I controlli dell'Agenzia delle Entrate sui conti esteri sono possibili e la voluntary disclosure è l'ultima chance

la ratio è quella di dare un’ultima chance per riportare in patria le disponibilità sconosciute al Fisco, pagando tutte le imposte dovute, evitando sanzioni penali e riducendo quelle amministrative, prima che, tra revisioni di accordi bilaterali e scambio automatico di informazioni anche da parte dei tradizionali paradisi fiscali, sfuggire al Fisco diventi davvero una mission impossible

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L’Amministrazione finanziaria, nell’attività di contrasto e accertamento dell’evasione fiscale, può avvalersi di qualsiasi elemento con valore indiziario, anche unico, con esclusione di quelli la cui inutilizzabilità discenda da una specifica disposizione della legge tributaria, o dal fatto di essere stati acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale.

Sono perciò utilizzabili, nell’accertamento e nel contenzioso con il contribuente, i dati bancari acquisiti dal dipendente di una banca residente all’estero e ottenuti dal fisco italiano mediante gli strumenti di cooperazione comunitaria.

 

Sono questi i principi espressi dalla sentenza n. 16950 del 19 agosto 2015, con cui la Cassazione, facendo seguito alle Ordinanze 8605 e 8606 del 28 aprile 2015, ha definitivamente ammesso l’utilizzabilità in Italia dei dati trafugati da dipendenti di istituti bancari, in violazione del segreto bancario, e poi acquisiti dalle autorità fiscali degli Stati dei Paesi membri dell’Ue.

La questione si intreccia del resto con i chiarimenti indicati nella Circolare n. 31 del 28 agosto 2015, con cui l’Agenzia ha specificato che nessuna preclusione alla procedura di voluntary disclosure sussiste per i contribuenti presenti nella lista Falciani, purché l’adesione avvenga prima dell’avvio di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali, per violazione di norme tributarie, relativi all’ambito oggettivo di applicazione della procedura di collaborazione volontaria e dei quali il contribuente abbia avuto formale conoscenza.

 

Nel corso delle ultime settimane (vedi anche la sentenza n. 16951 del 19 agosto) la Cassazione ha dunque definitivamente riconosciuto l’efficacia delle cosiddette “Liste” come strumento di contrasto all’utilizzo dei paradisi fiscali.

Anche con la sentenza n. 17183 del 26.08.2015 la Suprema Corte ha peraltro censurato il difetto di motivazione della sentenza della CTR, che, invece, aveva ritenuto che la Lista Pessina non fosse elemento sufficiente a sostenere la pretesa.

Secondo la Cassazione i giudici di merito avevano infatti errato nel disconoscere la valenza probatoria della memoria informatica del pc sequestrato all’avvocato Pessina.

L’indirizzo della Cassazione conferma dunque che ormai l’uso delle Liste ai fini del contrasto al deposito presso paradisi fiscali dei proventi dell’evasione fiscale è stato “sdoganato”.

Anche per questo motivo la voluntary disclosure rappresenta probabilmente l’ultima finestra utile per riportare i capitali dall’estero in Italia senza subire conseguenze sanzionatorie (amministrative e penali) ben più gravi di quelle derivanti dall’adesione alla procedura di collaborazione.

 

A partire dallo scorso 23 febbraio, del resto, a seguito dell’accordo siglato tra Italia e Svizzera, il fisco italiano può visionare i conti nello stato confinante dei contribuenti italiani (pur non essendovi retroattivitá per gli accertamenti relativi agli anni antecedenti il 2015).

Dopo anni di estenuanti trattative, l’Italia e la Svizzera hanno infatti finalmente raggiunto un accordo fiscale sullo scambio di informazioni bancarie, che agevola anche l’adesione alla voluntary disclosure da parte di contribuenti italiani con capitali in Svizzera.

Si tratta di una svolta epocale, una vera e propria rivoluzione, che apre un varco nel proverbiale segreto bancario elvetico, spiana la strada all’operazione di rientro di capitali dall’estero messa in piedi dal Governo italiano con la voluntary disclosure e fornisce strumenti di contrasto all’evasione fiscale impensabili fino a qualche anno fa.

