Accertamento: ecco gli indizi che legittimano il sequestro

le operazioni bancarie che non risultano dalla dichiarazione dei redditi e rispetto alle quali il contribuente non è riuscito a fornire adeguate giustificazioni, costituiscono un indizio di evasione e giustificano, in assenza di indizi di segno contrario, il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente

 

In sede penale, le operazioni bancarie che non risultano dalla dichiarazione dei redditi e rispetto alle quali il contribuente non è riuscito a fornire adeguate giustificazioni, costituiscono un indizio di evasione e giustificano, in assenza di elementi di segno contrario offerti dalle difesa, il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente. È quanto emerge dalla sentenza 10 gennaio 2013 n. 1261 della Corte Suprema di Cassazione, Terza Sezione Penale. Il Collegio di legittimità si è pronunciato su un provvedimento di sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, emesso in relazione al reato di dichiarazione infedele ipotizzato a carico di due imprenditori.

 

Premessa

In sede penale, le operazioni bancarie che non risultano dalla dichiarazione dei redditi e rispetto alle quali il contribuente non è riuscito a fornire adeguate giustificazioni, costituiscono un indizio di evasione e giustificano, in assenza di elementi di segno contrario offerti dalle difesa, il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente.

È quanto emerge dalla sentenza 10 gennaio 2013 n. 1261 della Corte Suprema di Cassazione – Terza Sezione Penale.

Il Collegio di legittimità si è pronunciato su un provvedimento di sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, emesso in relazione al reato di dichiarazione infedele di cui all’articolo 4 del D.Lgs. n. 74/2000, ipotizzato a carico di due imprenditori.

 

Dichiarazione infedele

Prima di entrare nel merito della vicenda processuale in questione, si ricorda che commette il reato di dichiarazione infedele chiunque, al fine di evadere le imposte dirette o l’IVA (senza un impianto fraudolento, ma comunque consapevolmente e volontariamente), indica in una delle dichiarazioni annuali relative a queste imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi quando congiuntamente:

  1. l’imposta evasa è superiore a 50.000 euro con riferimento a ciascuna delle singole imposte;

  2. l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione – anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi – è superiore al 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione o, comunque, è superiore a 2 milioni di euro.

 

Al di sotto della soglia di punibilità, la medesima fattispecie costituisce illecito amministrativo punibile con la sanzione amministrativa prevista per la dichiarazione infedele.

 

Ai sensi dell’art. 6 del D.Lgs. 74, il delitto non è punibile a titolo di tentativo.

Inoltre, non rilevano penalmente:

  • le rilevazioni nelle scritture contabili e in bilancio eseguite in violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, ma sulla base di metodi costanti di impostazione contabile;

  • le rilevazioni e le valutazioni estimative i cui criteri concretamente applicati sono comunque indicati in bilancio;

  • le valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono meno del 10% da quelle corrette (art. 7, comma 2 – degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità sopra indicate).

 

Il Tribunale del riesame

Venendo ora ai fatti di causa, oggetto del giudizio di cassazione è stata l’ordinanza con la quale il Tribunale del Riesame, nel respingere l’istanza di dissequestro formulata dai due indagati, aveva dedotto (in particolare):

  • che le prove presuntive tributarie valgono come indizi in sede penale e che quindi costituisce un indizio della sussistenza del reato di evasione il fatto che i conti correnti degli indagati presentassero movimentazioni non riportate nella dichiarazione dei redditi e per le quali non era stata fornita alcuna giustificazione.

Inoltre, la Guardia di Finanza aveva imputato correttamente all’attivo del reddito:

  • sia gli importi accreditati sui conti correnti degli indagati;

  • sia quelli oggetto di prelevamento di cui non erano stati indicati né la causale né il beneficiario.

Onere della prova. No inversione

Ebbene, la Terza Sezione Penale, all’esito del giudizio di legittimità, ha condiviso le valutazioni del Tribunale del riesame, che si sarebbe attenuto ai principi di diritto affermati dalla giurisprudenza, relativamente alla valenza probatoria, in sede di penale, delle presunzioni tributarie che governano l’azione accertatrice dell’Amministrazione Finanziaria.

In proposito, gli Ermellini hanno chiarito che, in via generale, i regimi di presunzione legale operanti in campo tributario non possono essere utilizzati, sic et simpliciter, in sede penale”, in quanto il procedimento di formazione della prova tributaria è ispirato a un principio di inversione dell’onere della prova (a carico del contribuente) che, in materia penale:

  • si pone in contrato con il diritto di difesa e con il principio secondo cui l’onere della prova è a carico dell’accusa.

 

Infatti, gli accertamenti della GdF si fondano su un accertamento di esclusiva matrice tributaria:

  • durante il quale la prova della responsabilità tributaria del soggetto si forma al termine di un processo esclusivamente presuntivo, in considerazione della circostanza che laddove il soggetto sottoposto a verifica non offra la prova contraria rispetto alla contestazione, si forma, a contrario, la prova della infrazione della normativa tributaria”.

