La conciliazione giudiziale fissa il perimetro del reato penale

il contribuente che intende usufruire degli strumenti deflattivi del contenzioso deve valutare se l’accordo col Fisco può pregiudicare la sua difesa in caso di contestazione di reati tributari

Con la sentenza n.19138 del 9 maggio 2014 della III Sezione penale la Corte di Cassazione ha confermato che, “sia pure con riferimento al reato di dichiarazione infedele, che, pur non essendo il giudice vincolato, nella determinazione dell’imposta evasa da ritenersi rilevante onde reputare accertato o meno il superamento della soglia di punibilità, all’imposta risultante a seguito dell’accertamento con adesione o del concordato fiscale tra Amministrazione finanziaria e contribuente, è tuttavia necessario che, onde potersi discostare dal dato quantitativo convenzionalmente accertato e tenere, invece, conto dell’iniziale pretesa tributaria dell’Erario, risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta” (Sez. 3, n. 5640 del 02/12/2011 – dep. 14/02/2012 e Sez. 3, sentenza n. 37954 del 2012).

Nel caso di specie, “la stessa ordinanza impugnata da atto dell’intervenuto accertamento con adesione o, comunque, di un concordato in forza del quale l’importo, inizialmente ammontante ad € 689.400,00, è stato poi ridotto – nella prospettazione difensiva – sino ad € 351.155,01, per di più comprensivo, a quel risulta, anche delle sanzioni. È quindi ben possibile che la pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria venga ridimensionata o addirittura invalidata nel giudizio innanzi al giudice tributario, senza che ciò possa vincolare il giudice penale e senza che possa quindi escludersi che quest’ultimo pervenga – sulla base di elementi di fatto in ipotesi non considerati dal giudice tributario – ad un convincimento diverso: è ovvio però che di tale diverso convincimento occorre dare specifica e congrua motivazione”.

Precisano i giudici che “i possibili esiti del giudizio tributario, che può definirsi anche con una pronuncia meramente in rito, costituiscono un dato ben distinto dalla pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria. L’accertamento con adesione e ogni forma di concordato fiscale si collocano sul crinale della distinzione appena tracciata: c’è un’iniziale pretesa tributaria che poi viene ridimensionata non già dal giudice tributario, ma da un atto negoziale concordato tra le parti del rapporto. Anche in tal caso, dunque, il giudice penale non è vincolato all’imposta così “accertata”; ma per discostarsi dal dato quantitativo risultante dall’accertamento con adesione o dal concordato fiscale per tener conto invece dell’iniziale pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria, occorre che risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta”.

A fronte della documentata esistenza, per gli anni di imposta 2007, 2008 e 2009 (nonché, per l’anno 2006 e l’anno 2010, di un debito tributario pari a zero) di una conciliazione giudiziale con l’Agenzia delle entrate chiaramente indicante una rideterminazione della imposta evasa in misura nettamente inferiore a quella indicata in imputazione, “il Tribunale ha omesso ogni valutazione degli elementi da essa emergenti, giustificando il proprio convincimento della sussistenza, anche sotto tale preliminare profilo, del fumus commissidelicti, con l’affermazione secondo la quale la conciliazione giudiziale non rileverebbe sotto il profilo penale e non apparirebbe decisiva al fine di rideterminare l’ammontare del profitto del reato tributario: affermazione evidentemente apodittica, che non tiene conto del ben diverso criterio di calcolo seguito dall’amministrazione finanziaria e della relativa determinazione finale (che pure, come detto, costituisce invece dato dal quale il giudice penale non può prescindere)”.

Breve nota

A partire dai concordati perfezionati dal 15 aprile 2000, data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 74/2000, la causa di esclusione della punibilità prima prevista si è trasformata in circostanza attenuante, rilevante e produttiva di effetti a seguito del pagamento del debito tributario.

In particolare, l’art. 13 del D.Lgs. n. 74/2000 ha sancito che le pene previste per i delitti di cui al citato decreto sono diminuite fino alla metà (oggi solo fino ad 1/3, per effetto del D.L. n.138/2001) e non si applicano le pene accessorie indicate nell’art.12 se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti medesimi sono stati estinti mediante il pagamento, anche a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie.

