Le società di comodo che non riescono a dichiarare i ricavi minimi di fronte alle innovazioni del 2015

le società cosiddette di comodo o non operative sono state oggetto di disposizioni normative di contrasto in quanto ritenute strutture sostanzialmente fittizie, sintomatiche di un tentativo di accedere ai vantaggi comparativi del regime di impresa (sotto i profili reddituali e IVA) rispetto alla gestione privata di beni: una prima valutazione dell’impatto fiscale della riforma fiscale 2015 (approfondimento di 13 pagine)

Aspetti generali

Le società cosiddette di comodo o non operative sono state oggetto di disposizioni normative di contrasto in quanto ritenute strutture sostanzialmente fittizie, sintomatiche di un tentativo di accedere ai vantaggi comparativi del regime di impresa (sotto i profili reddituali e IVA) rispetto alla gestione privata di beni.

In seguito, anche le società in perdita per più periodi di imposta sono state assimilate alle non operative, cioè a quelle società che non riuscivano a realizzare un certo volume di ricavi rapportato ai precedenti esercizi.

Le disposizioni di contrasto introdotte venivano definite antielusive, ma in realtà, anziché inibire l’aggiramento di norme e divieti, precludono l’accesso a un regime fiscale differente, previsto per le attività commerciali – produttive e non per la gestione privata / familiare di immobili, automezzi, partecipazioni e così via.

La dura realtà della crisi economica generalizzata, e della correlata e conseguente pesante crisi del settore immobiliare, ha però fatto precipitare nella condizione di non operatività (e/o di perdita sistemica) anche società sicuramente nate e cresciute con una finalità economica, che si sono così trovate a dover fornire giustificazioni in ordine alla loro situazione, rischiando di subire le conseguenze molto gravi previste dal legislatore.

Nel presente articolo si tenterà di ricostruire la problematica con uno sguardo alle imminenti o già compiute modificazioni normative in attuazione della c.d. delega fiscale.

Cosa sono le società non operative?

La normativa di contrasto al fenomeno delle società non operative procede da una logica di tipo presuntivo decisamente diversa rispetto all’impianto presuntivo che solitamente regge le attività di accertamento del fisco.

Per tali soggetti societari, infatti, il legislatore ha ritenuto di colpire il fenomeno, sembra piuttosto diffuso, consistente nell’abuso di una forma commerciale (societaria, appunto) al fine non dell’esercizio di un’attività economica organizzata, bensì di una gestione privata di beni da parte dei soci.

Di fatto le disposizioni introdotte nel 2006, a rafforzamento della preesistente normativa del 1994, hanno comportato un generalizzato obbligo di adeguamento a determinati valori minimi per una vasta platea di società anche fiscalmente corrette, fatta salva la possibilità di giustificare la loro situazione mediante una specifica istanza.

Più di recente si sono introdotte ulteriori disposizioni finalizzate a colpire il parallelo fenomeno delle società che dichiaravano perdite fiscali per più periodi di imposta, le quali potevano anche qualificarsi come operative in ragione dei ricavi prodotti [c.d. società in perdita sistemica o sistematica].

La normativa primaria di riferimento in materia è rappresentata:

  • per le società non operative: dall’art. 30 della L. 23.12.1994, n. 724, modificato dapprima dal D.L. 4.7.2006, n. 223 (convertito dalla L. 4.8.2006, n. 248), e quindi dalla L. 27.12.2006, n. 296 e dalla L. 24.12.2007, n. 244;

  • per le società in perdita sistemica, dall’art. 2, commi da 36-quinquies a 36-duodecies, del D.L. 13.8.2011, n. 138, convertito dalla L. 14.9.2011, n. 148.

