I costi delle operazioni soggettivamente inesistenti

quale è il trattamento fiscale dei costi soggettivamente inesistenti all’interno di una frode carosello nel quadro della nuova normativa dei “costi da reato”?

Novella

Il comma 4-bis dell’articolo 14, legge 24 dicembre 1993, n. 537, che disciplina l’indeducibilità dei costi da reato, è stato modificato dall’art. 8, cc. 1-3, D.L. 2 marzo 2012, n. 16, poi novellato dalla legge di conversione 26 aprile 2012, n. 44.

 

Costi delle operazioni soggettivamente inesistenti nel quadro di una c.d. frode carosello

Orbene,la società che ha ricevuto consapevolmente la fattura non dall’effettivo venditore ma da una cartiera può comunque dedurre i costi sostenuti per l’acquisto. In tema di imposte sui redditi, a norma dell’art. 14, c. 4-bis, L. n. 537 del 1993 nella formulazione introdotta con l’art. 8, c. 1, dl n. 16 del 2012, sono deducibili per l’acquirente dei beni i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti, per il solo fatto che essi sono sostenuti nel quadro di una c.d. frode carosello, anche per l’ipotesi che l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che a norma del Tuir siano in contrasto con i principi effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (Cass. civ. Sez. V, Sent., 20-06-2012, n. 10167) La Corte di Cassazione, con sentenza 20 giugno 2012, n. 10167, ha stabilito che “sono deducibili per l’acquirente dei beni i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti, per il solo fatto che essi sono sostenuti nel quadro di una c.d. ‘frode carosello’, anche per l’ipotesi che l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che a norma del Tuir siano in contrasto con i principi effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità”. Ai soggetti terzi coinvolti nelle frodi carosello non è più contestabile, alla luce della nuova norma, la deducibilità dei costi, in quanto i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato ma, nella maggior parte dei casi, per essere commercializzati, venduti. Sicché non è più sufficiente il coinvolgimento (anche consapevole) dell’acquirente in operazioni che siano fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore perché non siano deducibili, ai fini delle imposte sui redditi, i costi relative alle predette operazioni.

 

Fatture soggettivamente inesistenti

L’indeducibilità non trova applicazione per i costi e le spese esposti in fattura o altri documenti aventi analogo rilievo probatorio che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi. Si tratta di operazioni realmente avvenute in cui, di norma, il cedente o il prestatore non è quello reale. È il caso della maggior parte delle frodi carosello. Ne consegue che i soggetti terzi coinvolti nelle frodi carosello non hanno più problemi di deduzione del costo; i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato ma, nella maggior parte dei casi, per essere commercializzati, venduti.

 

Principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità

Resta comunque aperto il problema della concreta deducibilità dei costi in relazione ai principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità. Tuttavia, anche per le operazioni soggettivamente inesistenti restano applicabili le disposizioni che sanciscono l’indetraibilità dell’IVA e la deducibilità dei costi in armonia al principio di inerenza.

 

Indetraibilità dell’Iva

Per la indetraibilità dell’Iva, essa resta tale in caso di partecipazione consapevole alla frode. Per quanto concerne la nuova disciplina dei costi da reato,s ussiste la piena deducibilità dei costi relativi a operazioni soggettivamente inesistenti.

Resta ovviamente ferma l’indetraibilità dell’Iva sugli acquisti relativi a fatture oggettivamente inesistenti.

 

Deducibilità

Prima delle modifiche apportate al citato art. 14, c. 4-bis, della legge 537/1993 era previsto che, nella determinazione del reddito imponibile, non fossero ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti. De iure condito, l’indeducibilità riguarda solo i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come “delitto non colposo” per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale, facendo così salva la deducibilità degli oneri correlati al compimento dei “delitti colposi”, in ragione della non intenzionalità del reato commesso. Nelle ipotesi di “delitti non colposi” – per i quali vige il regime di indeducibilità dei costi – qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione, compete il rimborso delle maggiori imposte versate e dei relativi interessi.

 

Irap

La deducibilità ha effetto anche ai fini IRAP ed è applicabile anche in caso di reati commessi prima dell’entrata in vigore del D.L. 16/2012 (2 marzo 2012), ove più favorevole (tenuto conto delle imposte, o maggiori imposte dovute), a condizione che i provvedimenti emessi in base alla previgente disposizione non si siano resi definitivi.

