostrazione assai ampia, che poteva estendersi a diversi obiettivi di natura commerciale, finanziaria, contabile (e non solo alle valide ragioni economiche).
Con la sentenza 21.01.2011. n. 1372, la Cassazione ha fatto presente che l’applicazione del principio dell’abuso del diritto doveva essere guidata da una particolare cautela. Era infatti necessario individuare con precisione cosa fosse “elusione”, e in tale prospettiva la semplice sussistenza di valide ragioni extra-fiscali era sufficiente a escludere il carattere strumentale (elusivo) dell’operazione posta in essere.
Legge delega fiscale
Nel fornire i principi sulla cui base si sarebbe costruita la nuova normativa in materia di abuso (art. 10-bis della L. n. 212/2000, introdotto dal D.Lgs. 5.8.2015, n. 128), la legge delega 11.03.2014, n. 23, (in coerenza con la Raccomandazione UE 06.12.2012 n. 772 sulla pianificazione fiscale aggressiva) richiedeva la definizione della condotta abusiva come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, anche se tale condotta non è in contrasto con alcuna specifica disposizione.
In tale prospettiva:
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bisognava considerare lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come causa prevalente dell’operazione abusiva;
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occorreva escludere la configurabilità di una condotta abusiva per le operazioni giustificate da ragioni extrafiscali non marginali (costituiscono ragioni extrafiscali anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell’operazione, ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente);
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era necessario prevedere l’inopponibilità degli strumenti giuridici adottati in attuazione del comportamento elusivo all’amministrazione finanziaria e il conseguente potere della stessa di disconoscere il risparmio di imposta da essi derivante;
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bisognava disciplinare il regime della prova ponendo a carico dell’amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare il disegno abusivo e le eventuali modalità di manipolazione e di alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati, nonché la loro mancata conformità a una normale logica di mercato, prevedendo invece che gravasse sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di valide ragioni extrafiscali alternative o concorrenti che giustificassero il ricorso a tali strumenti;
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occorreva prevedere una formale e puntuale individuazione della condotta abusiva nella motivazione dell’accertamento, a pena di nullità dello stesso;
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occorreva infine prevedere specifiche regole procedimentali che garantissero un efficace contraddittorio con l’amministrazione finanziaria e salvaguardassero il diritto di difesa in ogni fase del procedimento di accertamento tributario.
Il “nuovo” abuso
In attuazione della legge delega per la riforma tributaria n. 23/2014, il D.Lgs. 5.8.2015, n. 128 ha innovato la materia inserendo nella L. 27.7.2000, n. 212 (Statuto del contribuente) un nuovo art. 10-bis.
Secondo il comma 1 dell’articolo, configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni.
Sono (comma 2):
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operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato;
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vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario.
Il criterio della non conformità a normali logiche di mercato appare contiguo rispetto alle varie considerazioni spesso trasfuse in verbali e accertamenti, ed esaminate dalle Corti, relativamente al comportamento economico o antieconomico dell’impresa. Chiaramente nel nuovo contesto i soggetti preposti al controllo dovranno usare molta cautela in quanto spinti a verificare il carattere “extrafiscale” più che “validamente economico” dell’operazione, come avveniva in precedenza.
Alla luce del nuovo art. 10-bis in rassegna è ragionevole attendersi che particolarmente ardua risulterà la valutazione relativa a principi e a finalità delle norme più che a disposizioni incardinate nel diritto positivo. La possibilità di sindacare la rispondenza al contenuto implicito (non scritto) delle disposizioni normative presuppone infatti poteri e competenze di tipo ermeneutico che tradizionalmente fuoriescono dall’ambito di lavoro di una normale amministrazione pubblica.
Interpello
Secondo le nuove disposizioni in materia di antiabuso, non si considerano in ogni caso abusive (elusive) le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente.
Le valide ragioni extrafiscali non marginali sono presumibilmente sempre riferite al singolo contribuente, ossia all’utilità dell’impresa.
In un contesto di gruppo, tuttavia, il perimetro dell’attività economica potrebbe estendersi a una pluralità di soggetti, in considerazione di quei principi sostanzialistici che da sempre guidano le valutazioni antielusive. In tali situazioni, potrebbe essere opportuno uno sguardo complessivo alle ragioni reali (ultra–soggettive) del comportamento (al di là della formale presenza di istituti come il consolidato fiscale e la liquidazione IVA di gruppo).
Resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale .
Il comma 5 del vigente articolo 10-bis della L. n. 212/2000 stabilisce che il contribuente può proporre interpello secondo la procedura e con gli effetti dell’art. 11 della medesima legge (in particolare si tratta della tipologia di cui all’art. 11, c. 1, lett. d) per conoscere se le operazioni che intende realizzare, o che siano state realizzate, costituiscano fattispecie di abuso del diritto. L’istanza è presentata prima della scadenza dei termini per la presentazione della dichiarazione o per l’assolvimento di altri obblighi tributari connessi alla fattispecie cui si riferisce l’istanza medesima.
Ciò significa che dovrà essere interpellata la competente direzione regionale dell’Agenzia delle Entrate, ovvero (nel caso di contribuenti di grandi dimensioni, cioè al di sopra dei 100 milioni di ricavi – volume d’affari) la direzione centrale Normativa, attendendo risposta entro 120 giorni salva l’esigenza di integrazione istruttoria e con la possibilità del silenzio-assenso in caso di inerzia dell’amministrazione.
Tale interpello risulta più solido rispetto al precedente interpello ex art. 21 della L. n. 413/1991, in quanto rende invalidi gli eventuali accertamenti difformi.
Quanto al carattere della preventività rispetto al comportamento, si fa presente che la circolare n. 9/E dell’1 aprile 2016 (paragrafo 3.1.1) richiede la presentazione dell’istanza di interpello, per i comportamenti che trovano attuazione nella dichiarazione fiscale, prima della scadenza del termine ordinario di presentazione della stessa.
Si osserva che in ogni caso l’interpello no può essere inteso come sostitutivo dell’attività di accertamento, ma solamente come strumento per richiedere e ricevere un chiarimento puntuale, con la possibilità di un successivo esame “retrospettivo” da parte dell’amministrazione in sede di accertamento, con tutte le necessarie garanzie.
Accertamento “garantito”
L’attività di contrasto del fisco rispetto ai fenomeni costituenti abuso del diritto si circonda di un sistema di salvaguardie avente la finalità di circoscrivere i comportamenti più verosimilmente rispondenti all’ipotesi normativa (utilizzo distorto di norme giuridiche a fini di risparmio fiscale senza consistenti ragioni extrafiscali).
È evidente che in questo contesto, caratterizzato dall’assenza di norme violate e dall’altissima probabilità di arbitrio del soggetto controllore, occorre evitare ogni atteggiamento pregiudiziale: di ciò si rende ben conto il legislatore, che confina l’accertamento antiabuso in un ambito residuale e pone l’onere della dimostrazione a carico del fisco.
Il comma 6 dell’articolo 10-bis stabilisce che, senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti per i singoli tributi, l’abuso del diritto deve essere accertato con un apposito atto, preceduto, a pena di nullità, dalla notifica al contribuente di una richiesta di chiarimenti da fornire entro il termine di 60 giorni, in cui sono indicati i motivi per i quali si ritiene configurabile un abuso del diritto.
Richiesta di chiarimenti
Il comma 7 dell’articolo 10-bis richiede che la richiesta di chiarimenti deve essere notificata dall’amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 60 del D.P.R. n. 600/1973, entro il termine di decadenza previsto per la notificazione dell’atto impositivo.
Per quanto riguarda i termini per l’attività di accertamento, entro i quali l’amministrazione finanziaria può notificare gli atti con riferimento a un determinato periodo di imposta, si forniscono le seguenti precisazioni.
Con riguardo ai periodi di imposta fino a quello chiuso il 31.12.2015, gli avvisi di accertamento ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP, e gli avvisi di rettifica ai fini dell’IVA, devono essere effettuati entro il 31dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione.
Questo termine si applica alle ipotesi di infedele dichiarazione, cioè quando la rappresentazione fornita dal contribuente nella dichiarazione fiscale è difforme rispetto a quanto viene accertato dall’ufficio fiscale. Nei casi di omessa presentazione della dichiarazione o di presentazione di dichiarazione nulla (ai fini IRES-IRPEF/IRAP/IVA), l’avviso di accertamento può essere invece notificato fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata.
Questi termini sono mutati, per volontà del legislatore, per gli avvisi di accertamento e rettifica relativi al periodo d’imposta in corso alla data del 31.12.2016 e ai periodi successivi.
