oramai la giurisprudenza ha assunto una posizione conforme: quando il fisco ritrova documenti contabili non ufficiali, allora si presume che il contribuente abbia evaso
La documentazione extracontabile, che può ben essere costituita da appunti scritti a mano dall’imprenditore, per il suo valore probatorio, legittima di per se stessa, e a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia altro elemento, il ricorso all’accertamento induttivo di cui all’articolo 39 del D.P.R. n. 29 settembre 1973, n. 600. Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza 20 febbraio 2013, n. 4126. Nell’occasione, si darà conto delle numerose altre pronunce di legittimità che nel corso degli anni hanno riconosciuto il valore di prova presuntiva alla contabilità “in nero” reperita presso l’imprenditore. |
Contabilità in “nero”
La Corte di Cassazione, con la sentenza 20 febbraio 2013, n. 4126 ha affermato che la documentazione extracontabile, che può ben essere costituita da appunti scritti a mano dall’imprenditore, per il suo valore probatorio, legittima di per se stessa, e a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia altro elemento, il ricorso all’accertamento induttivo di cui all’articolo 39 del D.P.R. n. 29 settembre 1973, n. 600.
Alla stregua di tale principio di diritto, la Sezione Tributaria ha confermato un avviso di accertamento notificato a una società, che svolgeva attività di commercio di opere d’arte.
L’atto si fondava su un PVC della Guardia di Finanza, la quale aveva rinvenuto, in sede di accesso, alcuni appunti manoscritti dal rappresentante legale della stessa società, nei quali si faceva riferimento a numerose opere e al loro valore.
Ma andiamo con ordine, partendo dai fatti di causa.
Il manoscritto
Il ricorso per cassazione è stato proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Toscana, con la quale, nel respingere l’appello dell’Ufficio, veniva confermata l’illegittimità dell’avviso di accertamento per IRPEG e ILOR e dell’avviso di rettifica per IVA, notificati a una S.r.l., in relazione all’anno 1997, sulla scorta di un processo verbale delle GdF fondato sul rinvenimento di un manoscritto dell’amministratore della società, nel quale erano elencate numerose opere d’arte, con l’indicazione, a fianco, del relativo valore, per un importo complessivo di 4.590.000.000 delle vecchie lire.
Mero indizio?
In sede di merito, sia la CTP che la CTR sono giunte alla conclusione che il detto manoscritto avesse valore “di mero indizio”, da supportare con altri accertamenti, quali il controllo della contabilità.
Lo stesso (manoscritto) non poteva perciò essere utilizzato come fonte di prova certa, soprattutto in considerazione del fatto che la maggior parte dei beni in esso elencati si trovavano nell’abitazione dell’amministratore e non nella sede della società.
Il quesito dell’Ufficio
Dissentendo totalmente dalle conclusioni dei giudici di merito e ritenendo l’accertamento legittimo, l’Agenzia delle Entrate ha denunciato con i primi due motivi di ricorso la violazione dell’art. 54 del D.P.R. n. 633 del 1972, in tema di IVA, e dell’art. 39 del D.P.R. n. 600 del 1973, in tema di imposte dirette, ponendo alla Corte il seguente quesito:
se tali norme, nell’ammettere la rettifica sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, consentano al giudice di disconoscere valore probatorio a documentazione extracontabile acquisita presso la sede di una società e pacificamente redatta dal suo legale rappresentante. |
Terza e quarta doglianza
Con il terzo e il quarto motivo l’Ufficio Finanziario ha invece denunciato, rispettivamente:
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l’ulteriore violazione del citato art. 54 del decreto IVA, perché la sola circostanza del rinvenimento presso l’abitazione del legale rappresentante di una società di beni inerenti l’attività economica di questa non osta a ritenere, anche sulla base di altri elementi presuntivi, che i beni stessi siano stati acquistati dalla società;
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l’insufficienza della motivazione della sentenza gravata ove si ritenga che la CTR abbia accertato in fatto la non appartenenza alla società dei beni indicati nel suddetto documento extracontabile.
Orientamento consolidato
Dunque, la Sezione Tributaria della Cassazione ha accolto il ricorso del Fisco sulla scorta del costante orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale:
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in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la contabilità in nero, che ben può essere costituita da appunti personali dell’imprenditore, rappresenta un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall’art. 39 del D.P.R., n. 600 del 1973, dovendo ricomprendersi tra le scritture contabili disciplinate dall’articolo 2709 e seguenti del codice civile tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore e il risultato economico dell’attività svolta.
