come è noto, l’apertura di una procedura fallimentare tende a depauperare e svalutare il patrimonio dell’azienda; proponiamo una rassegna delle procedure alternative al fallimento che possono meglio tutelare l’impresa ed i creditori
Quando una società registra consistenti perdite di esercizio, a causa dell’acuirsi della crisi economica e dell’impossibilità di trovare rimedi efficaci per contrastare l’emersione del disavanzo, questa dovrà necessariamente valutare se ricorrono o meno i presupposti per una soluzione alternativa della crisi aziendale, rispetto a quella (più drastica) del fallimento.
In primo luogo, per individuare lo strumento negoziale della crisi più adatto all’impresa da ristrutturare, è opportuno verificare che quest’ultima possa qualificarsi come soggetto fallibile, ovvero possa rientrare, a norma dell’art. 1 della L.Fall., nel novero di imprenditore commerciale privato non piccolo: solo tale requisito consente alla debitrice di valutare lo strumento di soluzione della crisi maggiormente adeguato tra quelli previsti dalla Legge Fallimentare (piano attestato di risanamento, accordo di ristrutturazione dei debiti e concordato preventivo).
L’ipotesi del piano di risanamento (art. 67 c. 3 lett. d L.F.) potrebbe ritenersi invocabile da un impresa solo quando non si è verificata una sostanziale interruzione della continuità aziendale, oppure non vi sia alcuna possibilità di raggiungerla nuovamente anche a causa, ad esempio, dell’oggettività impossibilità di ottenere nuovi finanziamenti a supporto di un’ipotetica soluzione della crisi d’impresa di carattere conservativo. L’adozione di tale strumento è, infatti, subordinata alla sussistenza di uno stato di crisi reversibile del debitore (finanziaria, economica…), in presenza di condizioni o prospettive di continuità aziendale: fermo restando che può, tuttavia, essere utilizzato anche dall’impresa in liquidazione, come strumento di ripristino delle condizioni di equilibrio, purché finalizzato alla revoca dello stato di liquidazione. In altri termini, lo strumento del piano attestato di risanamento può essere attivato solo nel caso in cui, in capo alla società in crisi, si rilevi la sussistenza di alcuni requisiti preliminari, come le adeguate prospettive di mercato e prodotto – sulle quali fondare il rilancio economico – e la possibilità di accedere a nuova finanza, necessaria a supportare il progetto: in mancanza dei predetti requisiti, non è possibile invocare l’ipotesi del risanamento in continuità aziendale e, quindi, utilizzare il suddetto piano attestato di risanamento.
L’accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 182-bis L.F.), a differenza del piano attestato di risanamento, può essere adottato anche in assenza di continuità aziendale (cessione dell’azienda a terzi, vendita totale o parziale di beni ai creditori, conferimento in una società di nuova costituzione…). Tuttavia, prima di scegliere tale strumento di risanamento è opportuno fare un adeguato studio, sia con riferimento alla composizione dell’attivo patrimoniale (e del ceto creditorio) che della possibile proposta formulabile per il soddisfacimento dei creditori. Sotto il primo profilo, si segnala che, in ogni caso, il valore dell’attivo patrimoniale deve essere presumibilmente superiore a quello di effettivo realizzo nell’ipotesi della liquidazione fallimentare. Si consideri, inoltre, che (nell’ipotesi, prevista dalla norma, del raggiungimento di un accordo di ristrutturazione dei debiti con i creditori rappresentanti almeno il 60% delle passività) l’intesa dovrebbe garantire il pagamento integrale dei creditori non partecipanti all’accordo, entro 120 giorni dalla scadenza del credito o dall’omologazione, se già scaduto a tale data. Per tale motivo, occorre verificare che l’attivo della debitrice risulti liquidabile nei tempi richiesti dall’art. 182-bis L.F. per il pagamento dei creditori estranei all’accordo.
Il concordato preventivo (art. 160 e ss. L.F.), che rappresenta una forma molto meno vincolata, rispetto all’accordo di ristrutturazione dei debiti, è senza dubbio la principale alternativa concreta al fallimento, pur presentando delle difficoltà operative. Si pensi, ad esempio, all’esistenza dei crediti prededucibili (estensore del piano concordatario e della proposta, legale del debitore, periti stimatori, attestatore della veridicità dei dati aziendali e della fattibilità del piano, commissario e liquidatore giudiziale) che presuppongono la sussistenza di importanti disponibilità liquide, ma non solo. Prima di procedere all’adozione ditale tipologia di strumento negoziale della crisi, è necessario, infatti, verificare che il patrimonio del debitore liquidabile sia ritenuto sufficiente per consentire la costruzione di un credibile piano di concordato preventivo, tenuto conto delle diverse classi omogenee per posizione giuridica ed interessi economici in cui suddividere i creditori, ai fini della formulazione della proposta risarcitoria. Si consideri, inoltre, che – in previsione di un’auspicabile ammissione al concordato preventivo – la società debitrice deve necessariamente reperire della liquidità, necessaria alla costituzione del deposito giudiziale stabilito dal tribunale nel decreto di apertura della procedura.
Pertanto, qualora non si verificassero le suddette condizioni, in relazione alla tipologia di soluzione concorsuale adottata, la soluzione migliore è senza dubbio quella del fallimento poiché massimizza la tutela dei diritti dei creditori, non essendo suscettibile di alterare la par condicio creditorum: tale richiesta può essere, peraltro, rivolta direttamente al competente tribunale, senza porre in liquidazione la società, purché ciò avvenga con la massima sollecitudine, al fine di non procrastinare lo stato di insolenza, né arrecare pregiudizio ai creditori.
2 ottobre 2013
Sandro Cerato