Transfer price: interessi passivi e valore normale

tale normativa ha la finalità di consentire all’Amministrazione finanziaria un controllo dei corrispettivi applicati alle operazioni commerciali e/o finanziarie intercorse tra società collegate e/o controllate residenti in nazioni diverse, al fine di evitare che vi siano aggiustamenti “artificiali” di tali prezzi, determinati dallo scopo di ottimizzare il carico fiscale di gruppo, ad esempio canalizzando il reddito verso le società dislocate in aree o giurisdizioni caratterizzate da una fiscalità più mite…

Con la sentenza n. 22010 del 25 settembre 2013 (ud. 4 luglio 2013) la Corte di Cassazione ha affermato che per ritenere sussistente il transfer pricing va provato lo scostamento dal valore normale.

Come è noto, il c.d. transfer pricing s’incentra sulla corretta applicazione della normativa in materia di prezzi di trasferimento tra parti correlate.

Tale normativa ha la finalità di consentire all’Amministrazione finanziaria un controllo dei corrispettivi applicati alle operazioni commerciali e/o finanziarie intercorse tra società collegate e/o controllate residenti in nazioni diverse, al fine di evitare che vi siano aggiustamenti “artificiali” di tali prezzi, determinati dallo scopo di ottimizzare il carico fiscale di gruppo, ad esempio canalizzando il reddito verso le società dislocate in aree o giurisdizioni caratterizzate da una fiscalità più mite.

 

Il RILIEVO

A seguito di una verifica fiscale effettuata presso la S.G.L.C. s.p.a., relativamente all’anno d’imposta 2004, i cui risultati venivano trasfusi nel PVC, veniva notificato alla contribuente un avviso di accertamento, col quale l’Ufficio recuperava a tassazione, ai fini IRES, gli interessi passivi indebitamente dedotti, in misura di € 267.621,86, su un finanziamento erogato dalla società capogruppo tedesca S.G.L.C. A.G. alla società italiana S.G.L.C. s.p.a..

L’Amministrazione finanziaria riteneva, infatti, che il tasso d’interesse applicato alla suddetta operazione infragruppo fosse notevolmente superiore a quello medio praticato nel mercato tedesco, e risultante dai relativi bollettini ufficiali, sì da ingenerare il convincimento che si trattasse di un’operazione elusiva (in violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, c. 7) diretta, mediante levitazione dei costi, a ridurre il reddito imponibile della contribuente ai fini IRES, incrementando quello della capogruppo tedesca.

 

LA SENTENZA

La Corte, innanzitutto, rileva che l’aspetto più complesso e delicato, in relazione all’applicazione della disciplina in esame (e la cui corretta impostazione si palesa decisiva per la risoluzione del caso di specie) è costituito dall’individuazione del “valore normale“, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, c. 3, al quale l’Amministrazione finanziaria ancora la determinazione del componente del reddito d’impresa, costituito dal corrispettivo derivante dalla cessione di beni o servizi effettuata tra società appartenenti allo stesso gruppo. Il problema che si pone al riguardo, sul piano interpretativo, concerne anzitutto il rapporto tra la prima e la seconda parte dell’art. 9, c. 3, del TUIR.

Tra i diversi criteri indicati dal modello OCSE del 1995, per la valutazione dei corrispettivi delle transazioni commerciali tra le imprese associate di un gruppo multinazionale, il legislatore italiano ha prescelto quello del “confronto del prezzo“, la cui disciplina si articola nella prima e seconda parte dell’art. 9, c. 3, del D.P.R. n. 917 del 1986.

Il criterio prioritario per stabilire il “valore normale” dei corrispettivi, nelle operazioni intercorse tra imprese appartenenti ad un gruppo multinazionale, non possa essere che quello (enunciato dalla seconda parte del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3, che disciplina specificamente le modalità “per la determinazione” del valore in questione) secondo cui deve farsi riferimento “in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso“. La norma, in altri termini, impone all’Amministrazione di prendere in considerazione, nell’accertamento del reddito di impresa, in via principale, i “listini” e le “tariffe” del venditore dei beni o del prestatore di servizi a società dello stesso gruppo, tenuto conto anche degli sconti che il medesimo è usualmente disposto a praticare nel mercato di appartenenza. Quindi (in caso d’inesistenza, d’inapplicabilità o d’inattendibilità del listino o della tariffa) la medesima disposizione dispone di prendere in esame, in via subordinata, i “mercuriali” ed i “listini delle camere di commercio“, o le “tariffe professionali“.