Di conseguenza detta contabilità, per il suo valore probatorio, legittima di per sé, e a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia altro elemento, il ricorso all’accertamento induttivo, incombendo al contribuente:
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l’onere di fornire la prova contraria, al fine di contestare l’atto impositivo notificatogli (da ultimo, Cass. n. 24051 del 2011).
Analogamente, proseguono gli Ermellini, in tema di IVA, qualora, a seguito di ispezione, venga rinvenuta presso la sede dell’impresa documentazione non obbligatoria astrattamente idonea a evidenziare l’esistenza di operazioni non contabilizzate tale documentazione:
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pur in assenza di irregolarità contabili, è legittimamente utilizzata dall’Ufficio ai fini dell’accertamento ai sensi dell’articolo 54, secondo comma, del D.P.R. n. 633/1972;
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non può essere ritenuta di per sé probatoriamente irrilevante dal giudice tributario – anziché avente valore di prova, sia pure presuntiva –, senza che a tale conclusione conducano l’analisi dell’intrinseco valore delle indicazioni dalla stessa promananti e la comparazione delle stesse con gli ulteriori dati acquisiti e con quelli emergenti dalla contabilità ufficiale del contribuente (tra le tante, Cass. n. 19329 del 2006, 3388 del 2010).
Quindi, a prescindere se nella fattispecie ricorressero i presupposti per l’operatività della presunzione di acquisto e cessione a norma dell’art. 53 del D.P.R. n. 633/1972 (o del D.P.R. n. 441/1997),
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“quel che è certo – osserva la Corte – è che, in ogni caso, il giudice di merito non poteva qualificare il manoscritto in questione come ‘mero indizio’, privo di valenza probatoria in assenza di ulteriori accertamenti e riscontri da parte dell’Ufficio, anziché come elemento di prova presuntiva dotato dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c.”.
Alla Suprema Corte, poi, è parso del tutto inadeguato a sorreggere la decisione il puro e semplice rilievo da parte della CTR che gran parte dei beni elencati nel documento si trovassero fisicamente nell’abitazione del legale rappresentante della società, anziché nella sede di questa, “circostanza di per sé sola inidonea a dimostrare la non riferibilità dei beni stessi all’attività esercitata dalla società”.
La parola, è pertanto tornata alla Commissione Tributaria Regionale della Toscana, la quale in diversa composizione procederà a nuovo esame della controversia, uniformandosi ai principi enunciati dal Giudice di vertice.
Presunzione di acquisto e cessione) Il mancato rinvenimento, nei locali in cui il contribuente esercita la sua attività, di beni, risultanti in carico all’azienda in forza di acquisti, importazione o produzione, pone, ex articolo 53 del D.P.R. n. 633/1972, nonché articolo 2728 del Codice civile, una presunzione legale di cessione senza fattura degli stessi, che può essere vinta solo se il contribuente fornisca la prova della diversa destinazione con i mezzi e con le modalità indicate dalla norma stessa, tra cui non sono comprese, per esempio, le bolle di accompagnamento (Cassazione, n. 21519/2005 e n. 16483/ 2006). |
Manoscritto dell’imprenditore reperito in sede di accesso |
Valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità precisione e concordanza prescritti dall’art. 39 DPR n. 600/1973 (accertamento induttivo). |
A fronte dell’accertamento presuntivo dell’ufficio incombe sul contribuente l’onere di fornire la prova contraria. |
Ai fini dell’esclusione della valenza probatoria del manoscritto, non è bastato alla CTR dedurre che i beni in esso elencati erano collocati presso l’abitazione del legale rappresentante. Non è circostanza di per sé idonea a escludere la riferibilità di tali beni all’attività esercitata dalla società (nella specie, commercio di opere d’arte). |
I precedenti
In materia di contabilità in “nero”, la decisione appena analizzata ripropone alcuni principi di diritto enunciati dalla Cassazione con altre pronunce, e più di recente, con la sentenza n. 5626 del 2012 e n. 4904 del 2013.
Corte di Cassazione – Sezione Tributaria n. 5226 del 30 marzo 2012
Dando continuità all’orientamento espresso da Cass. sent. n. 3388 del 2010, gli Ermellini hanno osservato che:
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“in tema di accertamento dell’IVA, i documenti informatici (cosiddetti ‘files’), estrapolati legittimamente dai computers nella disponibilità dell’imprenditore, nei quali sia contenuta contabilità non ufficiale, costituiscono, in quanto scritture dell’impresa stessa, elemento probatorio, sia pure meramente presuntivo, utilmente valutabile, salva la verifica della loro attendibilità. Ne deriva che essi non possono essere ritenuti dal giudice, di per sé, probatoriamente irrilevanti circa l’esistenza di operazioni non contabilizzate, senza che a tale conclusione conducano l’analisi dell’intrinseco valore delle indicazioni da essi promananti e la comparazione delle stesse con gli ulteriori dati acquisiti e con quelli emergenti dalla contabilità ufficiale del contribuente”.