La pronuncia del 2012

Con sentenza n. 5640 del 14 febbraio 2012 (ud. 2 dicembre 2011) la Corte di Cassazione Penale, Sez. III, ha agganciato l’adesione redatta al penale.

La questione trae origine dal ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Napoli, avverso l’ordinanza del tribunale di Napoli.

Il P.M. presso il tribunale di Napoli procedeva nei confronti di M.N. per il reato di evasione d’imposta di Euro 127.514,82 per l’anno 2008 (D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 4).

In data 12 aprile 2011 il GIP del Tribunale di Napoli disponeva il sequestro preventivo dei beni mobili ed immobili nel possesso dell’indagato per un ammontare di valore complessivo equivalente alla imposta evasa.

Avverso tale decreto la difesa del M. proponeva rituale e tempestiva istanza di riesame in data 2.5.2011.

In udienza il difensore dell’indagato depositava memoria con allegata documentazione tributaria “per dimostrare come l’ammontare della imposta evasa era stato più concretamente determinato dall’Ufficio dell’Agenzia delle entrate di Pozzuoli (definizione bonaria della vertenza tributaria, verbale del 16 marzo 2011) in Euro 31.685,64, somma da corrispondere attraverso un piano d’ammortamento, la cui prima rata risultava già versata dal contribuente. Concludeva quindi per l’annullamento dell’impugnato decreto di sequestro per difetto dei presupposti di legge, ponendosi l’ammontare della imposta evasa ben al di sotto della soglia di punibilità prevista dalla legge (Euro 103.291, 38)”.

Il tribunale del riesame con ordinanza del 10 maggio 2011 accoglieva l’istanza dell’indagato e per l’effetto annullava il decreto di sequestro preventivo e disponeva l’immediata restituzione all’avente diritto dei beni sottoposti a sequestro in esecuzione del decreto impugnato.

Osservava il Tribunale che la difesa aveva dimostrato che l’ammontare della somma evasa, ad un più corretto ed approfondito accertamento svolto in contraddittorio, era ampiamente inferiore alla soglia di punibilità prevista dalla legge per il delitto contestato.

Avverso questa pronuncia il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Napoli propone ricorso per cassazione con un unico motivo, con il quale invoca il principio sancito dall’art. 20, del D.Lgs. n. 74 del 2000, secondo cui il procedimento amministrativo tributario e il giudizio tributario, in caso di contenzioso, non possono condizionare l’indagine penale in corso. “Ciò implica che le evidenze raccolte in sede di indagine preliminare vanno sottoposte al vaglio tipico della procedura penale; il che può comportare la sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti di frode al fisco o di dichiarazione infedele, nonostante ogni diversa valutazione fatta l’Ufficio finanziario. Nel caso concreto il Tribunale – sostiene il Procuratore della Repubblica ricorrente – ha omesso di verificare se le risultanze fornite dalla Guardia di Finanza costituissero comunque indizi gravi precisi e concordanti sulla sussistenza del reato e dunque sull’ammontare dell’imposta evasa per come calcolata dalla GdF, sulla base delle prove documentali raccolte e della ricostruzione svolta. La negoziazione tra il contribuente e il Fisco è invece valutabile penalmente soltanto all’atto dell’irrogazione delle pena, come circostanza attenuante, ma non incide sulla verifica della prova del fatto”.

La Corte di Cassazione prende atto che il reato per il quale si procede è quello di dichiarazione infedele contemplato dall’art. 4, del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, che prevede che, fuori dei casi di dichiarazione fraudolenta di cui agli artt. 2 e 3, è punito (con la reclusione da uno a tre anni) chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi. La condotta quindi consiste nella dichiarazione non veritiera. Tale condotta è però penalmente rilevante solo quando, congiuntamente, prima delle ultimi modifiche introdotte dal D.L. n.138/2011,:

a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, ad € 103.291,38;

b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore ad € 2.065.827,60.