 

L’accordo consentirà innanzitutto lo scambio di informazioni (detenute da banche, intermediari finanziari o fiduciari) su tutte le imposte, di qualsiasi natura e senza la possibilità di vedersi opporre il segreto bancario. Tali informazioni potranno essere ottenute “a richiesta”, direttamente da parte dell’Agenzia dell’Entrate, senza il necessario intervento della magistratura, ovvero senza la necessaria sussistenza di un’indagine penale in corso.

L’accordo raggiunto con la Svizzera modifica il trattato bilaterale esistente contro la doppia imposizione sulla base dell’attuale standard Ocse.

Dal momento della firma ufficiale gli ispettori del Fisco hanno dunque piena visibilità sui conti in Svizzera dei contribuenti italiani, anche considerato che l’Agenzia delle Entrate potrà chiedere informazioni sui contribuenti italiani alla Svizzera molti mesi prima rispetto alla ratifica dell’accordo, che non arriverà prima del 2017.

La formalizzazione dell’intesa ha peraltro consentito di cancellare la Svizzera dall’elenco dei paesi black list (prevedendo scambi di informazioni secondo lo standard Ocse) e di farla transitare verso la white list.

Questo passaggio permette a chi detiene denaro in Svizzera illegalmente e vorrà aderire alla regolarizzazione, di far rientrare i capitali con alcuni evidenti vantaggi: sanzioni dimezzate rispetto alla condizione di black list; solo 5 anni accertabili (anziché 10 della black list); nessuna presunzione di detenzione all’estero di redditi non dichiarati.

L’Italia ha concluso peraltro un’intesa in materia di scambio di informazioni di natura fiscale anche con il Liechtenstein.

L’intesa raggiunta include l’Accordo sul modello Tax Information Exchange Agreement (TIEA) e un Protocollo Aggiuntivo in materia di richieste di gruppo.

L’Accordo sullo scambio di informazioni, basato sullo standard OCSE del Modello di Tax Information Exchange Agreement (TIEA), consentirà di avviare la cooperazione amministrativa su richiesta su tutte le imposte tra le autorità fiscali dei due Stati.

Il Protocollo Aggiuntivo in materia di richieste di gruppo (“group requests”) permetterà lo scambio di informazioni per identificare gruppi di contribuenti che intendono dissimulare cespiti patrimoniali non dichiarati.

L’Accordo sullo scambio di informazioni e il Protocollo Aggiuntivo sono applicabili a decorrere dal 26 febbraio, data della firma.

In questo modo anche il Liechtenstein è equiparato ad un Paese ‘white list’ ai fini della voluntary disclosure e ciò consente, come nel caso della Svizzera, una più agevole regolarizzazione per i contribuenti italiani che detengano attività finanziarie in Liechtenstein.

 

Insomma, se la lotta alla crisi finanziaria passa anche attraverso la lotta alla (vera) evasione fiscale e se è vero che la fuga di capitali verso i paradisi fiscali rischia di aggravare la crisi di liquidità correlata alla crisi finanziaria, alcuni equilibri politici internazionali, che finora consentivano una forte concorrenza fiscale (per usare un eufemismo), sono definitivamente cambiati.

Si ricorda infine che il modello di accordo raggiunto con i citati Stati si ispira al FATCA (Foreign Account Tax Compliance Act), ma è ancora più gravoso rispetto al modello statunitense. Per esempio, mentre il FACTA prevede per le persone fisiche delle soglie sotto le quali non è obbligatorio censire i clienti (come l’apertura di un conto per meno di 50.000 dollari), nel modello adottato queste soglie non esistono e quindi la due diligence va sempre effettuata.

Le banche inoltre non accetteranno più denaro senza la preventiva dichiarazione di “tassazione assolta”, fatta sotto la responsabilità, anche penale, del cliente.

Insomma il segreto bancario è caduto.

 

In tale contesto, per concludere, si inseriscono le procedure di voluntary disclosure.

La ratio è quella di dare un’ultima chance per riportare in patria le disponibilità sconosciute al Fisco, pagando tutte le imposte dovute, evitando sanzioni penali e riducendo quelle amministrative, prima che, tra revisioni di accordi bilaterali e scambio automatico di informazioni anche da parte dei tradizionali paradisi fiscali, sfuggire al Fisco diventi davvero una mission impossible.

