Le differenze inventariali possono far scattare presunzioni di cessione o acquisto, anche in assenza di inventari fisici. Ma quando si applicano davvero, quali documenti contano e quali sono i rischi per il contribuente?
Tra depositi non dichiarati e documentazione facoltativa, la giurisprudenza chiarisce fin dove può spingersi l’accertamento fiscale.
Differenze inventariali e presunzioni fiscali: cosa rischia l’impresa se mancano beni o scorte nei luoghi dichiarati
Ai sensi dell’art. 1, del D.P.R. n. 441/1997, si presumono ceduti i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni, né in quelli dei suoi rappresentanti.
Tra tali luoghi rientrano anche le sedi secondarie, filiali, succursali, dipendenze, stabilimenti, negozi, depositi ed i mezzi di trasporto nella disponibilità dell’impresa (sul punto la Corte di Cassazione – Sentenza n. 25662 del 15 ottobre 2018 – ha ritenuto legittimo il recupero di ricavi determinati da merci custodite in un deposito non dichiarato, spettando comunque al contribuente dimostrare che la merce non è stata venduta).
Differenze inventariali: quali sono i rischi presuntivi
La presunzione non opera se è dimostrato che i beni stessi sono stati impiegati per la produzione, perduti o distrutti; sono stati consegnati a terzi in lavorazione, deposito, comodato o in dipendenza di contratti estimatori, di contratti di opera, appalto, trasporto, mandato, commissione o di altro titolo non traslativo della proprietà.
Resta ferma la non operatività della presunzione di cessione, nelle ipotesi specificatamente indicate nell’art. 2, del D.P.R. n. 441/1997[1].
L’art. 3, del D.P.R. n. 441/1997, disciplina la presunzione di acquisto: i beni che si trovano in uno dei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni si presumono acquistati se lo stesso non dimostra di averli ricevuti in base ad un rapporto di rappresentanza o ad uno degli altri titoli
di cui all’art.1, dello