Le riserve societarie rappresentano un prezioso strumento di protezione del capitale, ma la loro gestione diventa complessa quando sono in sospensione d’imposta. L’utilizzo di queste riserve per coprire perdite non genera tassazione e estingue il vincolo fiscale sulla quota impiegata. Il chiarimento offre nuove possibilità operative per risanamento patrimoniale e pianificazione strategica.
1. Le riserve come cuscinetto di salvaguardia del capitale
Nel diritto societario, le riserve patrimoniali rappresentano il primo presidio contro l’erosione del capitale sociale. Esse, infatti, possono essere utilizzate per:
- distribuire dividendi, se disponibili;
- incrementare gratuitamente il capitale sociale;
- coprire perdite d’esercizio.
È quest’ultimo l’utilizzo che assume rilievo nelle fasi di crisi: ridurre le perdite attraverso l’assorbimento da parte delle riserve significa evitare l’erosione diretta del capitale, salvaguardando la continuità aziendale ed evitando gli obblighi di riduzione ex artt. 2446 e 2447 c.c.
Fino a qui, nulla di nuovo: il principio secondo cui le riserve rappresentano lo strumento naturale di copertura delle perdite risulta consolidato nella prassi.
2. Il nodo delle riserve in sospensione d’imposta
Il discorso si complica quando le riserve sono qualificate “in sospensione d’imposta”: si tratta di poste di patrimonio netto costituite in applicazione di norme agevolative, che hanno consentito alla società di rinviare la tassazione.
Questa caratteristica peculiare genera interrogativi specifici circa gli effetti fiscali del loro utilizzo.
Un esempio tipico è il saldo attivo di rival