come è noto, il rimborso IVA spetta solo in presenza di determinate condizioni: analisi delle problematiche che può incontrare il contribuente che non ha effettuato operazioni attive in sede di richiesta di rimborso
Aspetti generali
Come è noto, il rimborso IVA spetta solo in presenza di determinate condizioni, in assenza delle quali esso viene negato dall’Amministrazione.
Occorre a tale riguardo considerare che il rimborso presuppone l’esistenza di un’imposta assolta «a monte», e quindi anche di un’attività economica rispetto alla quale l’imposta (IVA) si ponga in rapporto di inerenza.
Una recente sentenza in esame della Corte di Cassazione (Cass. 20.2.2013 n. 4157) ha escluso il rimborso IVA richiesto da una società di persone che aveva ristrutturato un immobile da adibire ad attività turistico-alberghiera, giacché la società non aveva mai effettivamente iniziato a svolgere detta attività, trasformandosi in società semplice.
La Suprema Corte ha deciso quindi in senso sfavorevole al rimborso, riformando la decisione della CTR ed esprimendo un orientamento «disallineato» rispetto a quello della Corte di Giustizia Europea (sent. 29.2.96 causa C-110/94), secondo la quale la detrazione spetta anche in presenza di un’attività che comporti potenzialmente e prospetticamente l’effettuazione di operazioni imponibili.
Il rimborso IVA «per sommi capi»
Il diritto al rimborso dell’IVA (ex art. 30, D.P.R. 633/1972) può essere esercitato solamente in presenza di determinate condizioni, in difetto delle quali i contribuenti sono «abilitati» solamente a riportare a nuovo il credito IVA per scomputarlo nell’esercizio successivo.
Una specifica eccezione è prevista, con la spettanza comunque del diritto al rimborso, se il contribuente ha cessato l’attività nel corso dell’anno.
I requisiti previsti sono di seguito indicati:
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requisito oggettivo: il credito IVA deve ammontare almeno a € 2582,28;
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requisito soggettivo: la società deve (alternativamente):
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esercitare in via esclusiva o prevalente attività che comportino l’effettuazione di operazioni soggette ad IVA con aliquote inferiori a quelle dell’imposta relativa agli acquisti ed alle importazioni;
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effettuare operazioni non imponibili per un ammontare superiore al 25% dell’ammontare complessivo di tutte le operazioni effettuate;
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aver acquistato o importato beni ammortizzabili (nonché beni e servizi per studi e ricerche), limitatamente alla relativa imposta;
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effettuare prevalentemente operazioni non soggette ad IVA a norma dell’art. 7, D.P.R. 633/1972;
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aver nominato un rappresentante fiscale, secondo quanto previsto dall’art. 17, c. 2, D.P.R. n. 633/1972.
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Al di fuori dei casi indicati, la richiesta di rimborso può essere validamente effettuata se dalle dichiarazioni dei due anni precedenti risultano eccedenze a favore del contribuente, nei limiti dell’ammontare del credito risultante dalla dichiarazione annuale e, comunque, per un importo non superiore alla minore delle eccedenze (art. 30, c. 4, D.P.R. n. 633/1972).
Le attività preparatorie
L’effettivo esercizio dell’attività industriale-commerciale circoscrive l’area del «sistema di impresa», destinatario di un regime tributario analitico e complesso, generalmente più favorevole rispetto a quello cui sono soggette le persone fisiche «non imprenditrici» e finalizzato alla tassazione di un reddito netto, depurato dalle componenti di costo e fondato sugli schemi civilistici di bilancio.
Inoltre, guardando a normative settoriali nell’ambito del reddito di impresa, l’attività in questione (se riconosciuta sussistente in capo alla partecipata) legittima la disapplicazione della tassazione in Italia delle società estere CFC, nonché, insieme alle altre condizioni normativamente previste, la fruizione del regime di participation exemption (pex).
