L'utilizzabilità della lista Falciani in sede processuale

come è noto la cd. “Lista Falciani” è una lista nera di contribuenti con fondi depositati nei paradisi fiscali; quale valore processuale ha in Italia questa lista ai fini di un accertamento?

Premessa

Come ormai noto, nell’ambito dei canali di collaborazione informativa internazionale previsti dalla Direttiva n. 77/799/CEE del Consiglio del 19/12/1977 e dalla Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Francia, sono state acquisite, presso l’amministrazione fiscale francese, informazioni (la cosiddetta “lista Falciani”) riguardanti diversi contribuenti italiani, nei confronti dei quali sono state poi avviate attività accertative.

La documentazione reperita da principio dall’amministrazione fiscale francese, consisteva in una scheda (Fiche) relativa al profilo cliente, associato ad un rapporto costituito da un conto corrente e da attività finanziarie, detenuto presso la banca svizzera HSBC, unitamente ad un prospetto relativo alle disponibilità detenute presso il rapporto de quo in un determinato periodo temporale.

A fronte dei recuperi poi contestati ai contribuenti sulla base di tale documentazione, l’eccezione principe che viene sollevata in sede contenziosa attiene alla asserita inutilizzabilità della documentazione così reperita.

L’eccezione però risulta a ben vedere infondata.

Alcune Commissioni di merito, tuttavia, continuano ad accogliere i ricorsi, ritenendo che la documentazione acquisita dall’Amministrazione Finanziaria da quella francese grazie alle procedure comunitarie di cooperazione internazionale non sia utilizzabile, in quanto viziata, ab origine, dal fatto che era stata sottratta da un dipendente infedele della banca (il Sig. Falciani appunto), grazie ad un atto illecito di pirateria informatica, o comunque di accesso abusivo al sistema informatico della banca presso cui erano custoditi i nomi di cittadini (anche) italiani, poi risultati detentori di capitali e disponibilità mai dichiarati ai fini fiscali.

E questo anche a prescindere dalla mancanza di un’espressa disposizione sanzionatoria di inutilizzabilità in sede tributaria di documenti asseritamente illecitamente acquisiti (come invece espressamente presente in sede penale ex art. 191 cpp).

In sostanza, infatti, in base a tale tesi, l’atto impositivo sarebbe in questi casi fondato su un vero e proprio corpo di reato.

L’utilizzabilità dei documenti posti alla base degli accertamenti dell’Amministrazione Finanziaria

Il fenomeno della globalizzazione ha comportato la necessità per i governi e le Amministrazioni finanziarie dei vari Paesi di intensificare il contrasto all‘evasione e all‘elusione fiscale internazionale con un intervento congiunto.

I singoli Stati hanno così acconsentito a limitare la propria sovranità per stimolare l’introduzione di regole fiscali comuni e limitare la patologica riduzione del gettito fiscale. L’acquisita consapevolezza dell’impotenza del singolo Stato di fronte a tipologie di reddito derivanti da fattori volatili e ad atti economicamente rilevanti e produttivi di effetti oltre i confini di un unico Paese, ha creato le condizioni per lo sviluppo della cd. cooperazione internazionale.

La cooperazione internazionale deve naturalmente realizzarsi attraverso una disciplina comune che permetta ai singoli Stati, ai fini dell‘accertamento quanto della riscossione delle imposte oltre i propri confini, di esigere assistenza dagli Altri.

In tal senso lo stesso Consiglio dell‘Unione europea nelle premesse alla recente direttiva n. 2011/16/UE del 15 febbraio 2011, emanata in materia di cooperazione amministrativa nel settore fiscale, ha rilevato che “Nell‘era della globalizzazione la necessità per gli Stati membri di prestarsi assistenza reciproca nel settore della fiscalità si fa sempre più pressante. (…) Per questo motivo uno Stato membro non può gestire il proprio sistema fiscale interno, soprattutto per quanto riguarda la fiscalità diretta, senza ricevere informazioni da altri Stati membri. Per ovviare agli effetti negativi di questo fenomeno è indispensabile mettere a punto una nuova cooperazione amministrativa fra le amministrazioni fiscali dei diversi Stati membri. È necessario disporre di strumenti atti a instaurare la fiducia fra gli Stati membri mediante l‘istituzione delle stesse norme e degli stessi obblighi e diritti per tutti gli Stati membri”.