In sostanza:

  • la condizione di società non operativa («di comodo») scaturisce dalla presenza di un determinato volume di asset patrimoniali, con i quali vengono confrontati i ricavi della società (test di operatività): se questi sono troppo bassi rispetto a un valore percentualmente determinato in base ai beni patrimoniali (immobilizzazioni), la società ha l’obbligo di dichiarare un reddito minimo presunto, anch’esso determinato percentualmente in base agli asset;

  • la condizione di società in perdita sistemica origina, a partire dal quarto periodo di imposta, dall’aver presentato tre dichiarazioni fiscali in perdita consecutive all’interno del c.d. triennio di osservazione, ovvero due sole dichiarazioni in perdita, se nel rimanente periodo di imposta del triennio il reddito dichiarato è inferiore rispetto a quello minimo presunto ai sensi dell’art. 30 della L. n. 724/1994.

Le società non operative e in perdita sistemica possono chiedere e ottenere la disapplicazione della norma restrittiva utilizzando la procedura di disapplicazione già prevista dall’abrogato 37-bis, ottavo comma, del D.P.R. n. 600 del 1973, e attualmente [con decorrenza 2.9.2015] dall’art. 1, terzo comma, del D.Lgs. 5.8.2015, n. 128, con rinvio alle immodificate disposizioni attuative del D.M. 19.6.1998, n. 259.

La platea delle società rispetto alle quali trova applicazione la normativa speciale è stata circoscritta attraverso la previsione di una serie di cause di esclusione (radicale inapplicabilità), nonché di disapplicazione automatica senza necessità di presentare istanza all’amministrazione finanziaria.

Tali cause di disapplicazione automatica sono previste:

  • dal provvedimento direttoriale del 14.2.2008, n. 23681;

  • dal provvedimento direttoriale dell’11.6.2012, n. 87956.

     

Il test di operatività

Le disposizioni in materia di società non operative e in perdita sistematica, che prevedono rilevanti penalizzazioni, possono essere molto pesanti in quanto presuppongono l’applicazione di percentuali «secche» al valore dei cespiti, in taluni casi irrealistiche rispetto ai reali valori di mercato dei cespiti e alla possibilità stessa di ricavare da essi un risultato economico, soprattutto in una situazione di crisi durevole e generalizzata.

Secondo il primo comma dell’art. 30 della citata L. n. 724/1994, le S.p.a., le S.a.p.a., le S.r.l., le S.n.c. e le S.a.s., nonché le società e gli enti di ogni tipo non residenti, con stabile organizzazione nel territorio dello Stato, si considerano, salvo prova contraria, non operative se l’ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti dal conto economico, ove prescritto, risulta inferiore alla somma degli importi che risultano applicando le seguenti percentuali:

  • il 2% del valore dei beni indicati nell’art. 85, co. 1, lett. c), del TUIR, anche se costituiscono immobilizzazioni finanziarie, aumentato del valore dei crediti (corrispettivi delle cessioni di azioni o quote di partecipazioni, anche non rappresentate da titoli, al capitale di società ed enti assoggettati ad IRES diversi da quella a cui si applica la participation exemption, anche se non rientrano fra i beni al cui scambio è diretta l’attività di impresa);

  • il 6% per cento del valore delle immobilizzazioni costituite da beni immobili e da beni indicati nell’art. 8-bis, co. 1, lett. a), D.P.R. 633/1972, anche in leasing (ossia delle cessioni di navi destinate all’esercizio di attività commerciali o della pesca o ad operazioni di salvataggio o di assistenza in mare, ovvero alla demolizione, escluse le unità da diporto);

  • il 5% del valore degli immobili A/10 a uso ufficio;

  • il 4% del valore degli immobili abitativi acquisiti o rivalutati nel corso dell’esercizio e nei due esercizi precedenti;

  • il 15% del valore delle altre immobilizzazioni, anche detenute in leasing.

Nell’ambito della verifica del test di operatività, i ricavi e i proventi, nonché i valori dei beni e delle immobilizzazioni, devono essere assunti in base alle risultanze medie dell’esercizio e dei due precedenti.

