Abuso del diritto: irrilevanza penale, onere della prova, garanzie procedurali

Pubblichiamo il primo di 2 approfondimenti in tema di abuso del diritto: in questa prima parte si analizza l’irrilevanza penale dell’abuso del diritto; gli orientamenti giurisprudenziali contrastanti precedenti; l’onere della prova; le garanzie procedurali; lo sviluppo legislativo; la giurisprudenza comunitaria

1. L’abuso del diritto – Introduzione

abuso del diritto in materia tributariaCon la nuova norma di cui all’art. 10 bis introdotta nello Statuto dei diritti del contribuente (Legge 27 luglio 2000, n. 212) (appunto intitolata “Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”) dall’art. 1 del D.Lgs. n. 128 del 5 agosto 2015 recante “Disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente”, in attuazione degli articoli 5, 6 e 8, comma 2, della legge 11 marzo 2014, n. 23, l’abuso del diritto è stato depenalizzato.

La nuova disciplina entrata in vigore il 2 settembre 2015 che, ai sensi dell’art. 1, ultimo comma, del citato Decreto, ha acquistato efficacia a decorrere dal 1° ottobre 2015, raccoglie in forma unitaria i principi e le regole in materia di abuso del diritto e di elusione in materia fiscale ovvero unifica le nozioni di abuso del diritto ed elusione fiscale, che vengono fuse in un’unica definizione (art. 10-bis, c. 1).

Al contempo, il comma 2 dell’art. 1 del decreto ha abrogato l’art. 37-bis del D.P.R. 600/1973, attraverso il quale finora è stata disciplinata l’elusione fiscale, limitatamente peraltro a una serie di fattispecie, numerose e molto importanti, ma non esaustive, in esso espressamente indicate.

Ebbene, significativa l’ultima previsione del nuovo articolo 10-bis che chiarisce come le contestazioni relative al “nuovo” abuso del diritto (condotte elusive/abusive) non costituiscono più reato penale; a prevederlo è il nuovo comma 13: «le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie.

Resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie».

La nuova previsione normativa risulta conforme alla ultima giurisprudenza della Cassazione (4561/2015) secondo cui in materia di abuso del diritto devono trovare applicazione le sanzioni per infedeltà della dichiarazione.

Prima dell’entrata in vigore del decreto, elusione e abuso di diritto erano, invece, due condotte perseguite, sotto il profilo penale, in modo differente.

Le operazioni ritenute elusive dall’amministrazione potevano integrare reati tributari al superamento delle soglie di punibilità. Le operazioni abusive, invece, non potevano costituire reato in quanto il concetto di “abuso”, considerato “immanente” nel nostro ordinamento dalla giurisprudenza, non era espressamente previsto dalla norma.

Il decreto sulla certezza del diritto riunendo i concetti, esclude la rilevanza penale di queste violazioni denominandole abusive, anche quando la fattispecie comporti il superamento delle soglie di punibilità.

In base al generale principio del favor rei, le operazioni di elusione e di abuso non costituiscono reato nemmeno se commesse in passato.

Pertanto, ove sia già stato intrapreso un procedimento penale, occorrerà rappresentare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato.

Per contro

«resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie».

A quest’ultimo proposito, peraltro, occorrerà capire in base a quali norme verranno individuate le sanzioni applicabili, dal momento che presupposto dell’abuso del diritto è che non sussista una violazione diretta di una disposizione, ma piuttosto un suo aggiramento, ossia l’elusione della stessa.

 

 

2. Irrilevanza penale dell’abuso del diritto

Con la sentenza n. 40272/2015 della Terza sezione penale del 7 ottobre 2015, la Corte di Cassazione ha applicato per la prima volta le nuove norme sulla depenalizzazione dell’abuso del diritto, la riforma entrata in vigore lo scorso 1° ottobre, stabilendo appunto che l’elusione fiscale sarà perseguibile solo con una sanzione amministrativa.

Ed infatti, i giudici hanno ritenuto che la scelta adottata dal legislatore in ordine alla irrilevanza penale delle operazioni abusive, “è destinata ad esplicare effetto” anche per le operazioni abusive poste in essere in data precedente (al 1° ottobre 2015)

“per il principio di retroattività della legge penale più favorevole sancito dall’articolo 2 del codice penale”.

Pronunciandosi, su una vicenda in cui all’amministratore di una società era contestato il reato di dichiarazione infedele (art. 4, D.Lgs. n. 74/2000) per aver indicato nella dichiarazione IRES elementi passivi fittizi, conseguenza di un’operazione negoziale formalmente lecita (contratto di stock lending agreement), posta in essere al solo scopo di conseguire un risparmio di imposta con superamento delle soglie di punibilità previste dalla norma penale tributaria, la Cassazione, con la sentenza n. 40272/2015 (nell’accogliere la tesi difensiva secondo cui tale reato, per come contestata la condotta, era da intendersi ormai depenalizzato a seguito dell’entrata in vigore della nuova disciplina in tema di abuso del diritto – nuovo art. 10 bis, Statuto del contribuente), ha affermato che sono “depenalizzate” quelle condotte abusive finalizzate esclusivamente al risparmio d’imposta, escludendo peraltro che alla depenalizzazione osti la norma transitoria di cui all’art. 1, c. 5, D.Lgs. n. 128 del 2015, chiaramente riferibile solo alla parte sanzionatoria amministrativa tributaria e non a quella penale, come si evince dalla norma generale dell’art. 2, c. 4, c.p.

Oltretutto, la Corte rileva che

“rimane impregiudicata la possibilità di ravvisare illeciti penali nelle operazioni contrastanti con disposizioni specifiche che perseguono finalità antielusive”.

Ecco che, viene specificato che queste ipotesi integrano situazioni di evasione e, quindi, possono essere punite penalmente al verificarsi dei presupposti di legge.

Infatti, nell’ordinamento fiscale vi sono specifiche norme la cui finalità è chiaramente elusiva: si possono citare, ad esempio, quelle relative alla disciplina sul transfer pricing, alla disciplina Cfc, alle specifiche norme anti elusive ai fini dell’Ace.