L’attività industriale-commerciale è altresì quasi strutturalmente legata all’utilizzo, da parte dell’impresa, di beni strumentali, in grado di configurare quella «autonoma organizzazione» che leggi, prassi e giurisprudenza individuano come un presupposto fondamentale dell’IRAP.
Occorre quindi guardare con attenzione alle condizioni nelle quali può essere verificato l’effettivo esercizio di attività di impresa in presenza di attività preparatorie e «prospettiche», anche in relazione alla valenza dei c.d. costi di start-up, all’applicazione della normativa sulle società di comodo….
L’inerenza nel sistema dell’IVA
Ogni discorso sull’inerenza riferita all’IVA non può prescindere da un previo esame della direttiva CEE n. 112 del 28.11.2006, la quale ha integralmente sostituito la Sesta direttiva nel disciplinare il sistema dell’imposta a livello europeo. In particolare, l’art. 1, c. 2, della nuova direttiva afferma che «il principio del sistema comune d’IVA consiste nell’applicare ai beni ed ai servizi un’imposta generale sui consumi esattamente proporzionale al prezzo dei beni e dei servizi, qualunque sia il numero delle operazioni intervenute nel processo di produzione e di distribuzione antecedente alla fase d’imposizione. A ciascuna operazione, l’IVA, calcolata sul prezzo del bene o del servizio all’aliquota applicabile al bene o servizio in questione, è esigibile previa detrazione dell’ammontare dell’imposta che ha gravato direttamente sul costo dei diversi elementi costitutivi del prezzo».
Alla luce di tali principi, il diritto alla detrazione non appare condizionato dal fatto che vi sia stato un effettivo svolgimento di attività commerciale, piuttosto che tale svolgimento sia stato solamente programmato dall’impresa.
La natura dell’IVA, quale si manifesta nelle norme comunitarie di riferimento, è quella di un tributo «trasparente», il cui assolvimento da parte di un’impresa legittima di per sé la sua detrazione o il suo rimborso, al di là delle vicende, successive ed eventuali, dell’impresa stessa, o delle attività in funzione delle quali erano stati effettuati degli investimenti «prodromici». D’altra parte, ai fini dell’IVA, sarebbe arduo affermare che i costi «preliminari» sostenuti per l’avviamento di un’impresa societaria non si possano inquadrare in un’attività a sé stante, in considerazione del fatto che il soggetto neo-costituito, libero dei costi in propria vece sostenuti dalla «società preparatoria», avvalendosi dei beni e servizi acquisiti, svolge regolarmente la propria attività d’impresa.
Gli indirizzi comunitari
Nella sentenza 14.2.1985, relativa alla causa 268/83, «Rompelman», la Corte di Giustizia ha stabilito quanto segue:
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le attività economiche di cui all’art. 4, n. 1, della Sesta Direttiva, possono consistere in vari atti consecutivi;
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gli atti preparatori, come il procurarsi i mezzi per esercitare tali attività e, pertanto, anche l’acquisto di un bene immobile, devono già ritenersi parte integrante delle attività economiche.
Anche le prime spese di investimento effettuate ai fini di una data operazione possono quindi essere considerate come attività economiche ai sensi dell’art. 4 della Sesta direttiva (corrispondente all’art. 9 della direttiva del 2006); in tale contesto, l’Amministrazione deve prendere in considerazione la dichiarata intenzione dell’ impresa.
Se l’Amministrazione ha riconosciuto la qualità di soggetto passivo IVA di una società che ha dichiarato la propria intenzione di avviare un’attività economica che dà luogo ad operazioni imponibili, la realizzazione di uno studio sugli aspetti tecnici ed economici dell’attività programmata può quindi essere considerata come un’attività economica, anche se tale studio è finalizzato solamente a esaminare la prevista redditività dell’attività stessa. Alle medesime condizioni, l’IVA versata per tale studio può in via di principio essere detratta. La detrazione operata rimane acquisita anche se, successivamente, si è deciso, in considerazione dei risultati dello studio, di non passare alla fase operativa e di porre la società in liquidazione.