L’art. 1, c. 130, della L. n. 208/2015, vigente dall’1 gennaio 2016, è intervenuto modificando l’art. 57 del D.P.R. n. 633/1972.
Secondo le nuove disposizioni, gli avvisi relativi alle rettifiche e agli accertamenti devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto (e non più del quarto) anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione (art. 57 c. 1).
Nei casi di omessa presentazione della dichiarazione o di presentazione di dichiarazione nulla, l’avviso di accertamento potrà invece essere notificato entro il 31 dicembre del settimo anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata (art. 57 c. 2).
Parallelamente è stato innovato anche l’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973, a valere per gli accertamenti in materia di imposta sui redditi, con previsioni perfettamente allineate a quelle del decreto IVA.
Tra la data di ricevimento dei chiarimenti da parte dell’ufficio, ovvero di inutile decorso del termine assegnato al contribuente per rispondere alla richiesta e quella di decadenza dell’amministrazione dal potere di notificazione dell’atto impositivo “antiabuso”, intercorrono non meno di 60 giorni. In difetto, il termine di decadenza per la notificazione dell’atto impositivo è automaticamente prorogato, in deroga a quello ordinario, fino a concorrenza dei 60 giorni.
Supermotivazione e onere probatorio
Il comma 8 stabilisce che, fermo quanto disposto per i singoli tributi, l’atto impositivo è specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alla condotta abusiva, alle norme o ai principi elusi, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati, nonché ai chiarimenti forniti dal contribuente nel termine di cui al comma 6 .
Ai sensi del comma 9, l’amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva, non rilevabile d’ufficio, in relazione agli elementi di cui ai commi 1 e 2. Il contribuente ha invece l’onere di dimostrare l’esistenza delle ragioni extrafiscali di cui al comma 3.
Questo comma precisa chiaramente che l’accertamento antiabuso può essere legittimamente attivato solamente previa dimostrazione che il comportamento del contribuente pone in essere un’operazione priva di sostanza economica (non giustificata da ragioni extrafiscali non marginali) per ottenere vantaggi fiscali indebiti.
Si osserva anche che nel nuovo contesto normativo l’abuso del diritto non può essere rilevato d’ufficio da parte del giudice tributario.
Questa previsione si discosta nettamente rispetto alla giurisprudenza di cassazione formatasi nella vigenza delle vecchie norme, la quale oltre a enucleare nell’ordinamento tributario un generale principio antielusivo aveva affermato la rilevabilità d’ufficio dell’inopponibilità del negozio abusivo all’erario, anche in sede di legittimità.
In relazione alle due caratteristiche idonee a individuare un’ipotesi di abuso del diritto in un caso specifico (mancanza sostanza economica e di ragioni extrafiscali), si fa presente quanto segue:
secondo l’art. 10-bis, c. 2, lett. a, sono “operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”: il requisito della mancanza di sostanza economica è stato quindi identificato dal legislatore delegato nell’assenza di effetti extrafiscali apprezzabili degli atti o della sequenza negoziale;
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in particolare, possono essere sintomatici della mancanza di sostanza economica la non coerenza delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme, nonché la non conformità degli strumenti giuridici utilizzati rispetto alle normali logiche di mercato;
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quanto all’essenzialità della “ragione fiscale”, essa dovrebbe ritenersi già implicita nella nozione di mancanza di sostanza economica / extrafiscale.
È evidente che, in senso lato, sembra difficile immaginare comportamenti imprenditoriali privi di una pur minima razionalità economica: anche per questo, il sentiero dell’accertamento antiabuso appare stretto. Ciò significa che non si può “abusare dell’abuso”: in presenza di norme specifiche che si assumano violate, dice il legislatore, le motivazioni del recupero dovranno far riferimento a queste norme e non a una ricostruzione incerta di schemi elusivi.
Ulteriori previsioni
Per quanto disposto dal comma 10 dell’art. 10-bis in commento, in caso di ricorso i tributi o i maggiori tributi accertati, insieme ai relativi interessi, sono posti in riscossione ai sensi dell’art. 68 del D.Lgs. 31.12.1992, n. 546 e dell’art. 19, c. 1, del D.Lgs. 18.12.1997, n. 472, cioè seguendo le regole della riscossione frazionata in pendenza di giudizio (versamento dei due terzi in caso di rigetto del ricorso in primo grado, fino ai due terzi nell’ipotesi di accoglimento parziale e per il residuo nel caso di rigetto in secondo grado).
