Perdite costanti e ricarichi modesti giustificano l’accertamento

il fatto che una società dichiari per più periodi d’imposta continue perdite d’esercizio è una situazione automaticamente sospetta per il Fisco

In tema di IVA, la circostanza che un’impresa commerciale dichiari per più annualità un volume di affari di molto inferiore agli acquisti ed applichi modestissime percentuali di ricarico sulla merce venduta costituisce una condotta commerciale anomala, di per sè sufficiente a giustificare, da parte dell’Amministrazione, una rettifica della dichiarazione, ai sensi dell’art.54, del D.P.R. n.633/72, con conseguente potere di applicare anche una diversa percentuale di ricarico.

E’ questo, in estrema sintesi, il principio ricavabile dalla lettura della sentenza n. 1053 del 17 gennaio 2013 (ud. 5 luglio 2011) della Corte di Cassazione.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

La Corte rileva che la Commissione Tributaria Regionale ha fondato la propria decisione sull’assunto che gli elementi di fatto dai quali l’amministrazione ha tratto le presunzioni sulle quali si fonda l’accertamento impugnato (riepilogati dalla stessa sentenza gravata nell’esiguità degli utili di bilancio, nella presenza di bilanci in perdita, nella mancata indicazione delle spese di manutenzione e gestione dell’autovettura, nella presenza di ricarichi non adeguati, nella sproporzione fra i beni strumentali e i redditi) non sarebbero in realtà idonei a sorreggere dette presunzioni in quanto “non costituiscono incongruenze e non risultano talmente gravi da inficiare le scritture contabili, fondandosi su valutazioni astrattamente possibili, ma prive di un’effettiva e concreta certezza“; secondo il giudice di merito, quindi, “la difformità riscontrata non raggiunge livello di abnormità e irragionevolezza tali da privare la documentazione contabile di ogni attendibilità“, cosicchè non sarebbe stata raggiunta la prova “di una divergenza di entità così rilevante da giustificare l’accertamento di tipo induttivo operato dall’Ufficio“.

Per la Suprema Corte tale argomentazione è in primo luogo apodittica, perchè il giudice di merito non spiega le ragioni che lo hanno indotto a ritenere che “risultanze contabili caratterizzate da una costante sequenza di esercizi in perdita alternati ad esercizi con utili estremamente esigui non sia inidonea a fondare la presunzione dell’esistenza di ricavi non dichiarati”.

In secondo luogo, l’accertamento effettuato dall’ufficio non era un accertamento di tipo induttivo ex art. 55 del D.P.R. n. 633 del 1972, ma un accertamento di tipo analitico-induttivo ex art. 54, c. 2, del D.P.R. n. 633 del 1972, con la conseguenza che il riferimento della sentenza gravata al mancato raggiungimento della prova “di una divergenza di entità così rilevante da giustificare l’accertamento di tipo induttivo operalo dall’Ufficio” risulta ultroneo, in quanto il giudice di merito non doveva decidere se le incongruenze individuate dall’Ufficio nella contabilità del contribuente fossero tali da renderla inattendibile, ma doveva decidere – dando conto dell’iter logico seguito per pervenire a tale decisione – se dai rilievi di fatto evidenziati dall’ufficio fossero desumibili presunzioni gravi, precise e concordanti in ordine all’esistenza di ricavi non dichiarati.

Pertanto, per la Suprema Corte la Commissione Tributaria Regionale non si è attenuta al principio di diritto espresso da questa Corte secondo cui “In tema di IVA, la circostanza che un’impresa commerciale dichiari per più annualità un volume di affari di molto inferiore agli acquisti ed applichi modestissime percentuali di ricarico sulla merce venduta costituisce una condotta commerciale anomala, di per sè sufficiente a giustificare, da parte dell’Amministrazione, una rettifica della dichiarazione, ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, con conseguente potere di applicare anche una diversa percentuale di ricarico“. (sent. 26167/11; per analoga affermazione in materia di imposte dirette, vedi la sentenza 21536/07).

 

Brevi note

Come è noto, le imprese in perdita “sistemica” sono inserite ex lege nella selezione delle posizioni da sottoporre a controllo.

L’art. 24, del D.L. n.78/2010, conv. con modif. in L.n.122/2010, ha definito, di fatto, l’impresa in perdita sistemica, che è quell’azienda che presenta dichiarazioni dei redditi in perdita fiscale, per più di un periodo d’imposta, perdita non determinata da compensi erogati ad amministratori e soci, e non abbia deliberato e interamente liberato nello stesso periodo uno o più aumenti di capitale a titolo oneroso di importo almeno pari alle perdite fiscali stesse.

Queste imprese sono sottoposte ad una vigilanza sistematica da parte dell’Agenzia delle Entrate e della Guardia di finanza, individuate attraverso specifiche analisi di rischio.

A tali enti sono demandati coordinati piani di intervento annuali, che riguardano almeno un quinto della platea di riferimento.

In pratica, si formalizza, a mezzo legge, le disposizioni di prassi dell’agenzia delle Entrate (cfr. C.M. n. 20/E del 16 aprile 2010 e n. 13/E del 9 aprile 2009), indirizzate al rilevamento di situazioni antieconomiche per più anni.