Questo però non vuol affatto dire che queste norme sono da ricondurre all’abuso del diritto; si tratta di disposizioni che hanno un finalità anti elusiva ma, contenendo un “comando” preciso e definito, qualora non vengano rispettate, si verifica chiaramente un’ipotesi di illecito, e quindi di evasione.

In sostanza, spiegano i giudici

“la scelta adottata dal legislatore delegato è stata quella di escludere la rilevanza penale delle operazioni costituenti abuso del diritto, quali descritte dalla norma generale, facendo salva, per converso, l’applicabilità a esse delle sanzioni amministrative, ove ne ricorrano in concreto i presupposti”.

Ed ancora, i presupposti della nuova elusione, non sono molto lontani dagli approdi giurisprudenziali che hanno portato alla ribalta questo istituto.

Ciò significa che l’abuso del diritto si rivolge alle operazioni prive di sostanza economica: sono tali i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali.

Per esempio la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato.

Per vantaggi fiscali indebiti, poi, si considerano i benefici anche non immediati realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali.

Vieppiù, se il risparmio d’imposta consegue a una strategia anche di ordine organizzativo o gestionale, di imprese e professionisti, l’amministrazione finanziaria non potrà contestare l’elusione.

Ecco che, una riflessione va fatta sulla non rilevanza dell’abuso ai fini penali di cui al D. Lgs. 128/2015.

Ed infatti, la disciplina è certamente innovativa non solo perché la più recente giurisprudenza di Cassazione è pervenuta ad affermare la rilevanza penale anche dell’abuso del diritto (Cass. n. 3307/14), quanto e soprattutto perché, per effetto dell’assorbimento nell’abuso anche delle ipotesi di elusione, riconducibili all’articolo 37–bis del dpr 600/73, l’irrilevanza penale finirà per coprire anche queste ultime.

Ossia anche ipotesi che, sempre secondo la giurisprudenza di Cassazione, in modo abbastanza pacifico si ritiene che possano integrare vicende penalmente rilevanti (Cass. nn. 13039/14 e 15186/14).

 

2.1. Orientamenti contrastanti precedenti

Orbene, partendo dalla norma generale antielusiva di cui all’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973, e mediante l’analisi del D.Lgs. n. 74/2000 che disciplina l’evasione, nonché facendo riferimento ai principi costituzionali, dottrina e giurisprudenza hanno imperniato le proprie tesi.

In particolare, vi è chi ha sostenuto che le condotte elusive non costituiscono fattispecie penalmente rilevanti, perché il diritto tributario ed il diritto penale sono assistiti da garanzie costituzionali, ovvero la riserva di legge ed il principio di stretta legalità, che costituiscono dei limiti invalicabili, in quanto disposizioni poste a tutela di diritti assoluti.

In base a siffatto orientamento, ne discende quindi che debba essere esclusa, prima di ogni cosa, la possibilità che le condotte elusive comportino una responsabilità penale ex art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 (“Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”) ovvero ex art. 3 (“Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici”) del medesimo decreto.

Ed infatti, nelle suddette ipotesi delittuose il soggetto viene ad essere sanzionato penalmente dall’ordinamento per due ordini di motivi:

  • in entrambe le fattispecie, è necessario lo scopo di evadere (dolo specifico di evasione);
  • tale scopo viene perseguito, o mediante la falsa rappresentazione delle scritture contabili ovvero mediante l’utilizzo di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento della falsità.

 

Da una semplice analisi dei reati innanzi richiamati, è facile evincere come le condotte elusive non possano riguardare le suddette ipotesi delittuose: il contribuente, infatti, non si avvale in alcun modo di fatture false o mezzi fraudolenti ma, al contrario, nel compiere un’operazione elusiva comprova la stessa mediante la reale documentazione, indicando così nella dichiarazione tutti gli elementi positivi e passivi dell’operazione compiuta.

Proprio per siffatto ordine di motivi, l’esame della rilevanza penale delle condotte elusive è stato così ristretto, da dottrina e giurisprudenza, in relazione alla sola ipotesi delittuosa di cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000, ovvero al reato di “Dichiarazione infedele”.

Al riguardo, è stato evidenziato come nelle condotte elusive manca il dolo specifico di evasione proprio della fattispecie di cui all’art. 4 in quanto incompatibile con il

“fine di aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e di conseguire riduzioni o rimborsi altrimenti non conseguibili”

richiesto dall’art. 37 bis.

Ed ancora, è stato chiarito come la definizione di imposta elusa non può farsi rientrare nella definizione che viene data dall’art. 1, lett. f), del D.Lgs. n. 74/2000 relativamente all’imposta evasa.

Mentre, infatti, nel caso di evasione il contribuente sottrae l’imposta dovuta mediante una differente indicazione in dichiarazione, nell’elusione il contribuente non compie alcun atto idoneo a realizzare la sottrazione all’imposizione.

Infine, viene rilevato come la negazione di qualsivoglia rilevanza penale alle condotte elusive è data altresì dalla incompatibilità di tale rilevanza con il principio di tassatività delle norme penali di cui all’art. 25 della Costituzione, il quale non consente di poter dar vita a nuove responsabilità penali, né tantomeno di prevedere l’irrogazione di sanzioni amministrative.

Sulla scorta di tali motivazioni parte della dottrina ha conseguentemente ritenuto irrilevanti penalmente sia l’abuso del diritto sia l’elusione fiscale, in ciò confortata anche da a quanto disposto dalla “Relazione ministeriale al D.Lgs. 10 marzo 2004, n. 74”, nella quale viene specificato che

“la disposizione di cui all’articolo 16 è unicamente di favore per il contribuente, e non può in alcun modo esser letta, per così dire, ‘a rovescio’, ossia come diretta a sancire la rilevanza penalistica delle fattispecie lato sensu elusive non rimesse alla preventiva valutazione dell’organo consultivo”.