Il reddito minimo presunto

Nel caso in cui il test di operatività non venga superato, perché i ricavi e gli altri componenti reddituali positivi rilevanti sono inferiori rispetto alle percentuali stabilite, sorge per la società l’obbligo di adeguarsi nella dichiarazione dei redditi a un «reddito minimo presunto», anch’esso individuato mediante l’applicazione di percentuali al valore dei beni posseduti.

In particolare, le società e gli enti non operativi, sulla base del vigente terzo comma dell’art. 30 della L. n. 724/1994 – come modificato dall’art. 109, primo comma, lett. f), della L. n. 296/2006 – dovranno applicare (fermo restando l’ordinario potere di accertamento, nell’ambito del quale gli uffici potranno spaziare utilizzando tutte le previste metodologie ricostruttive), le seguenti percentuali:

  • 1,50% sul valore dei beni indicati nella lett. a) del co. 1 (ossia dei beni di cui alle lettere c), d), e), dell’art. 85, co. 1, del TUIR, oltre alle quote di partecipazione in società personali commerciali)

  • 4,75% sul valore delle immobilizzazioni costituite da beni immobili e da beni indicati nell’art. 8-bis, co. 1, lett. a), D.P.R. 633/1972, anche in locazione finanziaria

  • 12% sul valore complessivo delle altre immobilizzazioni, anche in locazione finanziaria

Le perdite degli esercizi precedenti possono essere computate soltanto in diminuzione della parte di reddito eccedente quello minimo presunto.

Per le immobilizzazioni costituite da beni immobili a destinazione abitativa acquisiti o rivalutati nell’esercizio e nei due precedenti, la percentuale di redditività presunta è ridotta dal 4,75% al 3%.

IRAP e IVA

Ai fini IRAP, l’art. 1, comma 109, lett. g), della L. n. 296/2006, aggiungendo nell’art. 30 della L. n. 724/1994 il comma 3-bis, ha richiesto che, fermo restando l’ordinario potere di accertamento, il valore della produzione netta non sia inferiore al reddito minimo determinato ai sensi del terzo comma, aumentato:

  • delle retribuzioni sostenute per il personale dipendente;

  • dei compensi spettanti ai collaboratori coordinati e continuativi;

  • dei compensi per prestazioni di lavoro autonomo non esercitate abitualmente;

  • degli interessi passivi.

Particolarmente penalizzanti possono essere le conseguenze sull’IVA a credito maturata per le società che fossero ritenute di comodo.

Infatti, secondo il quarto comma dell’art. 30, per tali società l’eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione presentata ai fini IVA non è ammessa al rimborso e non può essere compensata ai sensi dell’art. 17 del D.Lgs. 241/1997, né ceduta ai sensi dell’art. 5, comma 4-ter, del D.L. 14.3.1988, n. 70, convertito con modificazioni dalla L. 13.5.1988, n. 154.

Un’ulteriore penalizzazione è inoltre prevista nel caso in cui la società tre periodi d’imposta consecutivi non abbia effettuato «operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto non inferiore all’importo che risulta dalla applicazione delle percentuali di cui al comma 1»: in tale ipotesi, infatti, l’eccedenza di credito non è neppure riportabile a scomputo dell’IVA a debito relativa ai successivi periodi d’imposta, e pertanto – sostanzialmente – il credito è perduto in via definitiva.

L’interpello (ex) obbligatorio

Secondo quanto è stato posto in luce nella circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 32/E del 14.6.2010, la procedura di disapplicazione si configurava come un interpello obbligatorio.

In generale, tale pronuncia riteneva obbligatoria per i contribuenti la presentazione di istanze:

  • finalizzate all’ottenimento «di un parere favorevole all’accesso ad un regime derogatorio (in talune ipotesi anche agevolativo) rispetto a quello legale, normalmente applicabile»;

  • rese necessarie dall’esigenza «di consentire all’amministrazione finanziaria un monitoraggio preventivo in merito a particolari situazioni considerate dal legislatore potenzialmente elusive».