Le convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sottoscritte dall’Italia, come noto, sono ispirate al Modello Ocse. La principale fonte di regolamentazione è, dunque, l’art. 26 del Modello OCSE.

In ambito comunitario la materia è disciplinata dalla nota direttiva n. 77/799/CEE che detta la procedura riguardante lo scambio di informazioni tra Stati appartenenti all’Unione europea.

Come detto, dunque, la documentazione in contestazione, utilizzata in sede accertativa, proviene dall’Autorità francese, nell’ambito degli ordinari canali di collaborazione internazionale (predisposti proprio in funzione del contrasto all’evasione fiscale) e la sua conformità a quella ivi rinvenuta è incontestata ed incontestabile.

L’Amministrazione Finanziaria italiana ha legittimamente acquisito e legittimamente utilizzato inequivocabile documentazione trasmessagli dall’Amministrazione Finanziaria francese sulla base di apposite direttive comunitarie.

Neppure l’acquisizione della lista da parte dell’Amministrazione Fiscale francese (dato comunque irrilevante nel contenzioso dove si deve al limite solo valutare il comportamento dell’Amministrazione italiana), del resto, è avvenuta in modo illegittimo.

Se poi, alla fine di un qualche processo penale (peraltro in un altro Stato e non in Italia), sarà dimostrato che un cittadino francese ha commesso, secondo un’altra giurisdizione, un qualche reato (sembra di capire in termini di illecita acquisizione informatica), questo non avrà comunque alcun riflesso sulla documentazione acquisita dall’Amministrazione Finanziaria italiana, che non ha mai commesso alcun illecito.

Nessuna illegittimità, neppure derivata, dell’avviso di accertamento è quindi invocabile.

Non derivata dall’utilizzo dell’Amministrazione Finanziaria italiana, in quanto, come visto, legittimo e corretto.

Non derivata dall’utilizzo dell’Amministrazione Finanziaria Francese, in quanto, come visto, legittimo e corretto e non integrante alcun reato.

Derivata, forse, laddove il comportamento sarà accertato come reato con sentenza (di una giurisdizione straniera) passata in giudicato, dall’illecita acquisizione da parte del Sig. Herve Falciani?

Illegittimità (potenzialmente) derivata di terzo grado.

In sintesi.

L’amministrazione Finanziaria italiana, non ha commesso alcun reato nell’acquisire tale documentazione.

L’amministrazione Finanziaria francese non ha commesso alcun reato nell’acquisire e nel trasmettere tale documentazione.

E comunque, come noto, anche se lo avessero commesso, questo non avrebbe alcuna influenza sull’utilizzabilità delle prove nel giudizio, dato che le stesse prove, ai fini tributari, in assenza di una specifica norma (come invece accade nel processo penale) sono sempre utilizzabili e vanno valutate solo nella loro attendibilità.

In tale senso, si è espressa la Corte di Cassazione con sentenza n. 8344 del 19.06.01, secondo la quale: Non esiste, cioè, nell’ordinamento tributario un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite. Tale principio è stato introdotto nei “nuovo” codice di procedura penale, e vale, ovviamente, soltanto all’interno di tale specifico sistema procedurale (si veda l’art. 191 c.p.p.). L’acquisizione irrituale di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale non comporta la inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso “.

Nello stesso senso anche la sentenza n. 3852 del 16 marzo 2001 la cui massima afferma: “l’inutilizzabilità è categoria giuridica valida solo per il processo penale e, in specie, la … mancata previsione nel processo tributario non determina sospetti di incostituzionalità in ragione della particolare rilevanza degli interessi coinvolti nella giurisdizione penale”, e la sentenza n. 8273 del 26 maggio 2003 la cui massima afferma: “In materia tributaria non vige il principio, presente invece nel codice di procedura penale, secondo cui è inutilizzabile la prova acquisita irritualmente, pertanto gli organi di controllo possono utilizzare tutti i documenti dei quali siano venuti in possesso salvo la verifica della attendibilità, in considerazione della natura e del contenuto dei documenti stessi, e dei limiti di utilizzabilità derivanti da eventuali preclusioni di carattere specifico”.