 

In sostanza, con la previsione di cui all’art. 16 del D.Lgs. 74 del 2000 – che testualmente recita

“Non dà luogo a fatto punibile a norma del presente decreto la condotta di chi, avvalendosi della procedura stabilita dall’articolo 21, commi 9 e 10, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, si è uniformato ai pareri del Ministero delle finanze o del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive previsti dalle medesime disposizioni, ovvero ha compiuto le operazioni esposte nell’istanza sulla quale si è formato il silenzio-assenso”

– il legislatore, lungi dal voler equiparare l’elusione e l’evasione sul piano penale, ha confermato la regola generale dell’esimente dell’errore incolpevole, originato da un affidamento legittimo in un parere reso dall’Amministrazione finanziaria.

Al contrario, come innanzi rilevato, altra parte della dottrina e giurisprudenza ha sostenuto la rilevanza penale delle condotte elusive in relazione all’art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000, attraverso l’equiparazione dell’elusione all’evasione.

In sostanza, in base a siffatto orientamento, anche attraverso l’elusione si incide sul bene giuridico tutelato dalla norma ed anche per l’elusione si può parlare di dolo specifico laddove il soggetto, mediante un uso “distorto” del diritto al fine di ottenere uno specifico vantaggio fiscale, darebbe prova di voler sottrarsi alla pretesa impositiva.

Ed ancora, i sostenitori della rilevanza penale ex art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000 delle condotte elusive hanno sottolineato la natura non procedimentale dell’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973, il quale individua, con riferimento a specifiche operazioni tassativamente elencate, una nuova area di illecito fiscale caratterizzata anch’essa, al pari dell’evasione, dalla sottrazione al pagamento dell’imposta o dall’ottenimento di rimborsi altrimenti indebiti.

Seguendo tale assunto, i giudici di legittimità hanno avuto modo di evidenziare come, affinché ricorra l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000 non è necessario che la dichiarazione sia fraudolenta, essendo viceversa sufficiente che la stessa sia infedele e che in essa siano indicati

“elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi” (Cass. Pen., Sez. III, 07-07-2011, n. 26723).

Una siffatta ipotesi si può avere, pertanto, anche in ipotesi elusive laddove, mediante atti e negozi non opponibili all’Amministrazione, il contribuente presenta una “dichiarazione infedele”, ossia una dichiarazione dove gli elementi attivi non vengono esposti nel loro ammontare effettivo.

Infine, la Corte di Cassazione ha altresì affermato che proprio l’art. 16 del D.Lgs. n. 74/2000, nel prevedere una causa di non punibilità per coloro che, avvalendosi della procedura prevista dalla Legge 30 dicembre 1991, n. 413 si uniformino ai pareri del Ministero delle finanze e del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive, ha espressamente riconosciuto la rilevanza penale delle condotte elusive (Cass. Pen., Sez. II, 28-02-2012, n. 7739).

Ebbene, secondo i giudici di legittimità (Cass. 15186/2014) ai fini penali rileva una condotta elusiva/abusiva di imposizione fiscale soltanto se si aggancia a una norma specifica che non può essere elaborata in via interpretativa.

Deve trattarsi di una disposizione che individui precisamente la condotta criminosa, che sul piano amministrativo tributario può coincidere anche con una fattispecie elusiva, senza alcun spazio identificativo rimesso all’interprete.

Ed allora, al superamento delle previste soglie di punibilità, le operazioni elusive potevano integrare reati tributari poiché si trattava, concretamente di violazioni a specifiche disposizioni espressamente previste dalla normativa (in tal senso Cassazione, sezione III penale, sentenza 33187/2013).

Ne conseguiva che la rettifica antielusiva che comportava il superamento della soglia di rilevanza penale, integrava il delitto di dichiarazione infedele (Cassazione sezione V penale, sentenza 36894/2013).

 

 

3. Cos’è l’abuso del diritto

Il D. Lgs. 128/2015 ha dato attuazione all’art. 5, L. 23/2014 con cui il Governo è stato delegato ad attuare la revisione delle disposizioni antielusive al fine di coordinarle con il principio generale del divieto dell’abuso del diritto e con quanto indicato nella Raccomandazione della Commissione europea sulla pianificazione fiscale aggressiva n. 2012/772/Ue del 6.12.2012.

Con tale provvedimento la Commissione ha invitato gli Stati membri ad adottare una norma generale antiabuso nel settore delle imposte dirette, applicabile ai rapporti nazionali ed a quelli transnazionali.

La sostanza economica delle operazioni realizzate e rilevanti a fini fiscali è l’obiettivo che le Legislazioni nazionali devono perseguire ed analizzare, andando oltre le costruzioni di puro artificio poste in essere allo scopo di eludere l’imposizione al fine di ottenere un indebito vantaggio fiscale.

A tale principio generale di matrice comunitaria, fanno da corollario i criteri direttivi dettati dalla legge delega-fiscale.

Ora è utile ricordare come il generale divieto antiabuso era stato sviluppato in sede giurisprudenziale (prima europea, a partire dal 2006, poi interna, a partire dal 2008) proprio per sopperire alle carenze del citato art. 37 bis, il cui campo applicativo risultava doppiamente limitato: da una parte, data la sua collocazione sistematica, esso trovava applicazione con esclusivo riferimento alle imposte sul reddito; dall’altra, come ricordato, la sfera applicativa dell’art. 37 bis era limitata alle sole operazioni elencate nel terzo comma della medesima disposizione.

Il nuovo abuso del diritto, così come previsto dell’art. 10 bis, invece, si estende all’intera materia tributaria, con la sola esclusione dei tributi doganali (art. 4, D. lgs. n. 128/2015) e il suo campo applicativo non è limitato a un elenco di operazioni tassativamente previste, elenco cui era assegnata da una parte della giurisprudenza, come ricordato, la funzione di riconciliare la categoria tributaria dell’elusione con il principio di determinatezza, fondativo dell’impianto costituzional-penalistico.