In armonia con le statuizioni dei Giudici comunitari, la Corte di Cassazione italiana, nella sentenza della Sezione tributaria n. 6083 del 26.4.2001, ha ritenuto che una società di capitali avesse diritto alla detrazione dell’imposta sugli acquisti anche se la stessa aveva realizzato solamente operazioni passive propedeutiche all’avviamento dell’attività d’impresa, e non erano state ancora effettuate operazioni imponibili.
Se, in base agli enunciati principi, la detrazione IVA è legittima anche in presenza di attività solamente «progettate», e mai passate alla fase operativa, si ritiene che i componenti reddituali negativi relativi a tali attività abbiano piena cittadinanza nel sistema del reddito d’impresa, senza che esse siano inficiate dalla presunzione di non operatività di cui all’art. 30 della L. n. 724/1994; anzi, l’effettuazione di studi concretamente finalizzati all’avvio dell’attività dovrebbe poter valere quale esimente in sede di interpello speciale.
A tale riguardo, però, occorre evidenziare che la decisione di non procedere all’avvio della fase operativa, pur fondata sui risultati dello studio, verrebbe interpretata come una libera scelta, in conseguenza della quale non potrebbe essere mantenuta la struttura societaria, ma semmai programmata la sua liquidazione e la cancellazione dal registro delle imprese.
Secondo la sopra richiamata sentenza della CGCE del 29.2.96, emessa in esito alla causa C-110/94, anche le prime spese di investimento effettuate ai fini di una data operazione possono essere considerate come attività economica ai sensi dell’art. 4 della sesta direttiva IVA (ora sostituita dalla direttiva «di rifusione» n. 116/2006, e l’amministrazione finanziaria deve, in tale contesto, prendere in considerazione la dichiarata intenzione dell’ impresa di avviare un’ attività soggetta all’ imposta sul valore aggiunto.
Se l’amministrazione ha riconosciuto la qualità di soggetto passivo di una società che ha dichiarato la sua intenzione di avviare un’attività economica che da’ luogo a operazioni imponibili, la realizzazione di uno studio sulla redditività dell’ attività programmata può essere riconosciuta come un’attività economica, anche se detto studio ha lo scopo di esaminare in quale misura l’attività prevista sia redditizia.
Tenuto conto dei principi della certezza del diritto e della neutralità dell’IVA per quanto riguarda l’imposizione fiscale dell’impresa, e salvo casi di frode o abuso, la qualità di soggetto passivo IVA non può essere revocata con effetto retroattivo alla società ove, in considerazione dei risultati di tale studio, si sia deciso di non passare alla fase operativa e di metterla in liquidazione, senza dar luogo a operazioni imponibili.
Il vincolo ai rimborsi IVA per le società di comodo
Particolarmente penalizzanti possono essere le conseguenze sull’IVA a credito maturata per le società che fossero ritenute di comodo (salva, però, la possibilità di esercitare l’«interpello disapplicativo»).
Infatti, secondo il quarto comma dell’art. 30, per tali società l’eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione presentata ai fini IVA non è ammessa al rimborso e non può essere compensata ai sensi dell’art. 17 del D.Lgs. 241/1997, né ceduta ai sensi dell’art. 5, comma 4-ter, del D.L. 14.3.1988, n. 70, convertito con modificazioni dalla L. 13.5.1988, n. 154.
Un’ulteriore penalizzazione è inoltre prevista nel caso in cui la società tre periodi d’imposta consecutivi non abbia effettuato «… operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto non inferiore all’importo che risulta dalla applicazione delle percentuali di cui al comma 1»: in tale ipotesi, infatti, l’eccedenza di credito non è neppure riportabile a scomputo dell’IVA a debito relativa ai successivi periodi d’imposta, e pertanto – sostanzialmente – il credito è perduto in via definitiva.