Ne discende per la Corte che la definizione del “valore normale” contenuta nella prima parte del citato art. 9, c. 3, sebbene non possa essere intesa come una mera declaratoria di principio, avendo anch’essa un innegabile valore precettivo, svolge, tuttavia, un ruolo sussidiario e suppletivo, rispetto a quello prioritario svolto dai criteri per la “determinazione” del valore normale dei prezzi per le cessioni infragruppo. Siffatta definizione opera, cioè, nel solo caso in cui il riferimento ai listini, alle tariffe ed ai mercuriali, in uso nel mercato del cedente, si riveli di nessuna utilità pratica, per la loro inesistenza, inapplicabilità o inattendibilità.

E’ pertanto del tutto evidente rileva la Corte che nell’applicazione del metodo del “confronto di prezzo” occorre dare preferenza al c.d. confronto interno, basato sui listini e le tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi nel rapporto tra tale soggetto ed un’impresa indipendente, atteso che è ai suddetti elementi documentali di raffronto che l’Amministrazione deve anzitutto riferirsi, “in quanto possibile“, e tenuto conto di eventuali “sconti d’uso“.

In seconda battuta, l’Amministrazione dovrà fare riferimento alle mercuriali ed ai listini delle camere di commercio, ovvero alle tariffe professionali, nell’esame delle transazioni comparabili tra imprese indipendenti (c.d. confronto esterno) appartenenti allo stesso mercato, ossia a quello del soggetto fornitore dei beni o dei servizi. Infine, ed in via del tutto sussidiaria e suppletiva, l’Ufficio potrà fare ricorso (ai sensi della prima parte dell’art. 9, c. 3, citato) al prezzo “mediamente praticato” ed in “condizioni di libera concorrenza” per beni o servizi similari, “nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi“.

Nel caso di specie l’Amministrazione finanziaria si è correttamente uniformata ai criteri suesposti. “Ed invero, l’Ufficio ha proceduto a verificare il valore normale del tasso di interesse relativo alla transazione intercorsa tra le due società, facendo riferimento al mercato del mutuante, e sulla base dei bollettini ufficiali della BundesBank tedesca, in conformità al disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3, seconda parte”.

Sulla scorta di tali dati, quindi, l’Ufficio ha accertato che il tasso d’interesse medio praticato sul mercato finanziario-creditizio tedesco, ovvero dello Stato di residenza del soggetto mutuante, “è inferiore a quello adottato per l’operazione di finanziamento in commento“.

Se ne è, pertanto, “tratta la conclusione – del tutto corretta, per quanto dianzi esposto – della indeducibilità fiscale, dal reddito societario rilevante ai fini IRES, dei costi rappresentati da detti interessi, evidentemente maggiorati allo scopo di accrescere gli utili della capogruppo tedesca, diminuendo quelli della consorella italiana per sottrarli alla tassazione nazionale, in palese violazione dell’art. 110, comma 7 del decreto cit.”

Nè giova alla ricorrente dedurre il difetto di prova, da parte dell’Amministrazione, in ordine al presunto trattamento fiscale più favorevole in capo alla capogruppo tedesca. Ed invero, l’onere della prova gravante sull’Ufficio, nella materia in esame, resta limitato alla dimostrazione dell’esistenza di transazioni tra imprese collegate e dello scostamento evidente tra il corrispettivo pattuito e quello di mercato (valore normale), non essendo tale onere esteso alla prova della funzione elusiva dell’operazione. “Per contro, a fronte degli elementi probatori offerti dall’Amministrazione, incombe sul contribuente l’onere di dimostrare – in forza del principio di vicinanza della prova, desumibile dall’art. 2697 c.c. – non soltanto l’esistenza e l’inerenza dei costi dedotti, ma anche ogni altro elemento che consenta all’Ufficio di ritenere che la transazione sia intervenuta per valori di mercato da considerarsi normali alla stregua del disposto di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3, (cfr. Cass. 11949/12, 10742/13)”.