Le nuove disposizioni (che solo in parte riprendono concetti già definiti dall’art. 37-bis del D.P.R. 600/1973) precisano che configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzino essenzialmente dei vantaggi fiscali indebiti.

In quanto tali, dette operazioni non sono opponibili all’Amministrazione finanziaria, che può (deve) quindi disconoscere i vantaggi fiscali determinando i tributi (che sarebbero stati fin dall’origine) dovuti sulla base delle norme e dei principi invece elusi, ossia aggirati, naturalmente al netto di quanto già versato dal contribuente stesso in relazione alle operazioni attuate con modalità elusive.

La definizione sopra riportata pone l’accento sulla differenza essenziale che caratterizza un’operazione meramente elusiva o abusiva (del diritto tributario) rispetto ad altri comportamenti connotati dal carattere di vera e propria evasione: nel primo caso, infatti, deve esserci il rispetto, ancorché soltanto formale, delle norme fiscali; nel secondo caso, invece, tale rispetto deve mancare, deve cioè sussistere la violazione di una o più norme.

L’evasione si contrappone all’elusione e quindi all’abuso del diritto proprio perché è la violazione, l’illecito, conseguito mediante la creazione di una realtà in apparenza divergente da quella effettiva. Qui non si può parlare di abuso perché non si tratta di aggiramento bensì di violazione, nel senso che la norma non viene elusa quanto violata.

In termini abbondantemente semplicistici, si può dire che si realizza evasione quando si agisce contra legem.

L’evasione si può generare attraverso l’occultamento di ricavi, di compensi, di corrispettivi, eccetera, così come attraverso l’indicazione di spese e costi inesistenti, non inerenti, non di competenza, e così via; in sostanza, l’evasione si realizza attraverso tutte quelle situazioni che conducono alla rappresentazione di risultati diversi da quelli stabiliti dalla legge.

In questo modo si può agevolmente rappresentare che l’evasione si realizza anche attraverso vicende di alterazione dei fatti economici, come, ad esempio, l’interposizione fittizia, la dissimulazione, la simulazione vera e propria.

E’ utile precisare, per inquadrare i termini della questione, la differenza tra l’elusione fiscale e l’abuso del diritto, sebbene tali condotte consistono, identicamente, nell’utilizzo consapevole delle lacune e delle imperfezioni normative presenti in ogni sistema fiscale, diretto a ridurre l’onere impositivo in modo non conforme, ma senza violare apertamente le singole disposizioni in cui si articola l’ordinamento tributario.

Fermo restando che molti utilizzavano in modo indistinto i due termini per descrivere o qualificare tutte le condotte di c.d. evasione interpretativa che comportano un risparmio fiscale illecito attraverso un’interpretazione anti-giuridica delle norme tributarie, la differenza sostanziale tra le due nozioni si ravvisa nella condotta attiva del contribuente, che si qualifica come:

  • abuso di diritto in tutti i casi in cui si verifica un’utilizzazione distorta delle norme fiscali;
  • elusione fiscale in presenza di una manovra di aggiramento delle finalità sottostanti alle norme che compongono l’ordinamento tributario.

 

Ebbene, con il decreto attuativo 128/2015, è stato introdotto un concetto unificato di elusione e abuso del diritto, definito “condotta abusiva”.

Ecco, secondo la definizione data dalla norma 10 bis citata cosa si intende per abuso del diritto:

“una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti.

Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni”.

 

In sostanza, costituisce abuso del diritto una o più operazioni:

  • prive di sostanza economica,

  • rispettose delle norme tributarie,

  • generatrici essenzialmente di indebiti vantaggi fiscali in quanto realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario.

Ora, il perimetro di applicazione dell’abuso del diritto risulta meglio circoscritto e viene collocato nello Statuto del contribuente (Legge n. 212/2000), attraverso la previsione del nuovo articolo di cui sopra che pone due precisi confini entro cui la disciplina dell’abuso potrà essere contestata.

Per potere configurare abuso del diritto occorrerà che il vantaggio fiscale conseguito non trovi collocazione negli istituti del legittimo risparmio d’imposta o dell’evasione.

Nello specifico, continua la norma al comma 2, si considerano:

  1. operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato;
  2. vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario.

 

Ora sul punto, va prestata attenzione a cosa si intenda “prive di sostanza economica”.

Sul piano della struttura, ciò corrisponde all’idea di contenere l’area dell’abuso nel perimetro di quelle costruzioni che appaiono ingiustificabili o ingiustificatamente sovradimensionate in una logica di normalità imprenditoriale (quando si tratta di impresa). Ciò ricorre quando gli atti posti in essere non “apportano nulla”, se non il risparmio fiscale.

Ciò si verifica quando, in una prospettiva economica e/o aziendale esse non sono latori di un “valore aggiunto economico-giuridico” rispetto alle operazioni, alternative, che siano più lineari, da un lato, e fiscalmente più onerose, dall’altro.

Sul punto, assai dettagliata è, ancora una volta, la raccomandazione europea n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012 resa dalla Commissione Europe, laddove si individuano come sintomi della carenza di sostanza economica:

a) la qualificazione giuridica delle singole misure di cui è composta la costruzione non è coerente con il fondamento giuridico della costruzione nel suo insieme: tale sintomo ricorre quando vi è una costruzione che, nel suo complesso, è idonea a determinare effetti giuridici ed economici, ma, all’interno di essa, alcuni passaggi (una parte) sono giuridicamente incoerenti con l’operazione complessiva (il tutto) (siccome distonici o inutili);

b) la costruzione o la serie di costruzioni è posta in essere in un modo che non sarebbe altrimenti impiegato in quello che dovrebbe essere un comportamento ragionevole in ambito commerciale: tale sintomo ricorre quando il percorso seguito non sarebbe stato adottato da un operatore ragionevole che segua la ordinaria prassi commerciale, in quanto più tortuoso e meno lineare, in assenza di vantaggio fiscale;