Non è quindi effettuata, per questi accertamenti, l’iscrizione a ruolo provvisoria di 1/3 dell’imposta, più i relativi interessi, prevista in via generale dall’art. 15 del D.P.R. n. 602/1973.
il comma 11 stabilisce che i soggetti diversi da quelli cui sono applicate le disposizioni dell’art. 10-bis (a seguito dei comportamenti “apparenti” che siano stati contestati dall’ufficio accertatore) possono chiedere il rimborso delle imposte pagate a seguito delle operazioni abusive i cui vantaggi fiscali siano stati disconosciuti dall’amministrazione finanziaria, inoltrando a tal fine, entro un anno dal giorno in cui l’accertamento è divenuto definitivo ovvero è stato definito mediante adesione o conciliazione giudiziale, istanza all’Agenzia delle entrate, che provvede nei limiti dell’imposta e degli interessi effettivamente riscossi a seguito di tali procedure.
Una previsione particolarmente importante, già richiamata sopra, è quella contenuta nell’art. 12: “In sede di accertamento l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie”.
Il sindacato antiabuso è quindi meramente residuale, non potendo essere attivato dall’amministrazione in presenza di disposizioni normative che legittimano un diverso intervento in sede di accertamento.
È stato osservato al riguardo che l’abuso del diritto da un lato, inizia dove finisce il legittimo risparmio d’imposta e, dall’altro, termina laddove si sia in presenza di fattispecie riconducibili all’evasione fiscale (cioè alla violazione diretta di norme).
Norme di coordinamento
Il comma 2 dell’articolo 1 del decreto abuso dispone l’abrogazione dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, aggiungendo che “le disposizioni che richiamano tale articolo si intendono riferite all’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, in quanto compatibili”.
Il comma 3 del medesimo articolo 1 sostituisce il previgente comma 8 dell’articolo abrogato, relativo alla “disapplicazione specifica” di norme antielusive mirate, stabilendo che “le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi. A tal fine il contribuente presenta istanza di interpello ai sensi del regolamento del Ministro delle finanze 19 giugno 1998, n. 259. Resta fermo il potere del Ministro dell’economia e delle finanze di apportare modificazioni a tale regolamento”.
Questa tipologie di istanze (di interpello “probatorio”), nello spettro della c.d. antielusione specifica, comprendono varie ipotesi che sono oggetto della revisione normativa operata dal c.d. decreto interpello (D.Lgs. n. 156/2015).
Il comma 4 dell’art. 1 stabilisce che “i commi da 5 a 11 dell’articolo 10-bis della legge n. 212 del 2000 non si applicano agli accertamenti e ai controlli aventi ad oggetto i diritti doganali di cui all’articolo 34 del decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, che restano disciplinati dalle disposizioni degli articoli 8 e 11 del decreto legislativo 8 novembre 1990, n. 374, e successive modificazioni, nonché dalla normativa doganale dell’Unione europea”.
Infine, ai sensi del comma 5, le nuove disposizioni hanno acquistato efficacia a decorrere dal primo giorno del mese successivo alla data di entrata in vigore del decreto (cioè dal primo ottobre 2015) e si applicano anche alle operazioni poste in essere in data anteriore alla loro efficacia per le quali, alla stessa data, non sia stato notificato il relativo atto impositivo.
Non sanzionabilità penale
La riforma del 2015, in attuazione dei principi della legge delega, attraverso il nuovo art. 10-bis dello Statuto del contribuente (comma 13) ha stabilito che “le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie”.
Si stabilisce quindi il criterio in base al quale, pur non costituendo il presupposto per l’applicazione di sanzioni penali, i comportamenti ritenuti “abusivi” rientrano tra quelli sanzionabili in via amministrativa, anche se non pongono in essere alcuna violazione di norme di diritto positivo, né tecnicamente danno luogo a ipotesi di evasione o di dichiarazione infedele (la dichiarazione è fedele, secondo questa lettura, se i comportamenti posti in essere dai contribuenti rispettano il percorso giuridico previsto dall’ordinamento).
23 gennaio 2017
Fabio Carrirolo