La carica di semplice consigliere di amministrazione è compatibile con il rapporto di lavoro dipendente anche se la deduzione dei compensi erogati dalle società ai propri amministratori a volte è oggetto di contenzioso tributario: consigli pratici su come prevenire liti con il Fisco.
La Commissione Tributaria Provinciale di Firenze, con la sentenza n. 421/1/15, depositata il 15 aprile 2015, ha stabilito rilevanti principi in tema di deducibilità del costo per il compenso al dirigente che svolga anche funzioni di amministratore.
Nel caso di specie, la società ricorreva avverso un avviso di accertamento, relativo all’anno di imposta 2007, con cui l’Ufficio contestava, tra le altre, spese per prestazioni di lavoro dipendente non deducibili per violazione degli artt. 60 e 95 TUIR.
In sede di verifica la Guardia di Finanza aveva infatti constatato che in particolare uno dei membri del consiglio di amministrazione, aveva ricevuto compensi in qualità di amministratore e contestualmente era stato retribuito anche come lavoratore dipendente.
La parte contestava dunque tali riprese, eccependo l’illegittimità dell’atto per violazione e falsa applicazione del11art.95 TUIR e sostenendo la correttezza della qualifica di lavoratore subordinato, in relazione alle reali mansioni svolte dal consigliere.
La ricorrente eccepiva inoltre la violazione e falsa applicazione dell’art.109 TUIR, sostenendo che il costo in esame, possedendo i requisiti di certezza, inerenza, competenza ed effettività, risultava comunque deducibile ai sensi dell’art. l09 TUIR a prescindere dalla natura che gli si volesse attribuire.
La Commissione Tributaria, esaminata la tesi della ricorrente, riteneva dunque che esistessero le condizioni per l’accoglimento del ricorso.
Nel caso di specie, infatti, sottolineano i giudici di merito, non si controverteva sull’esistenza dei costi relativi alla retribuzione per prestazione di lavoro, bensì sulla deducibilità o meno di tali costi da parte della Società.
E i compiti affidati al consigliere quale amministratore non apparivano di ampiezza tale da impedirgli il contemporaneo svolgimento di prestazione di lavoro subordinato, anche considerato che pur essendo stati assegnati allo stesso consigliere ampi poteri di gestione e rappresentanza, seppure limitati al settore amministrativo e fiscale della Società, tali poteri a carattere gestionale sembravano riguardare attività che non implicavano ampie facoltà decisionali, ma piuttosto lo svolgimento in autonomia di compiti che ben si attagliavano anche a lavoratori subordinati, seppure di livello elevato.
Questo risultava poi confermato dal fatto che la retribuzione quale consigliere di amministrazione era molto più modesta rispetto a quella degli altri consiglieri non dipendenti, mentre era rimasta invariata -ed elevata- la sua retribuzione quale dipendente della Società.
Ciò, ad avviso dei giudici, poteva trovare giustificazione nel fatto che in realtà le attività quale consigliere di amministrazione dotato di specifica delega non erano altro che una riproduzione delle sue attività come dipendente.
Nel caso di specie, concludevano i giudici di merito, ci si trovava quindi di fronte
“non già ad un consigliere di amministrazione, che può aver mantenuto i suoi compiti di dipendente, bensì ad un dipendente, che, in ragione del suo lungo servizio nella società, dell’esperienza acquisita e comunque della validità ed efficacia del suo lavoro è stato in qualche modo premiato con l’assunzione a consigliere di amministrazione nei pochi anni anteriori al suo collocamento a riposo”.
In base agli elementi di fatto così ricostruiti, la Commissione concludeva che sia il compenso di consigliere di amministrazione, sia la retribuzione al dipendente erano costi della Società, il che comportava la loro deducibilità ai sensi dell’art.95 DPR 917186, anche considerato che
“negare la deducibilità di tali costi, caratterizzati dal dato dell’indubbia certezza ed inerenza, porterebbe a conseguenze di profonda ingiustizia fiscale”.
Tanto premesso quanto alla sentenza, alcune considerazioni sono opportune.
Il giudizio atteneva in sostanza al problema della compatibilità fiscale del ruolo di amministratore con quello di lavoratore dipendente, laddove la sovrapposizione delle predette funzioni nell’ambito della stessa società, ad avviso dell’Ufficio, doveva ritenersi ammissibile solo nel caso in cui sussistesse un vincolo di subordinazione e le attività svolte non rientrassero già nel mandato di amministratore.