c) la costruzione o la serie di costruzioni comprende elementi che hanno l’effetto di compensarsi o annullarsi reciprocamente: tale sintomo ricorre quando all’interno del percorso seguito ci sono passaggi che, pur dotati di effetti se singolarmente presi, nella loro successione invece si azzerano (e si giustificano solo perché idonei a determinare il regime fiscale favorevole);

d) le operazioni concluse sono di natura circolare: tale condizione ricorre quando il percorso seguito conduce a un risultato finale identico al punto di partenza;

e) la costruzione o la serie di costruzioni comporta un significativo vantaggio fiscale, di cui tuttavia non si tiene conto nei rischi commerciali assunti dal contribuente o nei suoi flussi di cassa;

f) le previsioni di utili al lordo delle imposte sono insignificanti rispetto all’importo dei previsti vantaggi fiscali: tale condizione ricorre quando, sul piano quantitativo, i vantaggi extrafiscali correlati al percorso seguito sono economicamente irrilevanti rispetto a quelli fiscali.

 

Non può non rilevarsi che, sul punto, il Decreto delegato è stato, alla lettera, assai più timido, limitandosi a enunciare il riferimento ai soli primi due sintomi.

Tale criticità appare superabile in base a una lettura sistematica della disposizione, che appare ragionevole e convincente.

In effetti, per come è costruito sul punto l’art. 10-bis Statuto introdotto dal Decreto, e tenuto conto del dato letterale di esso, ove la espressione “in particolare” precede i due indici espressamente menzionati, deve ritenersi che tali indici siano menzionati a scopo esemplificativo e non esaustivo.

Ciò porta alla seguente conclusione di estremo interesse e importanza: il Decreto delegato ha opportunamente evitato un rischio che appariva connesso alla delega, quello di costruire una nozione di abuso “interna”, diversa da quella raccomandata, europea.

L’art. 10-bis conferma invece, in questa lettura, la scelta opposta, l’allineamento dell’ordinamento italiano alla nozione eurounitaria di abuso.

Tale profilo, se adeguatamente valorizzato, comporta una cascata di effetti favorevoli: la nozione “uniforme” di abuso consentirà agli operatori italiani (e prima di tutto all’Amministrazione finanziaria e ai giudici tributari) di valersi della consolidata e ricca dogmatica ricavabile dalla giurisprudenza europea, che ha assunto ormai un contenuto consolidato e di assoluto pregio.1

L’abusività, va invece esclusa quando l’operazione è giustificata da ragioni extrafiscali non marginali per esigenze di natura organizzativa, determinando un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda, ma che non necessariamente producono una redditività immediata dell’operazione. Gli strumenti giuridici ritenuti abusivi non possono essere opposti all’Amministrazione finanziaria, la quale infatti può disconoscere il relativo risparmio d’imposta.

Viene espressamente confermato che

«resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale».

Pertanto, in caso di alternative, è ammesso che il contribuente scelga tra gli atti, i fatti e i contratti quelli fiscalmente meno onerosi con il limite del divieto di perseguire vantaggi fiscali indebiti, questi ultimi definiti dalla novella come i «benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario».

Peraltro, è la stessa relazione illustrativa a evidenziare, in via di esemplificazione, che non è possibile configurare una condotta abusiva, dal punto di vista fiscale, nei casi in cui il contribuente, al fine di estinguere una società, preferisca fonderla, anziché liquidarla: benché la fusione sia fiscalmente neutra e suscettibile di fare conseguire risparmi rispetto alla liquidazione, che è invece realizzativa, in linea di principio le due operazioni sono poste sullo stesso piano, ancorché disciplinate da regole fiscali diverse.

A meno che l’Amministrazione dimostri, con onere a suo carico, che vi è stato un indebito vantaggio fiscale conseguito con l’aggiramento di norme o principi dell’ordinamento tributario.

 

 

4. Onere della prova

onere della prova e abuso del dirittoEd infatti, come previsto al comma 9 dell’art. 10 bis, l’onere della prova grava sull’Amministrazione finanziaria che deve dimostrare la sussistenza della condotta abusiva, non rilevabile d’ufficio laddove il contribuente ha l’onere di dimostrare l’esistenza delle ragioni extrafiscali di cui al comma 3.

Ebbene la soluzione della non rilevabilità d’ufficio è dirompente, sovversiva dello “status quo”, ma ripristinatore della certezza giuridica e della coerenza del sistema, se lo si legge come indiretto tentativo di sterilizzare, con la codificazione del divieto di abuso, la ferma ma errata giurisprudenza di legittimità che riconosce al giudice tributario la possibilità di rilevare d’ufficio l’abuso del diritto, in ogni stato e grado del giudizio, a prescindere dall’esistenza di qualsiasi allegazione al riguardo ad opera delle parti.

Ed invero, di solito, nei processi riguardanti l’abuso, non vi è contestazione circa l’esistenza dei “fatti”, cioè le operazioni sottostanti che avrebbero determinato un vantaggio fiscale indebito.

Va rilevato che solamente per i fatti si può parlare di un onere di prova. In materia di abuso del diritto quello che viene contestato è, invece, il conseguimento di un vantaggio fiscale indebito, il quale, a ben vedere, rappresenta una valutazione dei fatti.

Il contrasto che si genera tra amministrazione e contribuente non è quindi (quasi) mai sul fatto – cioè le operazioni che avrebbero determinato il presunto vantaggio indebito – quanto sulla sua valutazione o interpretazione.

In tal caso opera il principio di non contestazione ex art. 115 C.p.c., per il quale i fatti allegati e non specificatamente contestati non abbisognano di essere provati.

In sostanza, risulta davvero ipotetico lo spazio per stabilire degli oneri di prova – intesa come regola decisoria del fatto incerto – in materia di abuso del diritto, posto che in un processo sull’abuso il problema non è tanto quello di accertare la verità dei fatti, quanto, piuttosto, quello di valutarli. A ben vedere, quindi, non si può parlare di un onere di prova sussistente sulle parti, ma di un onere di allegazione.

