La sottofatturazione nelle vendite di auto dimostrata dall'importo finanziato per l'acquisto?

in caso di accertamento su un concessionario di auto, se i finanziamenti per l’acquisto dei veicoli sono maggiori del prezzo pagato dall’acquirente, il fisco può presumere che vi sia un fenomeno evasivo di sottofatturazione

auto_immagineLa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19432 del 30 settembre 2015, ha stabilito interessanti principi in tema di prova della sottofatturazione nel settore delle vendite auto.

La CTR rilevava infatti, nel caso di specie, che la società contribuente non aveva supportato con idonee prove le allegazioni difensive, secondo cui era ordinaria prassi per i clienti richiedere un finanziamento maggiore del prezzo di acquisto dei veicoli.

Le pretese fiscali, secondo i giudici di legittimità, risultavano dunque supportate dalla prova del maggiore prezzo di vendita rispetto a quello fatturato ai clienti, come emergeva anche dalle risposte fornite da quest’ultimi ai questionari inviati dall’Ufficio finanziario.

La società ricorrente censurava allora la statuizione della sentenza di Appello, laddove aveva ritenuto che la riscontrata differenza tra il minore importo del prezzo di vendita fatturato ed il maggiore importo del finanziamento richiesto dai clienti per l’acquisto del medesimo veicolo, fornisse elementi idonei al raggiungimento della prova presuntiva dell’occultamento di maggiori ricavi.

Il motivo, secondo la Corte, era inammissibile, in quanto la ricorrente si limitava a trascrivere le difese già svolte nell’atto di appello, venendo a contrapporre all’accertamento in fatto della CTR una propria diversa ricostruzione soggettiva dei fatti, peraltro basata su di una mera astratta ipotesi che appariva priva di fondamento logico, non apparendo logiche, secondo l’id quod plerumque accidit, richieste di finanziamento per l’acquisto di veicoli per importi maggiori del prezzo di vendita da parte di clienti che verrebbero ad soggettarsi ad un aggravio di oneri per interessi.

In tal modo, richiedendo quindi alla Corte una nuova valutazione del materiale probatorio, non consentita dal carattere chiuso del giudizio di legittimità, confinato ai soli vizi della sentenza impugnata, tassativamente indicati nell’art. 360 c.p.c., comma 1, il ricorso si palesava come inammissibile.

Anche i generici riferimenti al PVC ed alle tabelle ivi richiamate, da cui, secondo il ricorrente, risultava che solo in un numero minore di casi emergeva che il prezzo fatturato fosse inferiore all’importo finanziato, non integravano la prova “decisiva” richiesta, in quanto i dati richiamati, peraltro solo per riassunto e senza trascrizione del documento richiamato, non apparivano dirimenti ad escludere le difformità, tra i prezzi di vendita e gli importi finanziati, riscontrate dalla CTR in relazione alle operazioni commerciali contestate e dunque erano inidonei ad inficiare l’argomento presuntivo per cui il prezzo di vendita di un veicolo fatturato per un importo inferiore a quello richiesto dal cliente per ottenere un finanziamento finalizzato al predetto acquisto, costituisce indizio dotato dei requisiti idonei ad integrare, la prova presuntiva di una sottofatturazione (con parte del corrispettivo in nero), tanto più se considerato globalmente con l’intero complesso indiziario, tra cui, come detto, anche le risposte ai questionati fornite dai clienti.

Anche l’eccezione sollevata a tal proposito dalla società ricorrente era infondata, laddove questa sosteneva che le risposte fornite dai clienti ai questionari trasmessi dall’Ufficio (e dalle quali emergevano discrasie tra i prezzi fatturati e quelli realmente corrisposti) non potevano rivestire valenza probatoria in difetto di ulteriori riscontri, anche considerato che, sottolinea la Suprema Corte, anche un unico indizio, se dotato dei requisiti di gravità e precisione, può fondare il convincimento del Giudice a ritenere raggiunta la prova presuntiva (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 19191 del 30/09/2005; id. Sez. 1, Sentenza n. 19088 del 11/09/2007; id. Sez. 5, Sentenza n. 17574 del 29/07/2009; Sez. 5, Sentenza n. 656 del 15/01/2014).

Questo il caso affrontato dalla Corte.

In sede di verifica nei confronti di concessionarie auto capita spesso, del resto, di rilevare una divergenza tra le fatture di vendita e gli importi indicati nelle proposte di finanziamento che la stessa concessionaria invia, per conto del cliente, a finanziarie e banche con lei convenzionate per la concessione di credito al consumo.

Lo stesso concessionario compila il modulo di richiesta di finanziamento, indicando, fra l’altro, l’autovettura a cui si riferisce la richiesta di finanziamento, il prezzo di acquisto (pari appunto all’importo da finanziare) ed il piano di ammortamento.

Il concessionario auto, infine, inoltra le suddette proposte di finanziamento all’ente erogatore, il quale concede quindi il finanzamento per l’importo richiesto (corrispondente all’indicato prezzo di acquisto), inviando direttamente alla concessionaria l’assegno o il bonifico.

