La Cassazione e il contributo de minimis all'occupazione

analizziamo una recente sentenza della Cassazione che analizza il caso di revoca del contributo erogato a favore delle assunzioni di lavoratori svantaggiati in quanto in contrasto con la regola europea del de minimis

cassazione-corte-2La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11343 del 31.5.2016, ha chiarito la disciplina in tema di de minimis e credito all’occupazione.

Nel caso di specie la Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo, rigettando l’appello dell’Ufficio e confermando la sentenza di primo grado, aveva affermato l’illegittimità del provvedimento di diniego del credito d’imposta previsto dalla legge 27 dicembre 2002, n. 289, art. 63, c. 1, e dalla legge 23 dicembre 2000, n. 388, art. 7, c. 10, per l’assunzione di lavoratori disoccupati in aree svantaggiate per gli anni 2003/2006, nonché del susseguente provvedimento di revoca parziale del credito medesimo, contestualmente impugnati.

Il recupero del credito d’imposta era stato originato dall’impossibilità di avanzare richiesta per via telematica per più di Euro 100.000, stanti i limiti tecnici d’inserimento dei dati secondo il programma informatico, ragione per cui la società si era risolta a chiedere la differenza con raccomandata con avviso di ricevimento, cui era seguita una comunicazione da parte del C.O.P. (Centro Operativo di Pescara) d’improcedibilità dell’istanza e di revoca del credito richiesto per l’importo eccedente Euro 100.000. Secondo l’ufficio infatti il rinvio dell’art. 63 legge 285/02 all’art. 7, c. 10, legge 388/2000 valeva a porre al contributo il limite massimo di cui alla normativa comunitaria sugli aiuti di Stato c.d. de minimis e cioè quello fissato dall’art. 2 Regolamento CEE 69/01, per l’appunto, in Euro 100.000.

Nel confermare l’accoglimento del ricorso della contribuente, i giudici d’appello avevano tuttavia al riguardo ritenuto, in sintesi, che la citata norma interna di cui all’art. 63 legge 27 dicembre 2002, n. 289, non avesse un chiaro riferimento alla regola de minimis dettata dalla normativa comunitaria e che alla sua applicabilità nel caso concreto non poteva nemmeno giungersi in via interpretativa, posto che quest’ultima si riferiva agli aiuti a favore delle imprese, materia alla quale risultavano estranee «le misure di che trattasi».

Queste infatti, osservava la CTR, «proteggendo determinate categorie di lavoratori svantaggiati e volendone favorire l’occupazione», vengono ad assumere «le caratteristiche di un bonus che tende a ristabilire condizioni di concorrenza sul costo del lavoro, una volta che le suddette categorie entrano nel ciclo produttivo».

Avverso tale decisione proponeva dunque ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate, denunciando violazione e falsa applicazione della legge n. 289 del 2002, art. 63, e della legge n. 388 del 2000, art. 7, comma 10, nonché dei Regolamento CE n. 69 del 2001, art. 2, c. 2, e n. 2204/02, e censurando la sentenza impugnata per avere il giudice a quo ritenuto che al citato art. 63 non si applicasse la regola de minimis.

La censura, secondo i giudici di legittimità, era fondata.

Evidenzia infatti la Corte che deve essere ribadito il principio già affermato secondo cui la legge n. 289 del 2002, art. 63, comma 1, nel rinnovare il regime di incentivi alle assunzioni, già disposto con la legge n. 388 del 2000, art. 7, ha mantenuto esplicitamente ferme, per quanto non diversamente regolato, le disposizioni di cui al detto art. 7, quindi anche quella dettata dal comma 10, in base alla quale «all’ulteriore credito di imposta di cui al presente comma si applica la regola de minimis di cui alla comunicazione della Commissione delle Comunità europee 96/C68/06» e «ad esso sono cumulabili altri benefici eventualmente concessi ai sensi della predetta comunicazione purché non venga superato il limite di lire 180 milioni nel triennio».

Il criterio comunitario c.d. de minimis è stato, quindi, espressamente adottato (in via di rinvio alla relativa fonte normativa) dal legislatore nazionale, nel legittimo esercizio dei suoi poteri discrezionali, quale tetto massimo dell’ulteriore credito d’imposta in esame che ha inteso attribuire ai datori di lavoro.

Ne deriva quindi l’irrilevanza della normativa comunitaria invocata (e in particolare sia della Comunicazione della commissione CEE 96/C68/06, sia del Regolamento 12 gennaio 2001, n. 69, relativo «all’applicazione degli artt. 87 e 88 del Trattato CE agli aiuti d’importanza minore (de minimis) sugli aiuti di Stato», sia ancora del Regolamento 5 dicembre 2002, n. 2204, «relativo all’applicazione degli artt. 87 e 88 del Trattato CE agli aiuti di Stato a favore dell’occupazione»), dal momento che questa non impedisce che il legislatore nazionale circoscriva benefici fiscali entro soglie predefinite, anche individuate per relationem rispetto a norme dell’ordinamento comunitario (v. ex multis Cass., Sez. 5, n. 15332 del 04/07/2014; n. 12662 del 20/07/2012; n. 7362 del 11/05/2012; n. 21797 del 20/10/2011).