Esso opera in un duplice senso, considerato che le parti hanno l’onere di allegare i fatti posti a fondamento delle proprie tesi (e, quindi, l’amministrazione deve allegare la struttura dell’operazione, il vantaggio fiscale indebito, ecc., mentre il contribuente deve allegare le ragioni sottostanti alle operazioni, il fatto che si tratta di un vantaggio lecito, le eventuali ragioni extra fiscali non marginali sottostanti alle operazioni, ecc.), così che i giudici sono costretti a rimanere nell’ambito di tale allegazione.2

 

 

5. Garanzie procedurali

Viene riconosciuta al contribuente la possibilità di proporre interpello per sapere se le operazioni che intende realizzare, o che siano state realizzate, costituiscano abuso del diritto.

L’istanza va presentata prima della scadenza dei termini per la presentazione della dichiarazione o per l’assolvimento di altri obblighi tributari connessi alla fattispecie oggetto di interpello, ma non ha effetto sulle scadenze medesime.

La procedura da seguire e gli effetti dell’interpello sono quelli già definiti dall’art. 11 dello Statuto del contribuente. Pertanto è necessaria, entro 120 giorni, una risposta scritta e motivata dell’Agenzia delle entrate peraltro vincolata con esclusivo riferimento alla questione oggetto dell’istanza di interpello e limitatamente al richiedente.

Va detto che se la risposta non perviene al contribuente entro il predetto termine, si intende che l’Amministrazione concorda con l’interpretazione o il comportamento prospettatole.

Ed invero, l’art. 1, c. 3, del decreto riproduce nella sostanza il contenuto dell’ultimo comma dell’art. 37-bis cit., stabilendo che le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che, nella particolare fattispecie, tali effetti elusivi non potevano verificarsi.

In caso di ricorso contro l’atto impositivo, i tributi o i maggiori tributi accertati in applicazione della disciplina dell’abuso del diritto, unitamente ai relativi interessi, sono iscritti a ruolo dopo la sentenza della Commissione tributaria provinciale.

I contribuenti che non hanno partecipato all’operazione abusiva ma hanno sostenuto oneri tributari relativamente a tale operazione, possono ottenere la restituzione di quanto pagato presentando apposita istanza di rimborso.

Orbene, l’art. 10-bis introduce particolari regole procedimentali finalizzate a garantire un efficace contraddittorio con l’Amministrazione finanziaria ed il diritto di difesa al contribuente.

Il procedimento delineato rappresenta e costituisce l’unica modalità attraverso cui l’abuso del diritto può essere rilevato ed accertato.

L’atto di accertamento dell’abuso del diritto deve infatti essere proceduto da una specifica attività informativa e di confronto con la notifica al contribuente, a pena di nullità, di una richiesta di chiarimenti in cui vanno indicati i motivi per i quali si ritiene configurabile una fattispecie di elusione. Il contribuente è chiamato a fornire i chiarimenti richiesti entro il termine di 60 giorni.

Tra la data di ricevimento dei chiarimenti (o di inutile decorso del termine assegnato al contribuente per rispondere alla richiesta) e quella di decadenza dell’Amministrazione dal potere di notificare l’atto impositivo dovranno intercorrere non meno di 60 giorni.

In difetto, il termine di decadenza per la notificazione dell’atto impositivo è automaticamente prorogato, in deroga a quello ordinario, fino a concorrenza dei 60 giorni.

È, in definitiva, sicuramente da salutare con favore (anche se, in realtà, si tratta di cose che già si sarebbero dovute ricavare dal sistema e dal buon senso) l’espressa previsione del fatto che la contestazione dell’abuso debba essere portata a conoscenza del contribuente, in modo motivato e circostanziato, fin dalla fase amministrativa.

Tale disciplina, pertanto, come appena detto si compendia in cinque regole:

a) il contribuente deve sapere già prima dell’emissione dell’avviso di accertamento che gli si intende contestare un abuso del diritto;

b) egli deve sapere in che cosa consisterebbe l’abuso (tali informazioni debbono pervenirgli con atti ritualmente notificati);

c) egli deve avere 60 giorni pieni per poter esporre le sue ragioni e queste debbono essere adeguatamente valutate (tanto che, se ci sono meno di 60 giorni dal ricevimento dei chiarimenti del contribuente, o dalla scadenza del termine per formularne, al termine di decadenza dell’accertamento, il termine di decadenza dell’accertamento è automaticamente prorogato fino a tale 60mo giorno, sforando nell’anno successivo, per dar modo all’Ufficio di compiere le dovute valutazioni);

d) l’avviso di accertamento deve essere motivato sulle ragioni espresse dal contribuente;

e) la violazione delle regole precedenti determina nullità dell’avviso.

 

Di tali precetti genera qualche perplessità, sul piano generale, la norma che prevede la proroga dei termini di accertamento in caso di invito al contraddittorio in prossimità della scadenza del termine di decadenza: in pratica, per l’abuso del diritto, il termine di decadenza ordinario diventa il termine per la richiesta dei chiarimenti, e non quello per la notifica dell’avviso.

Soluzione, questa, che vuol salvaguardare efficienza e diritto al contraddittorio.

Ma la domanda che ci si pone e si pone è questa: perché solo in caso di abuso? Il diritto di difesa del contribuente vale meno a seconda del tipo di oggetto dell’accertamento e negli altri casi può essere sacrificato? Non sembra proprio una soluzione conforme al principio di ragionevolezza e uguaglianza3.

Una delle più rilevanti novità del decreto in oggetto è la previsione di specifiche garanzie procedurali per il disconoscimento di vantaggi fiscali ritenuti indebiti conseguiti a seguito di operazioni prive di sostanza economica.

Ed infatti, oltre a fornire una chiara definizione dell’abuso del diritto, prevede dunque l’estensione di tali garanzie originariamente previste per la contestazione di comportamenti ritenuti lesivi ai sensi dell’art. 37-bis del dpr 600/73 all’accertamento dell’abuso del diritto.