 

Ne deriva che il giudice penale:

non può applicare le presunzioni legali, sia pure di carattere relativo, o i criteri di valutazione validi in sede tributaria, limitandosi a porre l’onere probatorio in ordine all’esistenza di costi deducibili a carico dell’imputato.

Deve invece procedere d’ufficio agli accertamenti del caso, eventualmente mediante il ricorso a presunzioni di “fatto”.

 

Accrediti sul conto

Più in particolare, per quanto riguarda la presunzione relativa alle somme accreditate sul conto corrente, deve ritenersi operante il principio secondo il quale, in tema di reati tributari:

  • non può farsi ricorso alla presunzione tributaria di cui all’art. 32 del D.P.R. n. 600 del 1973, secondo cui tutti gli accrediti registrati sul conto si considerano ricavi dell’azienda, in quanto spetta al giudice penale la determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa.

 

Sede cautelare

Diversa è, però, la questione dell’applicazione di questi principi in sede di riesame di un provvedimento cautelare emesso per un reato tributario. Il Tribunale infatti:

  • non è tenuto ad accertare l’imponibile e l’imposta evasa contestata al contribuente, in quanto l’accertamento incidentale, proprio del giudizio di riesame, non prevede l’esercizio di poteri istruttori da parte del giudice della cautela”.

Pertanto, nella fattispecie, il giudice di merito ha correttamente confermato il sequestro, essendosi limitato ad attribuire agli accertamenti della Guardia di Finanza e alle relative presunzioni tributarie un valore indiziario sui cui fondare, in mancanza di altri elementi di segno contrario offerti dalla difesa, il giudizio di sussistenza del reato ipotizzato.

Le spese hanno seguito la soccombenza.

 

L’orientamento secondo il quale il Tribunale del riesame non è tenuto ad accertare l’imponibile e l’imposta evasa contestata al contribuente è stato recentemente ribadito dalla Terza Sezione Penale della Cassazione, nella sentenza 23 gennaio 2013 n. 3438. Anche in questo caso, la Corte ha mantenuto fermo il sequestro di alcuni beni riconducili a un soggetto, indagato per il reato di cui all’articolo 3 del D.Lgs. n. 74 del 2000 (dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici), avendo ritenuto rilevanti, ai fini dell’accusa di evasione fiscale, i versamenti effettuati, apparentemente per cause lecite, sul conto corrente intestato alla collaboratrice domestica dell’indagato, ma al medesimo riconducibili.

 

Le presunzioni

Nella maggior parte dei casi, l’accertamento dei delitti tributari si basa su elementi presuntivi.

A mente dell’articolo 2727 del codice civile, si definiscono presunzioni:

  • le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato”.

In via generale, dunque, la presunzione è il procedimento logico mediante il quale si desume l’esistenza di un fatto ignoto sulla base dell’esistenza di un fatto che è invece conosciuto.

Come si evince dalla citata disposizione codicistica, esistono due tipologie di presunzioni: quelle “legali” e quelle “semplici”.

Le prime – che a loro volta che si distinguono in presunzioni che ammettono prova contraria (cc.dd. relative o “iuris tantum”) e presunzioni che non la consentono (cc.dd. assolute o “iuris et de iure”) – sono stabilite direttamente dalla legge e impongono al giudice di considerare determinati fatti come veri in mancanza di prova contraria.

Le seconde, invece, sono lasciate al libero apprezzamento del giudice, il quale le ammette quando sono gravi, precise e concordanti.

 

Accertamento tributario

L’ordinamento tributario contempla numerose presunzioni legali “relative” (art. 2728 del Cod. civ.), che hanno l’effetto d’invertire l’onere della prova, in quanto dispensano da qualunque onere probatorio coloro a favore dei quali esse sono stabilite (l’Ufficio), mentre l’altra parte (contribuente) è ammessa a provare il contrario.

La loro funzione, quindi, è quella di agevolare l’Amministrazione Finanziaria sotto il profilo probatorio, ponendone l’onere a carico del contribuente il quale, per vincere la presunzione, deve fornire la prova contraria con le modalità e i limiti eventualmente previsti dalla normativa tributaria. Ove quest’ultimo non sia in grado di assolvere all’onere probatorio, opereranno sul piano sostanziale tutti gli effetti collegati all’esistenza del fatto presunto “ex lege”, ai fini dell’accertamento e nell’eventuale fase contenziosa.

 

Valore in sede penale

Venendo ora all’ordinamento penale, l’unica presunzione esistente è quella di “non colpevolezza” dell’imputato fino alla condanna definitiva (art. 27, co. II, Cost.).