Nel caso di specie, in particolare, come risultava da apposito verbale di assemblea societaria e come riporta anche la sentenza, era stata conferita al dirigente delega nel settore amministrativo, fiscale e finanziario.
Tale delega era peraltro comprensiva di un’ampia gamma di poteri, fra i quali assumevano rilevanza determinante la facoltà di compiere qualsiasi operazione e di rappresentare la società nei confronti della Pubblica Amministrazione ed in qualsiasi giudizio, la facoltà di conciliare qualsiasi controversia, di riscuotere e stipulare contratti di deposito bancario e titoli ed effettuare ogni altra operazione bancaria.
Lo stesso dirigente/amministratore era poi responsabile dell’osservanza delle norme di legge anche per eventuali violazioni compiute dal personale facente parte della sua “giurisdizione”.
La società, per parte sua, nell’impugnare gli avvisi di accertamento, eccepiva allora come il rapporto di lavoro dipendente del dirigente risultava confermato da regolare iscrizione al libro paga, dalle regolari buste paga e dalla documentazione delle presenze in azienda. La società faceva inoltre presente che esisteva un consiglio di amministrazione formato da più membri e che solo a tale organo collegiale, oltre che al presidente, spettavano tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione, con effettivi poteri gerarchici su tutto il personale dipendente.
La società sottolineava infine come, in base alla giurisprudenza della Corte Suprema, la posizione di membro del consiglio di amministrazione fosse già stata considerata compatibile con quella di dipendente, essendo stata considerata incompatibile solo la posizione di presidente e dell’amministratore unico.
La Commissione Tributaria Provinciale di Firenze, con la sentenza n. 141/04/2009 del 18.12.2009, decidendo sulla medesima vicenda, anno precedente, partendo dalle stesse considerazioni di fatto dei giudici della sentenza in commento, aveva del resto concluso esattamente all’opposto della recente pronuncia in commento, affermando che
“l’esistenza di un rapporto di lavoro dipendente implica necessariamente la subordinazione del lavoratore e la sua soggezione al potere di controllo di direzione e disciplinare del datore di lavoro”, e che “nel caso di specie la posizione del Sig … nell’ambito della società … risulta connotata dalla duplice qualificazione, peraltro teoricamente ammissibile, di consigliere di amministrazione e dipendente.
Tuttavia è da considerare che il predetto consigliere di amministrazione risulta titolare di una delega per la gestione del settore amministrativo, fiscale e finanziario, a firma libera, cioè in piena autonomia, che gli conferisce poteri talmente ampi da rendere inammissibile la concentrazione nella stessa sua persona della contemporanea asserita posizione di lavoratore dipendente, subordinato cioè ad altrui potere di direzione e controllo”.
La CTP citata concludeva poi affermando che, non avendo peraltro la società provato che l’amministratore
“svolgesse mansioni ed attività che potessero ritenersi non comprese nell’ampio mandato di amministratore delegato”,
gli avvisi di accertamento impugnati dovevano considerarsi legittimi.
Da notare che proprio invece per la prova che le mansioni di dipendente ed amministratore coincidevano, secondo i giudici della sentenza in esame, fa ora concludere per l’accoglimento del ricorso.
Anche la Commissione Tributaria Regionale della Toscana, con la sentenza n. 4/30/12 del 30.01.2012, che si pronunciava sull’appello avverso la sentenza della CTP prima citata, concludeva peraltro per la legittimità dell’avviso, affermando che l’amministratore può anche essere legittimamente un lavoratore dipendente della Società, a condizione però che le prestazioni rese in funzione del rapporto di lavoro subordinato (e la relativa retribuzione), oltre a svolgersi effettivamente in regime di subordinazione, siano estranee e diverse rispetto all’attività tipica di amministratore (Corte di Cassazione, sentenza n. 329 del 12 gennaio 2002) e che tale separazione sia evidente e provata.
Per tutti questi motivi, pertanto, la Commissione Tributaria Regionale sopra citata, aveva concluso che
“l’elemento tipico che contraddistingue il rapporto di lavoro dipendente è costituito dalla subordinazione … Nel caso in esame al … è stata data delega per la gestione del settore amministrativo, fiscale e finanziario, in piena autonomia, senza sottoposizione ad alcun controllo da parte del Consiglio di Amministrazione e/o del Presidente … In questa ottica è difficile potere sostenere che il … ricopriva la funzione di lavoratore dipendente, dato che nessun controllo eseguiva la società sul suo operato e nessuna prova ha fornito la società di prestazioni rese nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato estranee all’attività tipica di amministratore”.