I contribuenti oggetto di controllo (concessionarie auto), allora, per giustificare la suddetta divergenza, sostengono che, al fine di agevolare l’acquirente (cliente) e fargli ottenere la maggiore liquidità possibile, è pratica usuale aumentare di una certa percentuale il valore del bene oggetto di finanziamento.

Secondo gli stessi contribuenti, però, non ci sarebbe sottofatturazione, dato che il prezzo conseguito sarebbe realmente quello fatturato.

Tale linea difensiva sconta però un inevitabile difetto di prova.

La correttezza dell’accertamento viene infatti in questi casi documentalmente dimostrata dal fatto che la concessionaria, dopo aver garantito alla finanziaria che deve erogare il credito, assumendosene la responsabilità, che il valore e il prezzo del bene oggetto dell’acquisto da finanziare è di un dato importo, emette invece poi fattura per un valore inferiore.

A favore della ricostruzione dell’Ufficio in questi casi non abbiamo quindi una presunzione, ma ben due fatti certi:

  1. il valore del bene oggetto di finanziamento, come risultante dalle proposte di finanziamento garantite e sottoscritte dalla stessa concessionaria;

  2. le fatture per corrispettivi inferiori al valore del bene già indicato nella proposta di finanziamento.

Date queste due premesse, certe ed incontestabili, anche la sottostante evasione fiscale deve quindi essere in sostanza considerata, almeno da un punto di vista probatorio, un fatto certo, derivando dalle stesse dichiarazioni di parte e dalla mera sottrazione algebrica tra valore/prezzo dichiarato nella proposta di finanziamento e fattura per un corrispettivo inferiore al prezzo già certificato e sottoscritto dal medesimo contribuente.

Se poi, come appunto nel caso di specie, tale quadro viene anche confermato dai questionari inviati ai clienti, è davvero difficile dimostrare il contrario.

La sola presunzione (contraria ai fatti certi) sarebbe infatti in tal caso quella per cui, pur essendo la proposta di finanziamento per 100 e pur essendo la fattura di vendita del bene per 80, il concessionario quei 20 non li avrebbe evasi.

E come già asserito in altri precedenti giurisprudenziali (vedi anche Commissione Tributaria Regionale della Toscana, sentenza n. 14/18/08 del 27.03.2008), in un giudizio proprio in merito alla questione della divergenza tra valore indicato nella proposta di finanziamento per l’acquisto di un’autovettura e corrispettivo poi fatturato, “le dichiarazioni di parte in ordine al valore delle operazioni, sia pure rilasciate per altra finalità, costituiscono documentazione certa in assenza, come nella fattispecie di qualsiasi prova della loro erroneità o falsità …”.

Anzi, a ben vedere, rilevata la sostanziale inattendibilità della contabilità, sarebbe allora possibile addirittura procedere ad una ricostruzione induttiva del fatturato, ricostruendo, in sostanza, sulla base della divergenza percentuale che emerge dalle proposte di finziamento, tutti i ricavi e il volume d’affari della società (e non limitandosi, quindi, ad una mera ricostruzione analitica delle singole sottofatturazioni).

La fattispecie sopra evidenziata rientra del resto nello schema indiretto del credito al consumo, nell’ambito del quale si crea un rapporto trilatero tra finanziatore, finanziato e venditore, caratterizzato appunto dalla finalizzazione all’acquisto di un bene (cosiddetto prestito finalizzato).

In tale fattispecie contrattuale, infatti, il cliente (finanziato) dichiara espressamente lo scopo che si propone di raggiungere utilizzando la cifra sovvenzionata (acquisto dell’autovettura).

L’erogazione del credito ha quindi come finalità e condizione esclusiva l’acquisto del bene indicato nel contratto di finanziamento.

E’ dunque logico e giuridicamente obbligatorio (ancor prima che provato da quanto emerge dalle proposte di finanziamento) che il valore del finanziamento e il prezzo per l’acquisto del bene, che costituisce oggetto (e causa) dello stesso finanziamento, debbano in questi casi coincidere.

Del resto il venditore (nell’ambito del rapporto contrattuale di convenzione con l’ente erogatore del finanziamento) assume in questi casi il ruolo di garante in ordine alla veridicità dei dati indicati nel modello di proposta di finanziamento, compresa dunque la corrispondenza tra il prezzo effettivo di vendita e l’importo richiesto per il finanziamento.

Il prestito finalizzato, come appunto quello in esame, si configura quindi, in sostanza, come un mutuo di scopo, finalizzato all’acquisto di un determinato bene o servizio.

Come ora concluso anche dalla Suprema Corte, dire e sostenere, sulla base di mere affermazioni di principio, o, nella migliore delle ipotesi, di mere presunzioni semplici, che il prezzo fatturato non era in realtà corrispondente al valore già chiesto con il finanziamento, non è quindi sufficiente a superare i fatti certi (valore del bene indicato e garantito dalla concessionaria nella proposta di finanziamento), che rappresentano l’evidente prova della legittimità dei recuperi.

2 febbraio 2016

Giovambattista Palumbo