Secondo le indicazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 11/E del 2007, per verificare l’eventuale mancato superamento del limite minimo per le operazioni rilevanti ai fini IVA «deve assumersi come totale delle operazioni effettuate ai fini IVA l’ammontare complessivo del volume d’affari determinato ai sensi dell’articolo 20 del D.P.R. n. 633 del 1972».
A tale riguardo, l’Agenzia ha espresso il parere «che costituisce presupposto necessario per l’applicazione della norma la circostanza che il soggetto non abbia superato, in nessuno dei tre menzionati periodi d’imposta consecutivi, il test di operatività di cui al comma 1».
Per ogni periodo di imposta, anche ai fini del mantenimento del diritto al rimborso, alla compensazione e alla cessione del credito, può essere presentata l’istanza di disapplicazione al competente direttore regionale.
Si rammenta che, a norma dei commi da 36-quinquies a 36-duodecies dell’art. 2 del D.L. 13.8.2011, n. 138, convertito dalla L. 14.9.2011, n. 148 per le società di comodo:
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è disposta una maggiorazione del 10,5% sull’IRES dovuta (chiaramente l’imposta dovuta non incrementa per le società che non sono soggette all’IRES);
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l’applicazione della normativa sulle società non operative – art. 30, L. n. 724/1994 -, nonché della maggiorazione, è estesa alle società che presentano dichiarazioni in perdita fiscale per tre periodi d’imposta consecutivi (c.d. società in perdita sistemica o sistematica).
In dettaglio, il comma 36-decies specifica che, nei casi in cui non ricorrano i presupposti per considerare la società non operativa, le società e gli enti che presentano dichiarazioni in perdita fiscale per tre periodi di imposta consecutivi sono considerati non operativi a decorrere dal successivo quarto periodo di imposta. La norma fa comunque salve le clausole di esclusione previste dall’articolo 30 della legge n. 724 del 1994.
Secondo la normativa vigente, quindi, se una società è non operativa (cioè non soddisfa le percentuali di redditività stabilite dall’art. 30 della L. n. 724/1994), oppure ha presentato dichiarazioni in perdita per i tre periodi di imposta precedenti a quello di riferimento (ovvero per due periodi di imposta se un ulteriore periodo del triennio è «non operativo»), essa ha di fronte tre possibilità:
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verificare la presenza di cause di esclusione o di disapplicazione automatica (queste ultime prevedute dai due provvedimenti direttoriali n. 23681 del 14.2.2008 e n. 87956 dell’11.6.2012);
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adeguarsi al c.d. reddito minimo presunto, ossia al reddito ottenuto secondo l’applicazione delle percentuali standard (si veda, tra le altre, la dettagliata circolare n. 25/E del 2007), accettando la super-IRES e i vincoli all’utilizzo del credito IVA;
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presentare istanza di disapplicazione alla competente direzione regionale dell’Agenzia delle Entrate entro i 90 giorni anteriori alla scadenza del termine ordinario per la presentazione della dichiarazione fiscale (fine giugno / inizio luglio), manifestando e documentando le ragioni oggettive che giustificano la situazione di non operatività ovvero di perdita sistemica. In tale ipotesi, l’Agenzia potrà rispondere nei seguenti termini: a) disapplicazione; b) diniego della disapplicazione; c) inammissibilità.
Questa breve disamina consente di affermare che nel nostro ordinamento – ove è richiesta la sussistenza di alcune circostanze «generali» per poter ottenere il rimborso dell’IVA a monte, tra le quali la natura soggettiva commerciale / imprenditoriale – esistono anche ipotesi in cui, come accade per le società non operative (e in perdita sistemica), a dispetto della natura soggettiva dell’ente, il rimborso viene negato sulla base della presunzione che non sussista una vera e propria attività commerciale.