Per quanto concerne invece la valenza probatoria delle presunzioni tributarie, va precisato che in sede processuale penale vengono meno:

  • sia l’inversione dell’onere della prova (esso resta a carico della pubblica accusa);

  • sia le eventuali limitazioni poste dalla legge tributaria alla prova contraria, sicché l’imputato potrà avvalersi di tutti i più ampi mezzi probatori previsti dal codice di procedura penale.

 

Ne deriva che le presunzioni tributarie, seppur idonee a integrare la notizia di reato, non possono poi avere di per sé stesse, nel giudizio penale, valore di prova.

Per quanto riguarda invece la valutazione delle presunzioni tributarie ai fini della decisione, la loro non automatica trasferibilità in campo penale non significa, d’altro canto, che esse non rivestano alcuna rilevanza.

Al contrario, sebbene non valgano come prova, possono tuttavia costituire degli “indizi”, come tali valutabili dal giudice penale alla stregua dei criteri dettati dall’art. 192, secondo comma, del codice di procedura penale.

 

Ebbene, sotto tale profilo, la sentenza in commento non si è discostata affatto dall’orientamento secondo il quale:

  • il giudice penale può avvalersi degli stessi elementi che determinano presunzioni secondo la disciplina tributaria, a condizione però che gli stessi siano assunti non con l’efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori”, in quanto, ai fini penali, le presunzioni tributarie “hanno il valore di un indizio”, di talchéper assurgere a dignità di prova devono trovare oggettivo riscontro o in distinti elementi di prova ovvero in altre presunzioni gravi, precise e concordanti(Cass. Pen. 19 gennaio 10998).

Assunto questo che si trova sostanzialmente riaffermato in altre pronunce di legittimità, lì dove si è osservato che:

  • alla luce dei principi che governano la valutazione della prova ex art. 192, commi primo e secondo, del codice di rito secondo cui la prova può essere desunta solo da indizi gravi, precisi e concordanti (…), le presunzioni tributarie – se sono legittime per accertare l’illecito tributario – non possono essere utilizzate meccanicamente nel processo penale, nel quale hanno invece bisogno di una autonoma valutazione alla luce dei criteri di cui al citato art. 192 c.p.p.” (Cass. Pen. n. 8536/1998).

  • anche l’accertamento induttivo compiuto dagli Uffici finanziari può, invero, rappresentare un valido elemento di indagine per stabilire, in sede penale, se vi sia stata evasione e se questa abbia raggiunto le soglie di punibilità previste dalla legge”, è d’altro canto indispensabile, a tal fine, “che il giudice non arresti il proprio esame alla constatazione dell’esistenza di detto accertamento e ad un apodittico richiamo di uno dei singoli dati posti a fondamento del medesimo, ma proceda ad una specifica valutazione di tutti gli estremi tenuti in considerazione dall’Ufficio finanziario e di ogni altro eventuale indizio acquisito, sicché deve ripercorrere in modo chiaro e puntuale, anche se sintetico, prima l’apprezzamento di ognuno di essi ed esprimere successivamente una valutazione globale di questi ultimi, rendendo chiari i passaggi della motivazione da lui adottata, per consentire di verificare l’esistenza effettiva e la sua coerenza logica” (Cass. Pen. n. 47127 del 2012, n. 24811 del 2011, n. 1904 del 1999).

 

Conclusioni

Insomma, è da escludere che la responsabilità penale di un contribuente per uno dei reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, possa essere affermata sulla sola base delle presunzioni tributarie che hanno condotto alla rettifica del reddito, qualora esse non siano corroborate da altri e più consistenti elementi di riscontro.

L’autonomia del processo penale rispetto a quello tributario non esclude che, nella formazione del proprio libero convincimento, il giudice penale possa tener conto delle presunzioni tributarie alla stregua di elementi indiziari, fermo restando l’obbligo di dare conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati.

 

Classificazione delle presunzioni tributarie

Legali assolute, che impongono determinati obblighi fiscali per legge e, se non previsto, non ammettono prova contraria.

Legali relative, che danno per dimostrata una certa situazione sfavorevole al contribuente, facendo però salva la possibilità di prova contraria da parte di quest’ultimo.

Semplici, cioè liberamente valutabili dal giudice, ammesse nell’accertamento purchè gravi,precise e concordanti.

 

Il Giudice penale

Non è vincolato né al risultato cui perviene l’Amministrazione Finanziaria in applicazione della disciplina sull’accertamento di tipo induttivo, analitico-induttivo o sintetico né agli elementi presuntivi utilizzati per raggiungerlo.

Deve valutare, in via autonoma, gli elementi fattuali posti a base degli accertamenti secondo le regole di esperienza, sviluppando un proprio iter logico-argomentativo (che potrà anche coincidere con quello dell’Ufficio), del quale dovrà fornire adeguata motivazione.

 

Prova contraria

Durante il processo penale, l’onere della prova resta a carico dell’accusa e l’imputato, per la sua difesa, può avvalersi di tutti i mezzi probatori previsti dal codice di procedura penale.

 

30 ottobre 2013

Antonio Gigliotti