Nel caso di specie, gli Ermellini hanno ritenuto fondata la censura mossa dall’Ufficio, circa “l’insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, laddove la CTR aveva “acriticamente recepito” le conclusioni di una relazione redatta da un perito contabile in relazione ad altro giudizio tra le medesime parti, senza neppure specificare “le parti asseritamente rilevanti di detta consulenza”.
Insomma, la documentazione extracontabile reperita in sede di verifica può rappresentare “l’asso nella manica” del Fisco:
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se il contribuente non le affianca elementi di prova a suo favore. Il contribuente deve quindi opporre valide ragioni che destituiscano di fondamento la presunta veridicità della documentazione occultata, sconfessandone il valore o, meglio, allegando ulteriori e diversi elementi, anche presuntivi;
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se il giudice tributario non motiva adeguatamente sul perché non la ritenga attendibile. L’attendibilità deve essere appurata anche rispetto agli altri dati acquisiti o che comunque emergano dalla contabilità ufficiale.
Corte di Cassazione – Sezione Tributaria n. 4904 del 27 febbraio 2013
Anche in questo secondo caso la Cassazione ha mantenuto fermo l’indirizzo secondo cui la documentazione extracontabile costituisce un indizio grave, preciso e concordante che, unitamente ad altri elementi, ben può fondare l’accertamento di maggiori ricavi, non occorrendo la prova certa dell’evasione.
Nel caso di specie, gli Ermellini hanno accolto il ricorso proposto dall’Amministrazione Finanziaria, che ha denunciato l’illegittimità della sentenza con la quale la Commissione Tributaria Regionale della Toscana ha confermato la nullità di un accertamento emesso ai fini IRPEF per l’anno d’imposta 1996.
In particolare, l’Ufficio ha posto alla Corte il seguente quesito:
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se l’accertamento ex articolo 39, primo comma, lettera d), D.P.R. n. 600 del 1973 possa fondarsi anche su elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, senza che occorra la prova certa dell’evasione, con la conseguenza che la documentazione extracontabile ben possa fondare, unitamente ad altri elementi, l’accertamento di maggiori ricavi.
La risposta al quesito è stata affermativa. Nel caso di specie infatti, la Commissione di secondo grado non solo ha escluso che i meri indizi possano costituire prova dell’evasione – e ciòè vero solamente ove gli stessi vengano isolatamente considerati – ma li ha pure reputati inutilizzabili:
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“violando chiaramente – osserva la Suprema Corte – la norma invocata che ne consente l’utilizzazione (da ultimo Cass. 2011 n. 11319 e Cass. 2011 n. 26022) nella globalità del meccanismo presuntivo, legittimando appunto le presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti (cioè dotate di inferenza probabilistica univoca, non plurima, e non confliggente con altri elementi probatori: cfr Cass. 2012 n.3281) in coerenza con la connotazione evincibile dagli articoli 2727 – 2729 cod. civ.”.
Con la sentenza 4904/2013 la Corte ha anche ritenuto legittima l’estensione delle indagini finanziarie ai conti intestati o cointestati al figlio del soggetto accertato. Ciò in quanto la presunzione legale dell’articolo 32 D.P.R. n. 600 del 1973, per non consentire una facile l’elusione, opera anche sui conti intestati ai familiari. Pertanto, l’accertamento bancario può fondarsi sulle risultanze, non giustificate, di conti correnti cointestati con altri soggetti estranei all’accertamento, ma legati al contribuente dal rapporto familiare (in questo senso, Cass. 1999 n. 1728, Cass. 2002 n. 8683, Cass. 2003 n. 13391, Cass. 2007 n. 2085, Cass. 2007 n. 6743). |
Andando a ritroso nel tempo (ma non troppo), sempre in tema di documentazione “extracontabile” o contabilità “in nero” si segnalano le seguenti sentenze della Cassazione, ancora molto attuali.