Nel corso dell’attività di controllo nei confronti dei soggetti che, pur in presenza di un obbligo normativo in tal senso, non avevano presentato istanza di interpello, si rendeva applicabile la sanzione prevista dall’art. 11, primo comma, lett. a) del D.Lgs. 18.12.1997, n. 471 (omissione di ogni comunicazione prescritta dall’amministrazione finanziaria, punita con sanzione amministrativa da euro 258 ad euro 2065, diversamente graduata dagli uffici tenuto conto della situazione concretamente riscontrata).

Inoltre, il «comportamento omissivo» dei contribuenti che non presentavano l’istanza obbligatoria poteva aggravare le sanzioni ordinariamente applicabili se, in fase di accertamento, era rilevata «l’insussistenza delle condizioni che legittimano la disapplicazione della disciplina, oggetto dell’interpello obbligatorio».

Inoltre il decreto interpello prevede, come si vedrà, il superamento del principio dell’obbligatorietà (enucleato dalla prassi ma privo di riscontri normativi) e la sua sostituzione con la segnalazione da effettuare nella dichiarazione dei redditi a cura dei contribuenti.

Le Società in Perdita Sistemica

I commi da 36-quinquies a 36-duodecies dell’art. 2 del D.L. 13.8.2011, n. 138, convertito dalla L. 14.9.2011, n. 148:

  • hanno disposto per le società «di comodo» in assenza di parere positivo dell’Agenzia delle Entrate una maggiorazione del 10,5% sull’IRES;

  • hanno estero l’applicazione della maggiorazione alle società che presentano dichiarazioni in perdita fiscale per tre periodi d’imposta consecutivi.

In dettaglio, il comma 36-decies specificava che, nei casi in cui non ricorressero i presupposti per considerare la società non operativa, le società e gli enti che presentavano dichiarazioni in perdita fiscale per tre periodi di imposta consecutivi sono considerati non operativi a decorrere dal successivo quarto periodo di imposta.

Ai sensi del comma 36-undecies, la condizione di società non operativa ricorreva anche se per tre periodi di imposta consecutivi le società e gli enti si trovavano per due periodi di imposta in perdita fiscale e in uno avevano dichiarato un reddito inferiore all’ammontare determinato ai sensi dell’art. 30, terzo comma, della L. n. 724/1994 (c.d. reddito minimo presunto).

A seguito delle modificazioni normative apportate dall’art. 18 del D.Lgs. 21.11.2014, n. 175, la qualifica di società in perdita sistematica è ora ricollegata al riscontro di una situazione di perdita fiscale per cinque (anziché tre) periodi di imposta consecutivi, ovvero per quattro periodi se in uno dei periodi del quinquennio il reddito della società è inferiore rispetto a quello minimo presunto.

La delega fiscale

L’art. 6, sesto comma, della La L. 11.3.2014, n. 23 [delega fiscale] prevede che il Governo introduca disposizioni per la revisione generale della disciplina degli interpelli, al fine di garantirne una maggiore omogeneità, e in tal modo una migliore tutela giurisdizionale, ed una maggiore tempestività nella redazione dei pareri, anche procedendo all’eliminazione delle forme di interpello obbligatorio che non producono benefici ma solo aggravi per i contribuenti e per l’amministrazione.

Per quanto riguarda il carattere obbligatorio degli interpelli, si osserva che gli interpelli «obbligatori» sono secondo l’Agenzia delle Entrate (che si esprime in tale senso nella circolare n. 32/E del 14.6.2010) quelli:

  • finalizzati all’ottenimento «di un parere favorevole all’accesso ad un regime derogatorio (in talune ipotesi anche agevolativo) rispetto a quello legale, normalmente applicabile»;

  • resi necessari dall’esigenza «di consentire all’Amministrazione finanziaria un monitoraggio preventivo in merito a particolari situazioni considerate dal legislatore potenzialmente elusive».