Il superamento di tale soglia, all’epoca vigente, rappresentata dall’ammontare dell’imposta evasa costituisce (come già riconosciuto dalla Suprema Corte, Cass., sez. 3′, 26 maggio 2011 – 23 giugno 2011, n. 25213) una condizione oggettiva di punibilità, come tale sottratta alla rappresentazione del fatto da parte del soggetto agente. Una soglia di punibilità analoga, ma meno elevata, è fissata dal successivo art. 5, del D.Lgs. n. 74 del 2000, che prevede l’ipotesi dell’omessa dichiarazione dei redditi.

Al di sotto di tale soglia di punibilità l’interesse dell’amministrazione finanziaria all’esattezza delle dichiarazioni annuali dei redditi e dell’IVA è presidiato dalle conseguenze civilistiche della violazione dell’obbligo posto a carico del contribuente (interessi di mora e sanzioni). Rileva quindi, in linea di massima, l’accertamento del quantum dell’obbligo tributario (Cfr. Cass., sez. 3′, 28 aprile 2011 – 21 giugno 2011, n. 24811) che ha affermato che al fine del superamento della soglia di punibilità il giudice può legittimamente avvalersi dell’accertamento induttivo dell’imponibile compiuto dagli uffici finanziari. Ma non è ipotizzabile il reato laddove la pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria si collochi al di sotto della soglia suddetta. Ciò non toglie però che – come ha affermato Cass., sez. 3′, 26 febbraio 2008 – 28 maggio 2008, n. 21213) – che ai fini dell’individuazione del superamento o meno della soglia di punibilità, spetta esclusivamente al giudice penale il compito di procedere all’accertamento e alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche ad entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario”.

Prosegue la Corte: “è ben possibile che la pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria venga ridimensionata o addirittura invalidata nel giudizio innanzi al giudice tributario. Ciò però non vincola il giudice penale e quindi non può escludersi che quest’ultimo possa eventualmente pervenire – sulla base di elementi di fatto in ipotesi non considerati dal giudice tributario – ad un convincimento diverso e ritenere nondimeno superata la soglia di punibilità per essere l’ammontare dell’imposta evasa superiore a quella accertata nel giudizio tributario”.

Il principio che ne deriva è che “il giudice penale non è vincolato all’accertamento del giudice tributario, ma non può prescindere dalla pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria”.

Infatti, “l’accertamento con adesione e ogni forma di concordato fiscale si collocano sul crinale della distinzione appena tracciata: c’è un’iniziale pretesa tributaria che poi viene ridimensionata non già dal giudice tributario, ma da un atto negoziale concordato tra le parti del rapporto. Nondimeno il giudice penale non è vincolato all’imposta così ‘accertata’; ma per discostarsi dal dato quantitativo risultante dall’accertamento con adesione o dal concordato fiscale per tener conto invece dell’iniziale pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria al fine della verifica della soglia di punibilità prevista dagli artt. 4 e 5 citati occorre che risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta”.

Nel caso di specie il tribunale ha verificato che l’imposta risultante dall’accertamento con adesione era (sensibilmente) inferiore alla soglia di punibilità e “correttamente ha ritenuto venir meno, al fine della cognizione dei fatti in sede cautelare, il fumus commissi delicti. Laddove il Procuratore della Repubblica ricorrente, pur esattamente deducendo l’autonomia di valutazione del giudice penale, non ha allegato alcuna circostanza di fatto, risultante dagli atti di indagine e non considerata dal tribunale, per poter ritenere che l’imposta evasa fosse di importo maggiore e raggiungesse la soglia di punibilità”.

La sentenza del 2013

Richiamando proprio la pronuncia del 2012 (la sentenza n. 5640 del 02.12.2011, dep. il 14.02.2012), la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n.17706 del 18.4.2013, ha ritenuto che “ l giudice penale non è vincolato dalle risultanze dell’atto negoziale concordato dal contribuente evasore con l’ente impositore, ma sola dalla considerazione metodologica dell’esistenza di un tale diverso contenuto dell’obbligazione tributaria, rispetto a quella originariamente contestata con l’avviso di accertamento. Il Giudice, Infatti, deve solo considerare le due diverse motivazioni e aderire a quella delle due che le risultanze processuali indicano come provata. Ciò che nella specie è stato, avendo i giudici di merito motivato, in maniera esaustiva e priva di vizi logici e giuridici, In ordine alla veridicità del primo accertamento, alla stregua dei dati e degli elementi univocamente indiziari come sopra richiamati”.