Corte di Cassazione sentenze nn. 13061/2011, 10590/2011, 14218/2007
La cosiddetta contabilità “in nero”, costituita da appunti personali e informazioni dell’imprenditore, rappresenta un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall’art. 39 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, dovendo ricomprendersi tra le scritture contabili disciplinate dagli artt. 2709 e seguenti del codice civile tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore e il risultato economico dell’attività svolta, e incombendo al contribuente l’onere di fornire la prova contraria.
Corte di Cassazione sentenza 2217/2006
La documentazione extracontabile legittimamente reperita presso il contribuente, quand’anche risolventesi in annotazioni personali dell’imprenditore, costituisce elemento probatorio, ancorché meramente presuntivo, utilmente valutabile in sede di accertamento, indipendentemente dal contestuale riscontro di irregolarità nella tenuta della contabilità e di inadempimenti di obblighi di legge.
Corte di Cassazione sentenza n. 17817/2007
In tema contabilità “in nero” spetta al contribuente l’onere probatorio contrario, ossia la possibilità di fornire spiegazioni attendibili circa i dati annotati sull’agenda rinvenuta dai verificatori. Ciò in virtù del principio secondo cui:
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“il rinvenimento di una contabilità informale, tenuta su un brogliaccio (ma anche di agende calendario, block notes, matrici di assegni, estratti di conti correnti bancari) costituisce indizio grave, preciso e concordante dell’esistenza di imponibili non riportati nella contabilità ufficiale, che legittima l’Amministrazione finanziaria a procedere ad accertamento induttivo, ai sensi dell’art. 54 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633”.
Corte di Cassazione, sentenze 1628/1995, 10850/1994, 4307/1992
La contabilità “in nero” fa scattare la prova presuntiva mediante l’accertamento induttivo a carico del soggetto verificato, che può semmai solo fornire la prova contraria a sostegno della propria contestazione, con conseguente inversione dell’onere della prova sul contribuente.
Corte di Cassazione, sentenza 24923/2011
È legittimo l’avviso di rettifica IVA fondato su documentazione “extracontabile” reperita in sede di accesso all’interno di un’autovettura dismessa, pur se in assenza dell’autorizzazione da parte del Giudice per l’utilizzo dei dati ai fini fiscali e anche se i supporti informatici rinvenuti sono stati elaborati presso il comando della Guardia di Finanza, senza contraddittorio con il contribuente.
La Cassazione, in particolare, ha osservato che l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, richiesta dall’art. 63, comma 1, del D.P.R. n. 633 del 1972, in materia di IVA, per la trasmissione, agli uffici delle imposte, dei documenti, dati e notizie acquisiti dalla Guardia di Finanza nell’ambito di un procedimento penale, è posta a tutela della riservatezza delle indagini penali, non dei soggetti coinvolti nel procedimento medesimo o di terzi, con la conseguenza che:
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“la mancanza dell’autorizzazione, se può avere riflessi anche disciplinari a carico del trasgressore, non tocca l’efficacia probatoria dei dati trasmessi, né implica l’invalidità dell’atto impositivo adottato sulla scorta degli stessi”.
La Cassazione, poi, in riferimento all’invocata invalidità dell’ispezione della documentazione senza contraddittorio con il contribuente, ha affermato che:
“l’attività accertativa della Guardia di finanza e degli uffici finanziari, avendo natura di attività amministrativa, pur dovendo svolgersi nel rispetto di ben determinate cautele previste per evitare arbitri e violazioni dei diritti fondamentali del contribuente, non è retta, in linea di massima e salvo specifici casi, dal principio del contraddittorio, per cui va escluso che le risultanze emerse dall’attività di verifica non possano costituire valido supporto probatorio della pretesa impositiva per il solo fatto della mancata immediata loro contestazione al contribuente in sede di verifica (Cass. nn. 4273 del 2001; 27060 del 2007; 10265 del 2008)”.
Nel caso affrontato dalla sentenza n. 24923/2011, il contribuente (esercente attività di riparazione di autoveicoli) ha inutilmente lamentato: 1) la violazione e falsa applicazione dell’articolo 63, comma 1, del D.P.R. 633/1972, per mancanza dell’autorizzazione dell’A.G. all’utilizzo e alla trasmissione agli uffici fiscali dei dati acquisiti in sede di attività di polizia giudiziaria; 2) la violazione e falsa applicazione dell’articolo 52, comma 7, del D.P.R. 633/1972, per essere stata considerata valida l’ispezione della documentazione (compresa la lettura dei floppy disk reperiti), senza contraddittorio con il contribuente in quanto eseguita presso il comando della Guardia di Finanza procedente e non nei locali aziendali. |
24 ottobre 2013
Antonio Gigliotti