 

Il decreto interpello

Il decreto legislativo emanato in attuazione della legge delega «per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario» [decreto interpello – Atto del Governo n. 184] contiene numerose innovazioni da esaminarsi coordinandole con la conoscenza dell’istituto nei circa 15 anni di applicazione, nonché con le ulteriori disposizioni di nuova introduzione che riguardano rispettivamente l’abuso del diritto (quanto ai riflessi sulle forme di interpello antielusivo) e la fiscalità internazionale (per ciò che attiene agli interpelli CFC e in materia di costi esteri).

Secondo quanto è affermato nella relazione illustrativa, le innovazioni normative intendono superare una situazione di complicazione e proliferazione delle tipologie di interpello, caratterizzate da finalità differenti, da un lato e con regole applicative differenziate.

Quanto ai cosiddetti interpelli obbligatori, connessi all’esigenza di assicurare un monitoraggio di determinate situazioni di fatto da parte dell’amministrazione finanziaria, rileva la relazione che essi hanno di fatto generato un notevole contenzioso, che si è venuto ad aggiungere alle vertenze relative agli eventuali e successivi atti di accertamento.

Si è quindi inteso ripensare l’istituto in chiave di razionalizzazione e modernizzazione con l’obiettivo di restituire all’interpello la funzione di strumento di dialogo privilegiato e qualificato del contribuente con l’amministrazione.

 

Nel dettare le linee guida essenziali al legislatore delegato, l’art. 6 della legge delega ne ha individuate tre in particolare:

  • la tendenziale eliminazione delle forme di interpello obbligatorio, in quanto queste hanno finito per gravare i contribuenti di oneri maggiori rispetto al correlato beneficio, in termini di monitoraggio preventivo, per l’amministrazione finanziaria;

  • l’omogeneità, da intendersi riferita non tanto alle finalità che l’interpello può assolvere quanto, soprattutto, alle esigenze di una eventuale tutela giurisdizionale ed alle regole procedurali applicabili;

  • la maggiore tempestività nella redazione dei pareri quale elemento ulteriore e diverso rispetto alla certezza dei tempi della risposta, che ha portato, da un lato, ad attribuire perentorietà a tutti i termini di risposta (anche quelli relativi ad istanze per le quali finora il termine previsto dalla legge è meramente ordinatorio) e, dall’altro, ad attuare una significativa riduzione dei tempi di lavorazione delle istanze, specialmente nelle ipotesi di richiesta di documentazione integrativa.

Con riferimento al primo punto (eliminazione degli interpelli obbligatori), nel quadro dell’attuazione dell’esigenza di generale semplificazione del rapporto fìsco-contribuente di cui è portatrice la legge delega, il legislatore ha inteso segnare il passaggio da un sistema incentrato sulla necessità di una compiuta verifica amministrativa preventiva di determinate fattispecie a uno basato sulla responsabilizzazione del contribuente, al quale viene tendenzialmente riconosciuta la possibilità di verificare autonomamente la sussistenza delle condizioni previste dalle legge per l’accesso a specifici regimi fiscali, ovvero per la disapplicazione di determinate disposizioni antielusive.

Anche l’interpello «fattuale» quindi, imperniato sul riscontro di determinate situazioni e non sulla risoluzione di problematiche interpretative, recupera la sua natura di opportunità, nonché di strumento di gestione del rischio fiscale.

Nuovo Statuto del contribuente e decreto abuso

Con il «decreto interpello» viene radicalmente innovato l’art. 11 dello Statuto del contribuente.

Occorre considerare in particolare che, a norma del secondo comma dell’art. 11 nella nuova formulazione:

«Il contribuente interpella l’amministrazione finanziaria per la disapplicazione di norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta, o altre posizioni soggettive del soggetto passivo altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, fornendo la dimostrazione che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non possono verificarsi. Nei casi in cui non sia stata resa risposta favorevole, resta comunque ferma la possibilità per il contribuente di fornire la dimostrazione di cui al periodo precedente anche ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa».

Queste previsioni devono essere raccordate con l’art. 1, terzo comma, del D.Lgs. 5.8.2015, n. 128:

«Le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi. A tal fine il contribuente presenta istanza di interpello ai sensi del regolamento del Ministro delle finanze 19 giugno 1998, n. 259. Resta fermo il potere del Ministro dell’economia e delle finanze di apportare modificazioni a tale regolamento».