Più recentemente, in ordine poi all’utilizzabilità nel processo tributario di dati acquisiti senza rispettare le garanzie difensive prescritte per il procedimento penale, la Suprema Corte, con sentenza del 12 novembre 2010 n. 22984, in riforma delle sentenze delle Commissioni Tributarie di primo e di secondo grado, ha statuito che “Il primo motivo di ricorso è fondato. Lamenta sostanzialmente l’Agenzia delle entrate che la C.T.R. abbia statuito l’annullamento dell‘atto impugnato sulla base dell‘errata convinzione che al procedimento tributario fossero applicabili le stesse garanzie previste per il processo penale. Nulla di più errato. Il fatto che gli elementi raccolti dai militari verificatori a fini fiscali senza il rispetto delle formalità di garanzia difensiva prescritte per il procedimento penale, stante la posizione di indiziate della C e della D., non costituisce ragione di inutilizzabilità degli stessi nel procedimento di accertamento fiscale, tenuto conto del principio della autonomia del procedimento penale rispetto alle procedure dell’accertamento tributario già sancito, in linea di principio, nel D. L. n. 429 del 1982, art. 12 e confermato dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 20 in armonia con le disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p. (rispettivamente, sulla autonomia del giudice penale nel decidere incidenter tantum le questioni civili o amministrative, e autonomia del giudice civile o amministrativo nell’accertamento dei fatti posti a base di sentenze penali anche irrevocabili, quando sia differente il regime probatorio). Conseguentemente la rilevanza penale degli accertamenti tributari non comporta l’affievolimento del loro valore probatorio in sede civile o tributaria, mentre le regole e le garanzie previste per il giudizio penale hanno valore soltanto all’interno dello stesso. Tale principio di autonomia dei diversi procedimenti, siano essi civili, tributari o penali è espressamente sancito dall’art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale, quando nel corso di attività ispettive emergono indizi di reato, ma soltanto ai fini della “applicazione della legge penale””.

Ancora, con la recente Sentenza n. 1860 del 29 gennaio 2014, la Cassazione haosservato che, in materia tributaria, gli “elementi raccolti a carico del contribuente dai militari della Guardia di Finanza, senza il rispetto delle formalità di garanzia difensiva prescritte per il procedimento penale, non sono inutilizzabili nel procedimento di accertamento fiscale, stante l’autonomia del processo penale rispetto a quello di accertamento tributario. E ciò secondo un principio, oltre che sancito dalle norme sui reati tributari (D.L. n. 429 del 1982, art. 12 successivamente confermato dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 20), desumibile anche dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p., ed espressamente previsto dall’art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale, quando nel corso di attività ispettive emergano indizi di reato, ma soltanto ai fini dell'”applicazione della legge penale” (Cass. 22984/10; 6939/01). Ne discende che le informazioni acquisite dalla Guardia di Finanza e trasmesse all’Amministrazione finanziaria, entrano a far parte, a pieno titolo, del materiale probatorio che il giudice tributario di merito deve valutare … (Cass. 2916/13)”.

La sentenza della Cassazione n. 29433 del 10 luglio 2013

Ad ulteriore conferma della piena utilizzabilità della documentazione, la Cassazione, con la Sentenza n. 29433 del 10 luglio 2013, si è espressa su un’analoga questione relativa proprio alla documentazione della lista Falciani.

Tale sentenza non è stata forse ad oggi valutata nella sua dirompenza.

Il ricorrente, infatti, nominativo della lista Falciani, proponeva ricorso per cassazione avverso l’ordinanza con la quale il Gip del tribunale di Milano accoglieva la richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero nell’ambito del procedimento penale, ma, contestualmente, rigettava l’istanza di distruzione avanzata dalla difesa della documentazione da cui avrebbe tratto origine il procedimento stesso.