La cosiddetta disciplina “de minimis” consente peraltro agli Stati membri dell’Unione Europea di erogare aiuti alle imprese, senza dover passare attraverso la procedura di controllo facente capo alla Commissione, qualora le agevolazioni concesse siano di importo tale da non incidere sullo svolgimento degli scambi e della concorrenza (pari a € 100.000,00 in un triennio).

Per “aiuto di Stato” si intende infatti ogni possibile beneficio (sovvenzioni, finanziamenti agevolati, acquisizioni di partecipazioni, crediti d’imposta, eccetera) conferito ad un’impresa operante sul mercato da un atto della pubblica autorità, che, incidendo direttamente o indirettamente sulle risorse pubbliche, in termini di maggiore spesa o di minore entrata per l’Erario, sia finalizzato ad attenuare o ad eliminare oneri che gravano sul destinatario in condizioni normali di libero mercato.

Il Trattato della Comunità europea prevede, in linea di principio, l’incompatibilità con il mercato interno dell’Unione degli aiuti concessi dagli Stati membri, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza (art. 87, par. 1).

Sono, però, previste specifiche deroghe finalizzate allo sviluppo economico e sociale dell’Unione.

Con Regolamento n. 994/98 del 7 maggio 1998, il Consiglio, in attuazione della previsione dell’art. 89 del Trattato, ritenendo necessario per il buon funzionamento del mercato interno una applicazione certa e trasparente delle regole della concorrenza in materia di aiuti di Stato, ha quindi autorizzato la Commissione a dichiarare con proprio regolamento, nei settori in cui dispone di esperienza sufficiente a definire criteri generali di compatibilità, che alcune categorie di aiuti, al rispetto di individuate condizioni, sono compatibili con il mercato interno e sono dispensati dalle procedure di preventiva notifica ed autorizzazione.

A seguito del Regolamento n. 994/98, i primi tre regolamenti di esenzione dall’obbligo di notifica sono stati adottati il 12 gennaio 2001 e sono entrati in vigore il 2 febbraio 2001:

– regolamento n. 68/2001 relativo agli aiuti destinati alla formazione;

– regolamento n. 69/2001 relativo agli aiuti di importanza minore (de minimis);

– regolamento n. 70/2001 relativo agli aiuti di Stato a favore delle piccole e medie imprese.

Con riferimento dunque ai cosiddetti aiuti de minimis, se è vero che ogni aiuto alle imprese può alterare la concorrenza, tuttavia non tutti gli aiuti hanno un impatto rilevante sugli scambi e sulla concorrenza tra Stati membri.

Ciò vale, in particolare, per gli aiuti di importo poco elevato.

La normativa comunitaria consente quindi il riconoscimento di aiuti di minima entità senza obbligo di notifica ed autorizzazione, laddove sono definiti aiuti di minima entità (de minimis) quegli aiuti che, indipendentemente dalla forma, dall’oggetto e dall’obiettivo, non eccedono la soglia di 100.000 euro in un triennio.

Con l’esenzione dall’obbligo di notifica, lo Stato può quindi liberamente introdurre una misura che abbia astrattamente i caratteri di un aiuto (cioè un vantaggio selettivo), sottoponendola al suddetto limite e, in tal modo, evitando che la stessa sia sottoposta al vaglio di legittimità preventivo e sospensivo operato dalla Commissione.

L’area degli aiuti di minima entità rappresenta, quindi, un ambito di libero intervento della disciplina nazionale al di fuori della competenza della Commissione.

E questo certo può aver influenzato la scelta del Legislatore nazionale.

Quanto, specificatamente, all’art. 7, c. 10, della L. 23 dicembre 2000, n. 388 in materia di incentivi per l’incremento dell’occupazione, il riferimento alla regola de minimis è previsto dallo stesso comma 10 secondo cui: “… All’ulteriore credito di imposta di cui al presente comma si applica la regola de minimis di cui alla comunicazione della Commissione delle Comunità europee 96/C68/06, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee C68 del 6 marzo 1996, e ad esso sono cumulabili altri benefici eventualmente concessi ai sensi della predetta comunicazione purché non venga superato il limite massimo di lire 180 milioni nel triennio.”

L’agevolazione di cui all’art. 7, comma 10, L. n. 388/2000, come evidenzia anche la Corte nella sentenza in esame, è dunque assoggettata alla regola de minimis perché espressamente previsto dalla stessa disciplina nazionale.

Del resto, sostanziandosi il de minimis in un tetto massimo di sovvenzioni erogabili alle imprese dallo Stato membro con le proprie risorse finanziarie (non si tratta infatti di sovvenzioni della UE), è evidente che se lo Stato decide di mantenersi al di sotto di quel limite possa farlo nella misura e condizioni in cui ritiene più opportuno.

Anche con l’Ordinanza n. 12640 del 20 luglio 2012, i giudici di legittimità avevano peraltro definitivamente chiarito che diventano in tal senso del tutto irrilevanti le considerazioni in ordine alle caratteristiche funzionali dell’aiuto (se cioè accordato in funzione dell’impresa o dell’occupazione), dal momento che “la soggezione alla regola de minimis è conseguente al legittimo esercizio della sovranità legislativa nazionale e non alle regole di ordinamento comunitario. Con le quali regole, peraltro, la scelta del legislatore non appare in contrasto”.

21 dicembre 2016

Giovambattista Palumbo