 

Novità in materia di snop e sanzioni

Il medesimo decreto interpello innova l’art. 30 della L. n. 724/1994, stabilendo che:

  • nel comma 4-bis, le parole «la società interessata può chiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai sensi dell’articolo 37-bis, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600» sono sostituite dalle seguenti: «la società interessata può interpellare l’amministrazione ai sensi dell’articolo 11, comma 1, lettera c) della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante lo Statuto dei diritti del contribuente»;

  • nel comma 4-ter, le parole «in presenza delle quali è consentito disapplicare le disposizioni del presente senza dover assolvere all’onere di presentare l’istanza di interpello di cui al comma 4-bis» sono sostituite dalle seguenti: «non trovano applicazione le disposizioni di cui ai commi precedenti»;

  • il comma 4-quater è sostituito dal seguente: «4-quater. Il contribuente che ritiene sussistenti le condizioni di cui al comma 4-bis ma non ha presentato l’istanza di interpello prevista dal medesimo comma ovvero, avendola presentata, non ha ricevuto risposta positiva deve dame separata indicazione nella dichiarazione dei redditi».

 

Il quadro è completato dal decreto sanzioni [Revisione del sistema sanzionatorio (Schema di D.Lgs. n. 183) (Artt. 1 e 8, co. 1, L. 23/2014) Luglio 2015 XVII Leg.]:in particolare il nuovo comma 3-ter dell’art. 8 individua, nel contesto delle disposizioni volte a punire le eventuali omissioni o incompletezze dei dati della dichiarazione, una sanzione fissa (da 2.000 a 21.000 euro) applicabile nei casi in cui il contribuente non abbia provveduto a effettuare le segnalazioni richieste da:

  • l’articolo 113, comma 6, del TUIR, in relazione alle partecipazioni acquisite per il recupero di crediti bancari;

  • l’articolo 124, comma 5-bis, del TUIR, in ordine alla continuazione del consolidato nazionale;

  • l’articolo 132, comma 5, del TUIR, relativo al consolidato mondiale;

  • l’articolo 30, comma 4-quater, della legge 30 dicembre 1994, n. 724 per le società di comodo;

  • l’articolo 1, comma 8 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, in tema di Aiuto per la crescita economica (ACE).

Le ipotesi menzionate sono oggetto di modifica da parte dello schema di decreto delegato in materia di interpello, nel cui contesto la presentazione dell’istanza di interpello – fino ad oggi obbligatoria – è stata resa facoltativa ed è stata sostituita, in omaggio all’esigenza di monitoraggio da parte dell’amministrazione sulle predette situazioni, dalla introduzione di un obbligo di segnalazione.

Gli effetti delle nuove normative

In buona sostanza, dal coordinamento tra le disposizioni normative di riferimento discende che:

  1. l’istanza di disapplicazione non è più obbligatoria per le società non operative (snop);

  2. apparentemente, in attesa di successive modifiche o indicazioni, essa è ancora obbligatoria per le società in perdita sistemica (sps);

  3. i soggetti non operativi secondo le disposizioni dell’art. 30 della L. n. 724/1994 sono tenuti a fornire di ciò adeguata comunicazione in dichiarazione dei redditi [prevedibilmente con riferimento ai periodi di imposta dal 2015 in poi per i soggetti solari];

  4. l’omissione o incompletezza della comunicazione rende applicabili le sanzioni tributarie sopra indicate.

 

Occorre altresì tener conto del fatto che il c.d. interpello disapplicativo non circoscriverà più la materia delle società non operative, che nel contesto del nuovo interpello sarà oggetto della diversa procedura «probatoria». Ciò equivale al riconoscimento che le disposizioni anti – snop non sono antielusive, limitandosi a precludere, in presenza di determinate circostanze [la non operatività della società, appunto], l’accesso al più favorevole regime di impresa.