La posizione espressa dalla Cassazione
Nella sentenza della sezione tributaria n. 4157 del 20.2.2013, la Cassazione ha espresso un orientamento che appare difforme rispetto a quello della CGCE: a tale riguardo, è però opportuno esaminare la fattispecie cercando di focalizzare le ragioni del disallineamento.
Il contenzioso scaturiva dalla richiesta di rimborso IVA presentata da una società semplice, già s.a.s., la quale aveva mutato la propria forma giuridica (in s.s. appunto) a seguito dell’accertata insussistenza della convenienza a svolgere l’attività economica originariamente programmata.
Detta società era stata costituita in veste di s.a.s. «allo specifico fine di intraprendere un’attività turistico-alberghiera all’interno di immobili posti in un borgo medioevale toscano», ed era stata «trasformata in società semplice dopo la realizzazione di rilevanti opere di ristrutturazione dei succitati immobili».
Da tali opere di ristrutturazione era derivato il credito d’imposta portato nella dichiarazione fiscale relativa al periodo di imposta 1999.
L’Agenzia delle Entrate aveva negato il rimborso, eccependo che la società non aveva esercitato di fatto alcuna attività d’impresa, e pertanto difettava per essa il presupposto soggettivo richiesto dall’art. 1 del D.P.R. n. 633/1972.
Da qui era sorta l’opposizione della società, in conseguenza della quale, dopo l’esperimento del primo grado di giudizio, la CTR aveva condannato l’amministrazione al pagamento della somma richiesta, sulla base proprio dei cennati indirizzi comunitari (sentenza CGCE nella causa C-110/94).
La questione principale, costituente uno dei motivi del ricorso per cassazione dell’Agenzia delle Entrate, riguardava quindi la «necessità di effettivo svolgimento di un’attività di natura imprenditoriale ai fini della detrazione dell’Iva sugli acquisti».
Nel caso di specie, secondo la parte ricorrente per cassazione, la società semplice non era stata in grado di dimostrare mediante elementi oggettivi «né la volontà di esercitare un’attività imprenditoriale, né l’inquadramento dei propri acquisti in un’attività strumentale al futuro esercizio dell’impresa, né, infine, la circostanza che il detto esercizio non si fosse concretizzato per fatti sopravvenuti».
Doveva pertanto ritenersi inconferente il riferimento alla sentenza della CGCE, la quale «aveva avuto invece come presupposto la dimostrazione dei riferiti nessi».
Era inoltre proposto dall’Agenzia il seguente quesito di diritto: «se, per poter validamente portare in detrazione l’imposta sul valore aggiunto assolta sugli acquisti inerenti, un soggetto prefissosi il risultato di svolgere un’attività di natura imprenditoriale, debba avere effettivamente svolto siffatta attività, così come essa è definita dal D.P.R. n. 633/1972 e dal codice civile o se, al contrario, sia sufficiente che consti la presenza di dati e circostanze formali che ne individuino il mero status imprenditoriale».
Un ulteriore motivo di ricorso riguardava la mancata dimostrazione, nel caso di specie, di ragionevoli giustificazioni per il mancato inizio dell’attività ai fini della legittima detrazione dell’IVA sugli acquisti (essendo fatti salvi dalla decisione comunitaria «i casi di frode o abuso»).
Inoltre, veniva posto un problema di inerenza degli acquisti all’attività d’impresa, laddove manchi il concreto esercizio di attività imprenditoriale.
Riassuntivamente, era posto il quesito di diritto «se un soggetto avente lo status di imprenditore ovvero appartenente alle strutture societarie di cui all’art. 4 del D.P.R. n. 633/1972, qualora venga a cessare la propria attività, possa in ogni caso esercitare, laddove a suo favore residui un credito d’imposta sul valore aggiunto, il diritto al rimborso dell’eccedenza d’imposta assolta sugli acquisti ai sensi dell’art. 30 del DPR 633/72, ovvero se, anche in tal caso, il meccanismo applicativo dell’Iva (…) richieda che il diritto al rimborso sorga sempre che gli acquisti predetti siano inerenti ad un’attività di impresa effettivamente esercitata».