Il legislatore si pone dunque in linea di continuità con quanto recentemente affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza 132/2015 (presidente Cartabia, redattore De Pretis), che si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione sull’art. 37-bis del dpr 600, proprio nella parte in cui tale norma prevede garanzie procedurali per l’accertamento di operazioni ritenute elusive.

Nell’impostazione della Cassazione, «la norma violerebbe l’art. 53 Cost., che impone a tutti l’adempimento delle obbligazioni tributarie» prevedendo solo dei formalismi che mettono a rischio l’applicazione concreta di tale principio costituzionale.

La Corte costituzionale ha invece osservato che «la sanzione (della nullità) prevista dalla norma censurata non è dunque posta a presidio di un mero requisito di forma del procedimento, estraneo alla sostanza del contraddittorio, ma costituisce invece strumento efficace e adeguato di garanzia dell’effettività del contraddittorio stesso, eliminando in radice l’avviso di accertamento emanato prematuramente.

Con il decreto 128/2015, arrivano dunque certezze sulle garanzie procedurali per l’accertamento dell’abuso del diritto4.

L’atto di accertamento dell’abuso non può contenere altri eventuali addebiti i quali, pertanto, dovranno essere separatamente contestati.

L’accertamento per abuso del diritto può scattare comunque solo se non si può invocare, ai fini dell’accertamento, la violazione di specifiche norme tributarie.

L’Amministrazione applica in ogni caso le imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all’Amministrazione.

Le imposte o le maggiori imposte così accertate sono iscritte a ruolo, unitamente ai relativi interessi, dopo la sentenza della Commissione tributaria provinciale.

 

 

6. Abuso del diritto: lo sviluppo legislativo

L’intervento legislativo, nel corso degli anni, si è sviluppato nel modo seguente.

  • Art. 10, c. 1, della Legge n. 408 del 29 dicembre 1990:

“E’ consentito all’amministrazione finanziaria disconoscere ai fini fiscali la parte di costo delle partecipazioni sociali sostenuto e comunque i vantaggi tributari conseguiti in operazioni di fusione, concentrazione, trasformazione, scorporo e riduzione di capitale poste in essere senza valide ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta”.

  • Art. 10 cit. come sostituito dall’art. 28 della Legge n. 724 del 23 dicembre 1994 e dall’art. 3 della Legge n. 662 del 23 dicembre 1996, a far data dall’1 gennaio 1997:

“E’ consentito all’amministrazione finanziaria disconoscere i vantaggi tributari conseguiti in operazioni di concentrazione, trasformazione, scorporo, cessione di azienda, riduzione di capitale, liquidazione, valutazione di partecipazioni, cessioni di crediti o cessione o valutazione di valori mobiliari poste in essere senza valide ragioni economiche allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d’imposta”.

  • Art. 37-bis, c. 1, DPR n. 600 del 29 settembre 1973, inserito dall’art. 7 Decreto legislativo n. 358 dell’08 ottobre 1997 (in G.U. n. 249 del 24/10/1997), in vigore dall’8 novembre 1997:

“Sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti”.

Dall’excursus legislativo di cui sopra è facile rilevare che il legislatore, in un primo momento (nn. 1 e 2), ha previsto come scopo “esclusivo” quello di ottenere “fraudolentemente” un risparmio d’imposta, mentre, in un secondo momento (n. 3), ha genericamente previsto lo scopo “di ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti”.

Tale norma, pur individuando una nozione generale di elusione, ne circoscriveva l’applicazione a specifiche fattispecie ritenute di maggiore pericolosità, identificate dalle lettere da a) ad f-quater) del comma 3 (es. trasformazioni, fusioni, scissioni, liquidazioni volontarie, distribuzioni ai soci di somme prelevate da voci del patrimonio netto diverse da quelle formate con utili; conferimenti in società, nonché negozi aventi ad oggetto il trasferimento o il godimento di aziende; cessione di crediti, di eccedenze d’imposta…).

Ulteriore profilo di incertezza era altresì costituito dall’utilizzo dell’art. 37-bis anche con riferimento a quelle ipotesi che, invece, presentavano tutti i requisiti della frode, della simulazione e dell’interposizione e che, quindi, avrebbero dovuto essere perseguite con altri specifici strumenti, anche penali, previsti dall’ordinamento tributario.

Di conseguenza, dall’8 novembre 1997, già a livello legislativo si sono allargate le maglie dell’elusione fiscale e su questo filone, peraltro, si è inserita una vasta, ed alcune volte contraddittoria, giurisprudenza sia nazionale che comunitaria.

 

 

7. Giurisprudenza comunitaria sull’abuso del diritto

Premesso che la VI Direttiva europea del 17/05/1977 n. 77/388/CEE non impone ad un soggetto passivo di scegliere tra due operazioni quella che implica un maggior pagamento di IVA, sull’argomento è intervenuta la famosa sentenza HALIFAX della Corte di Giustizia C-255/02 del 21 febbraio 2006.

In tale sentenza, la Corte di Lussemburgo ha elaborato una nozione di abuso in modo del tutto autonoma dalle ipotesi di frode, richiedendo che le operazioni, pur realmente volute ed immuni da rilievi di validità, devono avere “essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale”.

Tale espressione, riprodotta con non significative varianti nelle diverse versioni linguistiche della decisione, era apparsa, da subito, diversa da quella comunemente ricorrente nella precedente giurisprudenza comunitaria ed in altri testi normativi comunitari, nei quali si è sempre parlato di vantaggio fiscale come scopo esclusivo, o di operazioni compiute al solo scopo di ottenere un risparmio fiscale, ovvero, come nell’art. 11 della direttiva 23 luglio 1990 n. 90/434/CEE, in materia di regime fiscale sulle fusioni, scissioni societarie e conferimento di attivo, il quale autorizza gli Stati membri a considerare il compimento di tali operazioni, ove non effettuate “per valide ragioni economiche”, quale presunzione di frode o di evasione.