Sono del resto decine le Convenzioni, gli accordi fiscali e i protocolli per scambi di informazioni (compresi i cosiddetti TIEA, Tax Information Exchange Agreement) recentemente firmati da e con l’Italia.

Per quanto riguarda le più recenti si segnalano quelle con Cipro, Federazione Russa, Malta, Singapore, San Marino, Mauritius, Bermuda, Cayman, Cook Island, Gibilterra, Guernesey, Jersey, Isle of Man.

Questi accordi si vanno ad aggiungere alle numerose intese già firmate nel corso degli anni con più di 90 giurisdizioni, tra cui anche l’Australia, l’Austria, il Belgio, la Danimarca, gli Usa etc.

Il fenomeno della globalizzazione ha dunque comportato la necessità per i governi e le Amministrazioni finanziarie dei vari Paesi di intensificare il contrasto all‘evasione e all‘elusione fiscale internazionale con un intervento congiunto.

In ambito comunitario la materia è disciplinata dalla nota direttiva n. 77/799/CEE che detta la procedura riguardante lo scambio di informazioni tra Stati appartenenti all’Unione europea.

E la documentazione, utilizzata in sede accertativa, proveniente nell’ambito degli ordinari canali di collaborazione internazionale (predisposti proprio in funzione del contrasto all’evasione fiscale), è ormai incontestabile.

L’Amministrazione Finanziaria italiana può dunque legittimamente acquisire e legittimamente utilizzare la documentazione trasmessagli sulla base di apposite direttive comunitarie.

Se poi, alla fine di un qualche processo penale (peraltro in un altro Stato e non in Italia), sarà dimostrato che un cittadino estero ha commesso, secondo un’altra giurisdizione, un qualche reato (magari in termini di illecita acquisizione informatica), questo non avrà comunque alcun riflesso sulla documentazione acquisita dall’Amministrazione Finanziaria italiana, che non ha commesso alcun illecito.

Nessuna illegittimità, neppure derivata, dell’avviso di accertamento è quindi invocabile.

E comunque, anche in caso di acquisizione illecita, questo non avrebbe alcuna influenza sull’utilizzabilità delle prove nel giudizio, dato che le stesse prove, ai fini tributari, in assenza di una specifica norma (come invece accade nel processo penale) sono sempre utilizzabili e vanno valutate solo nella loro attendibilità.

 

Sono dunque utilizzabili nel processo tributario elementi comunque acquisiti e, dunque, anche prove atipiche, ovvero dati acquisiti in forme diverse da quelle regolamentate, secondo i canoni tipici della prova per presunzioni.

L’elemento della prova per presunzioni può infatti ben essere costituito da acquisizioni provenienti da un’autorità straniera nell’ambito di direttive comunitarie (o di accordi bilaterali), fermo restando che è devoluto alle attribuzioni esclusive del giudice del Paese membro ricevente l’apprezzamento delle prove trasmesse dalle autorità straniere collaboranti.

Ma non rientra in tali limiti il segreto bancario, come chiarisce anche la direttiva 2011/16/UE, all’art. 18, il quale stabilisce che l’autorità di uno Stato membro non può rifiutare di fornire informazioni solamente perché tali informazioni sono detenute da una banca o altro istituto finanziario, non costituendo il segreto bancario un principio inderogabile.

Principio che, come detto, comunque non c’è più neppure in molti degli Stati di cui, tradizionalmente, tale principio era una caratteristica fondamentale.

E del resto, secondo i giudici di legittimità, l’esigenza primaria rappresentata dall’art. 53 Cost., che si sostanzia nei doveri inderogabili di solidarietà, primo fra tutti quello di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva, alla quale si associa in modo altrettanto cogente l’obiettivo di realizzare una decisa “lotta” ai paradisi fiscali illecitamente costituiti all’estero, giustifica l’utilizzabilità delle prove acquisite dall’amministrazione, trovando comunque copertura nel quadro normativo sopra menzionato.

E questo, al di là della Lista Falciani, non può che suonare come un monito (neppure tanto implicito) a sostegno della voluntary disclosure.

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7 settembre 2015

Giovambattista Palumbo