In sintesi, la Corte ha ritenuto di riassumere i quesiti sotto i seguenti due punti:
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necessità, o meno, dell’effettivo esercizio di un’attività imprenditoriale da parte di società commerciali, ai fini della detraibilità dell’IVA assolta sulle operazioni passive;
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sufficienza o meno a questo stesso riguardo della presunzione assoluta di commercialità di cui all’art. 4, secondo comma, del D.P.R. n. 633/1972, per legittimare la detrazione dell’IVA assolta a monte rispetto ad atti (o a operazioni) prodromici all’effettivo svolgimento di un’attività d’impresa.
Valorizzando il principio della simmetria tra operazioni attive e operazioni passive, che contraddistingue il sistema dell’IVA, la Cassazione ha osservato con riguardo al caso di specie il diritto alla detrazione non spetta sempre, bensì (solo) quando è rispettata la ratio normativa che della detrazione stessa sta alla base.
Tale ratio consiste a detta della Corte «nel neutralizzare l’Iva afferente ai trasferimenti intermedi di beni o servizi, effettuati nell’esercizio dell’impresa, fino al consumatore finale, sul quale grava, in definitiva, l’onere del tributo», ed esige «che rispetto all’IVA sulle operazioni attive resti detraibile esclusivamente l’imposta relativa all’acquisto di beni necessari per l’esercizio vero e proprio dell’impresa, effettivamente destinati, cioè, dall’imprenditore alla realizzazione degli scopi produttivi programmati».
Il requisito dell’inerenza dell’acquisto all’esercizio d’impresa deve pertanto essere identificato sulla base del raffronto tra l’operazione passiva e quelle attive, «dovendo risultare assolta la prova della strumentalità della prima rispetto alle seconde, che siano state già compiute o anche soltanto programmate».
Anche la sopra richiamata sentenza comunitaria viene riletta alla luce dell’enunciato principio, supportato dalla giurisprudenza della S.C. (Cass. n. 3706/2010; Cass. n. 16730/2008; Cass. n. 11765/2008).
«La norma citata, infatti, consente al compratore di portare in detrazione l’IVA addebitatagli a titolo di rivalsa dal venditore quando si tratti di acquisto effettuato nell’esercizio di impresa, e richiede – pertanto – un quid pluris rispetto alla qualità di imprenditore dell’acquirente, e cioè l’inerenza o strumentalità del bene comprato rispetto all’attività imprenditoriale».
In definitiva, secondo la Corte, «il sistema delineato dai mentovati artt. 1, 4, 17 e 19, D.P.R. n. 633/1972, non consente di qualificare come inerente all’esercizio dell’impresa qualsiasi operazione (attiva come) passiva compiuta dalle società commerciali, diversamente da quanto invece risultante dall’automatismo sostenuto dalla sentenza qui impugnata.
Impone invece di attribuire in ogni caso, a dette società, l’onere del versamento dell’imposta sulle operazioni attive, riservando la detraibilità del tributo solo alle operazioni passive compiute nell’effettivo esercizio dell’impresa».
Sulla base delle considerazioni sopra espresse, la sentenza della CTR, che riconosceva il diritto al rimborso sulla base della semplice qualificazione imprenditoriale della società commerciale, è stata ritenuta errata in diritto e quindi cassata con rinvio ad altra sezione della commissione regionale.
In definitiva, volendo esprimere in una brevissima «massima» il contenuto della pronuncia sopra esaminata, potrebbe affermarsi quanto segue:
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il diritto al rimborso dell’IVA sulle operazioni passive spetta anche con riferimento alle attività programmate, e non solo a quelle effettivamente poste in essere, purché venga provato il nesso di strumentalità tra queste ultime e le operazioni a monte.
3 luglio 2013
Fabio Carrirolo