La suddetta interpretazione giurisprudenziale comunitaria, proprio per la sua novità e genericità, ha indotto, però, la Corte di Cassazione a riformulare alla Corte di Giustizia i seguenti quesiti:

  • se la nozione di abuso del diritto, definita dalla succitata sentenza HALIFAX, come operazione essenzialmente compiuta ai fini di conseguire un vantaggio fiscale sia coincidente, più ampia o più restrittiva di quella non avente ragioni economiche diverse da un vantaggio fiscale;

  • se possa essere considerato abuso del diritto (o di forme giuridiche) una separata conclusione di contratti di locazione finanziaria (leasing), di finanziamento, di assicurazione e di intermediazione, avente come risultato la soggezione ad IVA del solo corrispettivo della concessione in uso del bene.

 

A tal proposito, la Corte di Giustizia, con l’importante sentenza C-425/06 del 21 febbraio 2008, ha dato le seguenti risposte.

a) La sesta direttiva deve essere interpretata nel senso che l’esistenza di una pratica abusiva può essere riconosciuta qualora il perseguimento di un vantaggio fiscale costituisca lo scopo essenziale (non esclusivo) dell’operazione o delle operazioni controverse.

Nella motivazione, la Corte spiega che l’abuso può ricorrere anche quando lo scopo di conseguire un vantaggio fiscale sia essenziale, e cioè non esclusivo, il che non esclude l’esistenza dell’abuso quando concorrono altre ragioni economiche.

b) E’ sempre compito del giudice di rinvio determinare se, ai fini dell’applicazione dell’IVA, operazioni come quelle in contestazione possano considerarsi rientranti in una pratica abusiva.

In sostanza, è sempre compito del giudice nazionale valutare se sussista un’operazione unica, al di là della struttura contrattuale di essa.

Infine, è opportuno segnalare che, secondo una pluriennale e consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenze del 14 febbraio 1995, C-279/93; 13 luglio 1993; C-330/91; 12 aprile 1994, C-1/9; 15 maggio 1997, C-250/95), pur essendo la materia dell’imposizione diretta attribuita alla competenza degli Stati membri, gli stessi sono, comunque, vincolati al rispetto dei diritti e principi fondamentali dell’ordinamento comunitario.

In conclusione, secondo la giurisprudenza comunitaria succitata, l’abuso del diritto sussiste:

  • anche quando lo scopo di conseguire un vantaggio fiscale sia essenziale, e cioè non esclusivo;

  • il che non esclude l’esistenza dell’abuso quando concorrano altre ragione economiche;

  • sia nel campo delle imposte “armonizzate o comunitarie” (come l’IVA, le accise ed i diritti doganali) sia nel campo delle imposte “non armonizzate o non comunitarie” (come le imposte dirette).

 

Da ultimo, una recente sentenza della Corte di giustizia comunitaria, causa C-662/13 del 2015, preannuncia quanto poi enucleato nel decreto in commento.

La pronuncia, infatti, ribadisce la rilevanza del contraddittorio endoprocedimentale nei rapporti tra Fisco e contribuente, ritenendo compatibili con la direttiva IVA le disposizioni degli Stati membri, che impongono la partecipazione del contribuente nel corso dell’attività istruttoria posta in essere al fine di contestare la violazione di norme antiabuso.

Il perseguimento dell’obiettivo del contrasto all’evasione di un tributo comunitario non può prevalere sull’autonomia dei singoli ordinamenti nella determinazione delle garanzie di tutela dei diritti spettanti ai singoli.

Il principio enunciato dalla Corte di giustizia UE, nella sentenza C-662/13 del 2015, potrebbe così sintetizzarsi: qualora una direttiva comunitaria non disciplini espressamente la possibilità di esercitare il diritto al contraddittorio procedimentale, la normativa nazionale che preveda l’obbligo di audizione del contribuente antecedente alla notifica di un atto impositivo non si pone in contrasto con la direttiva, atteso che le misure necessarie per contrastare l’evasione e l’elusione sono rimesse all’autonomia procedurale degli ordinamenti giuridici interni agli Stati membri.

La fattispecie, oggetto della decisione dei giudici di Lussemburgo, concerne il rapporto tra la direttiva 2006/112/CE, in materia di IVA, e l’autonomia degli Stati membri nell’applicazione delle disposizioni comunitarie volte a tutelare l’esatta riscossione dell’imposta e a contrastare l’evasione.

L’obiettivo perseguito dall’Unione e incoraggiato dalla direttiva è di combattere l’evasione, l’elusione ed eventuali abusi che impediscano la riscossione di un tributo di fonte comunitaria e, in questo senso, gli ordinamenti nazionali non sono vincolati all’applicazione di specifiche disposizioni normative di fonte comunitaria, ma possono autonomamente designare l’Amministrazione competente a combattere l’evasione e stabilire le modalità procedurali intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione.

Al contrario delle valutazioni dei giudici comunitari, invece la Corte di Cassazione (Cass. Ord. 5 novembre 2013 n. 24379), con alcune pronunce considerando indebiti i vantaggi fiscali conseguiti per aver abusato del diritto, non ritiene la collaborazione difensiva necessaria ai fini della pienezza e ed efficacia del procedimento impositivo.

 

Leggi la 2a parte dell’approfondimento: Abuso del diritto ed interpretazione degli atti nell’imposta di registro

 

1 luglio 2016

Avv. Maurizio Villani

Avv. Iolanda Pansardi

 

NOTE

1 A. Contrino, e A. Marcheselli, Luci e ombre nella struttura dell’abuso fiscale “riformato”, Corriere Tributario, 37/2015, p. 3787.

2 Sole24ore, 1 ottobre 2015, Abuso del diritto: l’onere della prova grava sul Fisco, Dario Deotto.

3 A. Contrino, e A. Marcheselli, Difesa nel procedimento e nel processo dopo la riforma dell’abuso del diritto, Corriere Tributario, 38/2015, p. 3896.

4 Vincenzo Josè Cavallaro, L’abuso di diritto deve attendere, ItaliaOggi del 6 agosto 2015.