La pronuncia del 2014

Con la sentenza n.7615 del 18 febbraio 2014, n. 7615 la Corte di Cassazione fa giocare l’atto di adesione redatto sul calcolo delle soglie di punibilità. Per quel che qui ci interessa, il ricorrente deduce violazione di legge, per avere il giudice a quo erroneamente ravvisato il superamento, nelle fattispecie considerate, delle soglie di punibilità previste dall’art. 4 D.lgs. n. 74/2000, ed altrettanto erroneamente calcolato l’imposta evasa ai sensi dell’art. 1 del medesimo decreto, derivandone l’erroneo riscontro del fumus commissi delicti. Rileva, infatti, che la stessa amministrazione finanziaria aveva provveduto alla ridefinizione degli importi recuperati a tassazione per gli anni dal 2005 al 2009 (per il 2007 a seguito di accertamento con adesione), ponendo la relativa pretesa, per ciascun anno di imposta, al di sotto della soglia di rilevanza penale.

Per la Corte, il ricorso si rivela fondato sul punto in relazione al motivo sopra esposto. La condotta punita dall’art. 4 D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, consiste nella indicazione, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o di elementi passivi fittizi (c.d. dichiarazione infedele), al superamento delle soglie ivi previste. Il superamento della soglia rappresentata dall’ammontare dell’imposta evasa costituisce, pertanto, una condizione oggettiva di punibilità (Sez. 3, n. 25213 del 26/05/2011, Calcagni, Rv. 250656).

Osserva la Corte che, “ai fini dell’individuazione del superamento o meno della soglia di punibilità, spetta esclusivamente al giudice penale il compito di procedere all’accertamento e alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche ad entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria (Sez. 3, n. 36396 del 18/05/2011, Mariutti, Rv. 251280; Sez. 3, n. 21213 del 26/02/2008, De Cicco, Rv. 239984). È quindi ben possibile che la pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria venga ridimensionata o addirittura invalidata nel giudizio innanzi al giudice tributario, senza che ciò possa vincolare il giudice penale e senza che possa quindi escludersi che quest’ultimo pervenga – sulla base di elementi di fatto in ipotesi non considerati dal giudice tributario – ad un convincimento diverso e ritenere nondimeno superata la soglia di punibilità per essere l’ammontare dell’imposta evasa superiore a quella accertata nel giudizio tributario. E ovvio però che di tale diverso convincimento occorre dare specifica e congrua motivazione”.

La Corte precisa, altresì, “che i possibili esiti del giudizio tributario, che può definirsi anche con una pronuncia meramente in rito, costituiscono un dato ben distinto dalla pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria che fissa il limite della soglia di punibilità: il giudice penale non è vincolato all’accertamento del giudice tributario, ma non può prescindere dalla pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria (così Sez. 3, n. 5640 del 2/12/2011 – dep. 14/02/2012, Manco, Rv. 251892). L’accertamento con adesione e ogni forma di concordato fiscale si collocano sul crinale della distinzione appena tracciata: c’è un’iniziale pretesa tributaria che poi viene ridimensionata non già dal giudice tributario, ma da un atto negoziale concordato tra le parti del rapporto. Anche in tal caso, dunque, il giudice penale non è vincolato all’imposta così “accertata”; ma per discostarsi dal dato quantitativo risultante dall’accertamento con adesione o dal concordato fiscale per tener conto invece dell’iniziale pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria al fine della verifica della soglia di punibilità prevista dall’art. 4 citato, occorre che risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta”.

Nel caso di specie, “a fronte della documentata esistenza, per gli anni di imposta 2006, 2008 e 2009 di avvisi di accertamento notificati dall’Agenzia delle entrate chiaramente indicanti una rideterminazione della imposta evasa in misura nettamente inferiore non solo a quella indicata in imputazione ma anche alla soglia di punibilità predetta, il Tribunale ha omesso ogni valutazione degli elementi da essa emergenti”.

24 luglio 2014

Francesco Buetto