nel caso in cui il cliente “licenzi” il proprio professionista mentre è ancora in essere il rapporto di collaborazione, vi sono possibilità di richiedere un risarcimento del danno?
Il recesso dal contratto di prestazione d’opera professionale è disciplinato all’interno dell’art. 2237 del codice civile. Secondo la citata disposizione, il recesso può essere effettuato dal cliente in qualunque momento nel corso dell’esecuzione del contratto professionale e senza obbligo di indicarne il motivo: in caso di esercizio di tale diritto, il cliente è comunque tenuto a corrispondere al professionista, a titolo di rimborso, solamente un importo pari alla somma delle spese sostenute e al compenso per l’opera svolta fino al momento del recesso.
La citata norma, che disciplina soltanto le ipotesi di recesso dalla prestazione d’opera di carattere professionale, deroga al principio generale stabilito dall’art. 2227 c.c., rubricato al recesso dalla prestazione nell’ambito del contatto d’opera manuale. Quest’ultima disposizione riconosce, infatti, al prestatore d’opera manuale, in caso di recesso del committente, il diritto a vedersi corrispondere, oltre il rimborso delle spese sostenute e dell’opera eseguita, anche un’indennità riconducibile al mancato guadagno. Preso atto di quanto appena esposto si sarebbe potuto concludere, dunque, che, in linea generale, il recesso del cliente dal contratto d’opera professionale non comporti, in favore del professionista, il diritto a ricevere un’indennità per il lucro cessante, differentemente da quanto previsto, invece, per il caso di prestazione d’opera manuale.
Alla luce della predetta disciplina non era chiaro se un iscritto all’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili avrebbe potuto inserire, nel proprio mandato professionale, una clausola contrattuale contenente l’obbligo, in caso di recesso del cliente, di versamento da parte di quest’ultimo di una somma corrispondente a una semestralità del corrispettivo pattuito sotto forma di “indennità per la risoluzione del mandato”. Su tale questione il CNDCEC (Pronto Ordini n. 334/2013) ha ritenuto ammissibile, in deroga alla disciplina generale dell’art. 2237 c.c., la pattuizione tra le parti di un risarcimento per il professionista in caso di recesso del cliente ex art. 1223 c.c.
Secondo il consiglio Nazionale, la differenza sostanziale tra il recesso dal contratto d’opera manuale e quello intellettuale trova giustificazione del fatto che la prestazione d’opera intellettuale ha carattere fiduciario e personale, fondandosi sull’intuitus personae, ovvero sulla tutela del contraente più debole o meno organizzato (il cliente): se il rapporto fiduciario viene meno, il cliente deve poter revocare il mandato professionale senza dover adempiere all’onere probatorio della dimostrazione della giusta causa e senza poter correre il rischio di penali economiche. Anche il codice deontologico dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, riconosce al cliente la possibilità di scelta del professionista e di revoca dello stesso(art. 20, co. 1, del Codice Deontologico). Tuttavia, il Consiglio nazionale ha osservato che le prescrizioni contenute nel citato art. 2237 del Codice civile (che disciplina il recesso dal contratto di prestazione d’opera professionale) non hanno carattere inderogabile: le parti del contratto d’opera professionale, stabilendo una durata minima del rapporto, possono escludere la possibilità per il cliente di recedere dall’incarico senza corrispondere un indennizzo per mancato guadagno del professionista a seguito del recesso esercitato.
Quanto appena esposto è stato confermato, peraltro, anche da consolidata giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. Lav., sent. n. 5738 del 6 maggio 2000). Nello specifico, i Supremi giudici hanno stabilito che, la deroga in parola può ritenersi necessaria dalle parti per loro particolari esigenze e che l’apposizione di un termine a un rapporto di collaborazione professionale continuativa, può integrare la deroga contrattuale alla facoltà di recesso, così come disciplinata dalla legge, senza che a tale fine sia necessario un patto specifico ed espresso, comportando così l’esclusione della facoltà di recesso ad nutum.
Peraltro, sempre nella richiamata sentenza, viene precisato che, l’apposizione di un termine finale alla prestazione professionale costituisce, salvo casi particolari, un patto che determina in modo vincolante la durata del rapporto: “in assenza di pattuizioni diverse o di giusta causa”, all’esercizio del recesso unilaterale dal contratto sottoposto a un termine finale da parte del cliente va connesso il diritto del prestatore d’opera intellettuale a conseguire l’ammontare del compenso contrattualmente previsto per l’intera durata del rapporto.
Alla luce dell’orientamento giurisprudenziale sopra esposto, quindi, le parti del contratto (cliente e professionista) possono, alternativamente, stabilire un termine minimo di durata del rapporto, escludendo la possibilità per il cliente di recedere anticipatamente senza corrispondere un indennizzo per il mancato guadagno del professionista a seguito del recesso esercitato, ovvero non prevedere alcun termine finale di durata del rapporto, ma prevedere, in caso di recesso del cliente, un risarcimento a favore del professionista che dovrà essere liquidato, in base a quanto sostenuto dalla dottrina, osservando le regole generali relative al risarcimento danni per inadempimento (articoli 1223 del cc). Come chiarito dal Consiglio nazionale, tale risarcimento dovrebbe, peraltro, essere corrisposto in misura pari ai compensi spettanti al professionista durante il periodo intercorrente tra la data dell’anticipata cessazione del rapporto e quella della scadenza del contratto, con l’eventuale detrazione dei lucri che il professionista si sia procurato (o avrebbe potuto procurarsi) con l’uso dell’ordinaria diligenza dopo la cessazione del rapporto.
13 giugno 2013
Sandro Cerato