Nel caso di specie, a fronte dell’allegazione, da parte dell’Ufficio, di dati desumibili, in conformità alla disposizione succitata, dai listini ufficiali della BundesBank, non risulta siano stati offerti dalla contribuente elementi di prova di segno contrario, atti a far ritenere che il corrispettivo (interessi passivi) del mutuo erogato dalla società tedesca fosse in linea con quello medio praticato sul mercato della mutuante.

 

I precedenti giurisprudenziali

Nel corso del 2013 sono due i precedenti della Corte di Cassazione che ci piace ricordare.

  • La sentenza n. 10739 dell’8 maggio 2013 (ud. 28 novembre 2012), con cui la Corte di Cassazione ha riconosciuto legittimo il rilievo dell’ufficio in materia di transfer pricing, anche in assenza di elusione. Secondo la Corte di Cassazione, è “necessario, da parte dell’Amministrazione, soltanto dimostrare l’esistenza di transazioni tra imprese collegate. Spetta invece al contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova di cui all’art. 2697 c.c., dimostrare che le transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali à sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3. Disposizione per la quale, come noto, sono da intendersi normali i prezzi di beni e servizi praticati ‘in condizioni di libera concorrenza’ con riferimento, ‘in quanto possibile’, a listini e tariffe d’uso. Ciò che, quindi, non esclude altri mezzi di prova documentali (Cass. n. 11949 del 2012; Cass. n. 7343 del 2011). La CTR, quindi, non ha correttamente interpretato la disciplina, quando ha preteso dall’Amministrazione la prova dell’elusione e particolarmente la prova di una fiscalità di favore della legge straniera e della anormalità dei prezzi di transazione intergruppo”.

  • La sentenza n. 11949 del 13 luglio 2012 (ud. 4 aprile 2012), peraltro richiamata nella sentenza che si annota, dove la Corte di Cassazione aveva, invece, classificato come elusiva un’operazione di transfer pricing all’interno di un gruppo multinazionale. Per la Corte, se è vero che la violazione di una clausola antielusiva comporta (come ritenuto dal giudice di seconde cure) che l’onere della prova della ricorrenza dei presupposti di fatto dell’elusione gravi, in via di principio, sull’amministrazione finanziaria che intenda operare le conseguenti rettifiche (cfr. Cass. 22023/06), è pur vero che, “ai fini della deducibilità di un costo addebitato da una controllante ad una controllata, è pur sempre necessario che risulti, se non che il costo sia correlato a specifici ricavi conseguiti da quest’ultima, quanto meno che l’addebito di tale costo si sia tradotto in un’effettiva utilità per la controllata. L’onere di fornire la dimostrazione dell’esistenza e dell’inerenza di tali componenti negative del reddito, e qualora si tratti – come nella specie – di costi derivanti da servizi o beni prestati o ceduti da una società controllante estera ad una controllata italiana, anche di ogni elemento che consenta all’amministrazione di verificare il normale valore dei relativi corrispettivi, non può pertanto che cedere – in forza del ed principio di vicinanza alla prova – a carico del contribuente (cfr. Cass. 1709/07)”. La Corte, quindi, rileva l’erroneità dell’impugnata sentenza, laddove ha ritenuto che l’Agenzia non avesse adempiuto l’onere di provare il dedotto comportamento elusivo del contribuente, in violazione delle norme sul transfer pricing. La CTR ha, invero, del tutto pretermesso l’esame dei numerosi e consistenti rilievi, “che l’amministrazione aveva formulato in ordine all’epoca ‘sospetta’ (a fine esercizio) in cui era stata operata la contabilizzazione della predetta fattura passiva, nonchè alla natura stessa dell’operazione, consistente in una rettifica in aumento del prezzo già praticato dalla fornitrice estera su vendite quantitativamente rilevanti di prodotti software, ed in un notevole scostamento dai prezzi di acquisto degli stessi beni da parte della contribuente italiana”.

 

5 novembre 2013

Roberta De Marchi