La norma (cfr. circolare n. 4/E del 15 febbraio 2011) si riferisce alle imprese che si dichiarano in perdita, ai fini delle imposte sui redditi, per più annualità e per le quali il rischio di evasione è del tutto evidente, atteso che perdite reiterate esulano da ogni logica imprenditoriale e depongono per un posizionamento fuori mercato che, ove persistente, non giustifica la sopravvivenza dell’impresa stessa.

A supporto, la circolare pubblicata ha fatto proprio il ragionamento della giurisprudenza di legittimità (cfr. Corte di Cassazione sentenze n. 24436 del 2 ottobre 2008 e n. 21536 del 15 ottobre 2007).

Sono escluse espressamente le perdite fiscali determinate da compensi erogati ad amministratori e soci, trattandosi di componenti reddituali tassati in capo ai percettori.

Per le Entrate, la perdita fiscale che si protrae per almeno due esercizi consecutivi è sufficiente, in assenza di deliberazioni sociali di aumenti di capitale a titolo oneroso, di importo almeno pari alle perdite fiscali stesse, a legittimare l’attività di accertamento.

Il fronte della cd. antieconomicità, cioè del comportamento antieconomico, aperto nel corso di questi anni dagli uffici finanziari, e avallato dalla giurisprudenza della Cassazione, trova supporto legislativo.

L’indirizzare il controllo sugli aspetti gestionali, economici e finanziari più significativi e rilevanti ai fini fiscali comporta la valutazione della congruità delle scelte operate dall’impresa, in linea con le recenti pronunce della Corte di Cassazione.

Pur in assenza, nell’ordinamento tributario, di una norma antielusiva generale, si fa risalire sua forza al principio di capacità contributiva.

Il fatto stesso che un imprenditore commerciale, che deve agire secondo criteri di economicità per conseguire il massimo guadagno, ponga in essere invece operazioni antieconomiche può di per se stesso integrare, se non adeguatamente motivato da ragioni che invece lo rendano razionale e lo giustifichino in una prospettiva più ampia, quegli elementi indiziari che possono giustificare un accertamento tributario (cfr. Cass.n. 398/2003).

La regola alla quale si ispira chiunque svolga un’attività economica è quella di ridurre i costi, a parità di tutte le altre condizioni.

Pertanto in presenza di un comportamento che sfugga a questo parametro di buon senso e in assenza di una sua diversa giustificazione razionale, è legittimo e fondato il sospetto che l’incongruenza sia soltanto apparente e che dietro si celi una diversa realtà.

Di recente, ricordiamo, che con sentenza n. 21810 del 5 dicembre 2012 (ud. 29 ottobre 2012) la Corte di Cassazione ha legittimato la rettifica dell’ufficio che aveva stigmatizzato, attraverso l’avviso di accertamento, la cd. antieconomicità, in presenza di una azienda in perdita sistemica (la situazione reddituale costantemente dichiarata in perdita per cinque esercizi continuativi era incompatibile con l’ottimo andamento aziendale, rilevato in sede di accertamento e confermato dalla consistenza degli acquisti di beni destinati alla rivendita e dagli oneri sostenuti per il personale dipendente). La circostanza che, come nel caso di specie, “una impresa commerciale dichiari per più anni di seguito rilevanti perdite, nonchè un’ampia divaricazione tra costi e ricavi, costituisce una condotta commerciale anomala, di per sè sufficiente a giustificare da parte dell’erario una rettifica della dichiarazione, ai sensi del D.P.R. n. 600, art. 39, a meno che il contribuente non dimostri concretamente l’effettiva sussistenza delle perdite dichiarate (C. 21536/07)”.

Ed ancora con la sentenza n. 26167 del 6 dicembre 2011 (ud. 6 luglio 2011) per la Corte di Cassazionela giurisprudenza è da tempo orientata a sostegno dell’affermazione che, a fronte di condotte aziendali che risultano in netto contrasto con le leggi del mercato, compete all’imprenditore dimostrare, in modo specifico, che la differenza negativa tra costi di acquisto e prezzi di rivendita, emersa dalle scritture contabili, non è dovuta all’occultamento di corrispettivi, ma trova valide ragioni economiche che la giustificano (ex pluribus, Cass. n. 8068/2010; n. 11242/2011). La circostanza, invero, che una impresa commerciale dichiari, ai fini dell’imposta sul reddito, per più anni di seguito rilevanti perdite, nonché una ampia divaricazione tra costi e ricavi, costituisce una condotta commerciale anomala, di per sè sufficiente a giustificare da parte dell’erario una rettifica della dichiarazione, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, cui corrisponde, in materia di Iva, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, a meno che il contribuente non dimostri concretamente la effettiva sussistenza delle perdite dichiarate (v. Cass. n. 21536/2007, nonchè, da ultimo, quanto all’omologa affermazione di presunta esistenza di proventi non dichiarati, correttamente desunta dall’anomalia contabile costituita dal disavanzo di cassa, Cass. n. 11987/2011; n. 24509/2009; n. 27585/2008)”.

 

29 gennaio 2013

Francesco Buetto