L’istanza di distruzione riguardava, anche in quel caso, la documentazione trasmessa alle autorità amministrative italiane sulla base degli strumenti di cooperazione internazionale previsti dalla direttiva 77/799/CE e della convenzione sulla doppia imposizione in vigore tra Italia e Francia, e riguardava in particolare la cosiddetta “lista Falciani”.

La difesa aveva chiesto al PM di attivare la procedura di distruzione della documentazione contenuta nel fascicolo d’indagine ai sensi dell’art. 240 c.p., ma il PM non aveva ritenuto di attivarsi nel senso richiesto all’esito delle indagini concluse con la richiesta di archiviazione.

La stessa difesa sollecitava pertanto il gip – già richiesto del provvedimento di archiviazione da parte della procura della Repubblica – di vagliare la richiesta di distruzione dei documenti e quest’ultimo fissava di conseguenza udienza camerale all’esito della quale pur accogliendo la richiesta di archiviazione, rigettava quella di distruzione dei documenti.

Il gip, recependo il parere contrario del PM, respingeva la richiesta osservando, nel merito, che mancava comunque la prova che la documentazione di cui si chiedeva la distruzione fosse stata illecitamente acquisita.

Deduceva quindi il ricorrente, sostenendo che anche in caso di dubbio si sarebbe dovuto disporre la distruzione.

Secondo la Cassazione però il ricorso era inammissibile, nessun autonomo potere di attivazione della pronuncia del GIP essendo previsto direttamente per la parte diversa dal PM e ciò a differenza di quanto ad esempio è sancito dall’art. 269 c.p.p., comma 2, che facoltizza qualsiasi parte a chiedere a tutela della riservatezza la distruzione dei verbali e delle registrazioni relative alle intercettazioni telefoniche al giudice che ha autorizzato o convalidato l’intercettazione.

La Corte ricorda poi che il legislatore, oltre ad estendere l’ambito di applicazione dell’art. 240 c.p.p., includendo nella disposizione oltre ai documenti anonimi anche quelli illegalmente formati attraverso l’attività illecita di intercettazione o di acquisizione comunque illegale di informazioni, il aveva affidato all’autorità giudiziaria il compito di procedere alla distruzione e che la soluzione adottata era stata oggetto di interventi emendatori operati dal Senato in sede di conversione, essendosi posta la necessità di chiarire chi tra giudice e pubblico ministero avesse l’effettivo potere di disporre la distruzione.

Il nodo infine era stato sciolto in favore del GIP, ma con la precisazione che lo stesso debba procedere su istanza del solo pubblico ministero.

E, conclude la Corte, “proprio il caso di specie dimostra le ragioni della scelta operata. Il compito di verificare ed accertare eventuali profili di illiceità nella formazione dell’atto di cui si chiede la distruzione non può che rientrare, infatti, nella competenza esclusiva del PM in quanto accessoria all’attività di raccolta delle prove da parte di quest’ultimo, ferma restando ovviamente la sanzionabilità in via autonoma di eventuali abusi. Peraltro l’inutilizzabilità degli atti illegalmente formati a mente dell’art. 240 c.p.p., comma 2, nella attuale formulazione non preclude che gli stessi possano valere come spunto di indagine, … (cfr. Sez. 1 sentenza del 5.12.2007 n. 45566 RV 238143)”.

E se dunque, perfino nel processo penale:

– nessuna prova sussisteva in ordine alla illecita acquisizione della lista Falciani (come confermato dal GIP nel caso sopra evidenziato);

– comunque, anche laddove vi fosse stata questa prova (e non c’era), gli atti anche illecitamente acquisiti valevano come spunto di indagine (anche penale), come appunto confermato dalla Cassazione nella sentenza sopra citata;

Allora, anche alla luce delle precedenti argomentazioni, davvero allora alcun dubbio può sussistere sulla utilizzabilità della documentazione in esame in sede tributaria.

20 maggio 2014

Giovambattista Palumbo