Come si vede, da medesime situazioni di fatto, diverse Commissioni Tributarie hanno fatto discendere opposte conclusioni di diritto.
Quanto poi alla inerenza ex se dei costi, che secondo la Sentenza in commento, consentiva in ogni caso la deducibilità del costo, pena una inammissibile ingiustizia fiscale, a ben vedere però, come peraltro affermato dalla Sent. n. 12813 del 27 settembre 2000 della Corte Cass., Sez. tributaria,
“la valutazione della congruità dei costi è insita nei poteri di accertamento dell’Amministrazione finanziaria, la quale può procedere alla rettifica delle dichiarazioni, negando la deducibilità di parte di un costo, ove questo superi il limite al di là del quale non possa essere ritenuta la sua inerenza ai ricavi o, quanto meno, all’oggetto dell’impresa; ciò anche non ricorrendo irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici compiuti nell’esercizio d’impresa. Con riguardo ai compensi degli amministratori, la deducibilità riconosciuta dall’art. 62, D.P.R. n. 917/1986, non significa che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in deliberazioni sociali o contratti e ciò a prescindere dalla loro invalidità sotto il profilo civilistico; ….
L’esercizio del potere di rettifica delle dichiarazioni non rende necessario l’accertamento della nullità dei negozi giuridici attraverso i quali i fatti di gestione dell’impresa sono realizzati”.
Insomma una situazione abbastanza incerta per chi invece la deducibilità di tale costo deve valutare (si presume in buona fede).
Sul piano pratico e procedurale, al fine di cercare almeno di prevenire eventuali contestazioni, è quindi opportuno (il minus probatorio richiesto) in questi casi:
- specificare nella delibera che l’amministratore viene assunto per esercitare una attività diversa, e comunque estranea, ai suoi compiti di organo della società;
- indicare in maniera precisa e dettagliata oltre le mansioni attribuite e il relativo trattamento economico-normativo, anche il superiore gerarchico cui il dirigente è sottoposto nell’espletamento delle sue mansioni, specificando altresì che egli deve sottostare alle direttive che gli verranno impartite, nonché al potere di controllo e disciplinare dello stesso.
Se (almeno) queste due condizioni non vengono rispettate (e provate) il relativo costo sarà difficilmente ascrivibile a lavoro dipendente.
E in mancanza della subordinazione, connotato indispensabile nel rapporto di lavoro dipendente, in forza del quale un lavoratore è giuridicamente obbligato ad applicare le proprie energie lavorative/professionali nei compiti e con le modalità di volta in volta prescritte dal datore di lavoro, a tal fine titolare di un personale potere di supremazia e di un potere disciplinare ad esso strumentale, risultano peraltro irrilevanti e, quindi, di per sé non concludenti, la collaborazione, la continuità dell’attività svolta e la forma della retribuzione.
Il cumulo delle qualifiche è dunque ammesso se, verso il pagamento di una regolare retribuzione, sussiste un regolare rapporto di lavoro subordinato che si affianca a quello di amministratore, ma le mansioni inerenti alla qualifica di dirigente dovrebbero essere estranee a quelle riferite alla carica societaria. Inoltre il dirigente è (rectius: deve essere) sottoposto a un effettivo potere gerarchico di controllo, disciplinare e di direzione da parte di un altro organo a lui sovraordinato.
In conclusione, la carica di semplice consigliere di amministrazione senza deleghe è dunque compatibile con il rapporto dirigenziale.
Nel caso di amministratore unico è ex se esclusa, invece, la possibilità della compresenza del rapporto di lavoro subordinato e della carica di amministratore.
Nel caso di amministratore delegato è infine esclusa (salvo prova contraria, come appunto ritenuto nel caso della sentenza in esame) la possibilità che questi sia titolare anche di un rapporto di lavoro subordinato.
A ben vedere, al limite, la liceità della compresenza della carica di amministratore delegato con la qualifica di dirigente non dovrebbe comunque essere dubitabile laddove la delega dei poteri conferiti sia circoscritta all’ordinaria amministrazione.
27 aprile 2015
Giovambattista Palumbo