Afferma relativamente alla categoria degli interpelli probatori la relazione di accompagnamento al decreto interpello che essa include diverse tipologie di istanze già conosciute dall’ordinamento, e consiste in una richiesta all’amministrazione finalizzata a ottenere un parere sulla sussistenza delle condizioni o sulla idoneità degli elementi probatori offerti dal contribuente ai fini dell’adozione di un determinato regime fiscale.

La procedura consente la valutazione dei requisiti di accesso a determinati regimi fiscali, con formula molto ampia, anticipando l’attività che ordinariamente l’amministrazione svolge in sede di accertamento (con più vasti poteri di acquisizione di dati ed elementi di prova).

Il riferimento all’accesso a un determinato regime fiscale va interpretato in senso ampio, come comprensivo dei casi in cui si tratti della non operatività di determinate limitazioni o regole speciali. Ecco quindi che talune tipologie di quesiti, che nel regime ante riforma rientravano tra gli interpelli «disapplicativi» (come accade, appunto, per le snop), vengono ora condotte al contesto «probatorio».

Considerazioni di sintesi

Per quanto si è detto sopra, fino al 2014 l’applicazione delle disposizioni, fin qui ritenute antielusive, in materia di società non operative, può risultare particolarmente pesante in quanto funziona come una «minimum tax» salvo che non si riesca a comprovare l’esistenza di situazioni particolari di tipo oggettivo, in grado di legittimare la disapplicazione.

Di fatto, fatta salva l’ipotesi di cause di esclusione e/o di disapplicazione automatica, la valutazione delle circostanze oggettive da parte del fisco viene effettuata con grande discrezionalità tecnica, e in caso di documentazione insufficiente può condurre a un respingimento dell’istanza o a una declaratoria di inammissibilità.

Ciò significa che anche società meritevoli e non certo «di comodo» potevano e possono essere costrette all’adeguamento, molto oneroso soprattutto in presenza di difficoltà economiche e finanziarie, ovvero all’opposizione tramite ricorso avverso il parere della direzione regionale, o anche contro il successivo avviso di accertamento o l’iscrizione a ruolo.

Può essere osservato al riguardo che una presunzione legale relativa che ipotizza un rendimento del 6% annuo per un bene immobile, non soddisfacendo il quale occorre dichiarare un reddito pari al 4,75% del valore di bilancio del bene stesso, può essere altamente irrealistica in presenza di valori contabili elevati, magari sottoposti a rivalutazione, e di un contesto esterno caratterizzato da un mercato delle locazioni statico.

In questa situazione è certamente positivo il superamento dell’obbligatorietà dell’istanza, che in caso di risposta negativa o di inammissibilità si ripercuote negativamente sulla situazione dei contribuenti. In caso infatti di non operatività con obbligo di comunicazione in dichiarazione, questa tipologia di soggetti potranno fornire prove e interloquire con gli uffici nella diversa sede dell’accertamento, con le maggiori garanzie fornite dallo Statuto del contribuente.

Ciò dovrebbe consentire di ridurre se non annullare il diffuso contenzioso instauratosi in materia, che peraltro vede spesso soccombenti gli uffici fiscali.

Si può tuttavia notare che gli interventi normativi in cammino [decreti abuso, interpello, sanzioni] non menzionano in alcun modo le società in perdita sistemica. Le ipotesi al riguardo possono essere tre: 1) tutto resta come prima, e si pone quindi il problema della sopravvivenza di un sistema fondato sull’istanza preventiva obbligatoria solamente per tali soggetti; 2) la relativa normativa speciale si avvia a essere espunta dall’ordinamento (ma in tal caso resterebbe da gestire la fase transitoria); 3) le sps seguono implicitamente il destino delle snop perché la disciplina specifica in materia è ricalcata su quello di tali ultime società (in tale ipotesi si renderebbe necessaria perlomeno un’indicazione interpretativa da parte dell’amministrazione finanziaria).

24 settembre 2015

Fabio Carrirolo