 

Nozione di diretta utilizzazione dei costi

Assume rilevanza innovativa la nozione di diretta utilizzazione dei costi ai fini del compimento degli illeciti qualificati. Quando solo una parte dell’attività sia da qualificarsi illecita potranno ritenersi indeducibili solo e soltanto i costi direttamente riferibili all’attività delittuosa. Si pensi al pagamento della tangente per l’acquisizione di un appalto. In questo caso la sola componente indeducibile non può che essere costituita dalla tangente e l’indeducibilità non può certamente estendersi anche ai costi dei beni realizzati con la commessa o ai costi generali d’impresa.

 

I costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizi

Non sono ammessi in deduzione”, a mente dell’art. 8, c. 1, del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, “i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizi”. Orbene, anche qui, la norma previgente sanciva l’indeducibilità dei costi (genericamente) riconducibili ad atti fatti, attività. I costi indeducibili sono solo e soltanto i costi per l’acquisizione di fattori produttivi (beni e prestazioni di servizi) di provenienza esterna. Non possono mai essere ritenuti indeducibili costi (i.e. ma non soltanto, quelli cd. generali) relativi a fattori produttivi già disponibili per l’ente, o comunque non acquisiti ad hoc. Il primo comma dell’articolo 8 citato preclude la deduzione dei soli costi per beni o servizi direttamente utilizzati per commettere delitti non colposi per cui sia stata esercitata l’azione penale. Il secondo preclude la deduzione per i costi di beni o servizi non effettivamente scambiati. Il comma 2 dello stesso articolo è preclusivo della deduzione dei soli costi per beni o servizi oggettivamente non effettivamente scambiati (inesistenza oggettiva), e non anche non effettivamente scambiati tra le parti (inesistenza soggettiva).

 

Mera trasmissione della notizia di reato al pubblico ministero

L ’indeducibilità dei costi da reato non è più ravvisabile nella mera trasmissione della notizia di reato al pubblico ministero da parte degli organi verificatori, bensì nell’azione penale esercitata nelle sue articolazioni, o nel decreto del GIP che dispone il giudizio o nella sentenza di non luogo a procedere per avvenuta prescrizione. Il regime di indeducibilità dei costi non insorge per una semplice iniziativa dell’organo amministrativo che procede all’accertamento. Con la riscrittura dell’articolo 14, comma 4-bis, della legge 537/1993, operata dall’articolo 8 del D.L. n. 16/2012, l’amministrazione finanziaria non può contestare l’indeducibilità di costi da reato e spese relative a beni e servizi direttamente utilizzati per compiere atti o attività qualificabili come delitto non colposo se il pubblico ministero non ha ancora esercitato l’azione penale. Si passa, da una generica riconducibilità a fatti qualificabili come reato, a spese e costi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività illeciti. Si tratta, in buona sostanza di un restringimento dell’ambito della indeducibilità. In presenza, viceversa, di costi relativi a beni o prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di attività delittuose, non colpose, l’indeducibilità scatta solo dopo l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, evidentemente per il delitto cui si riferiscono direttamente i beni acquistati (è il caso, per esempio, della contraffazione).Se successivamente dovesse intervenire una sentenza definitiva assolutoria, al contribuente competerà il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione e dei relativi interessi.

 

Sanzione

La nuova norma al comma 2, inoltre, stabilisce che non vengono rettificati quali maggiori ricavi, in sede di accertamento, i componenti positivi, direttamente afferenti costi e spese non sostenuti, nella misura in cui i costi (derivando da fatture false) non sono stati ammessi in deduzione. Si applica, comunque, una sanzione dal 25% al 50% dell’ammontare delle spese non sostenute, riducibile eventualmente di un terzo ove si faccia acquiescenza alle sanzioni.

 

Applicazione

Il comma 3 precisa, infine, che le nuove norme trovano applicazione anche per il passato ove più favorevoli rispetto a quelle previgenti salvo che i provvedimenti già emessi non siano definitivi. Ciò vuol dire che i contribuenti cui sia già stato notificato un accertamento in base alle vecchie regole (la casistica più frequente attiene proprio le fatture soggettivamente e oggettivamente inesistenti) potranno chiedere l’applicazione delle disposizioni più favorevoli. Se invece è già in corso un contenzioso, il contribuente dovrà chiedere analogamente al giudice l’applicazione delle disposizioni più favorevoli.

 

Prescrizione del reato

La novella legislativa,, ha previsto che “non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 del codice di procedura penale ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 del codice penale“. Il riferimento all’articolo 157 codice penale, ossia alla prescrizione del reato (inizialmente non previsto nell’articolo 8 del Dl 16/2012), è stato inserito in sede di conversione, probabilmente nell’intento di evitare che sentenze penali di non luogo a procedere fondate su motivi estranei al merito possano riverberare i propri effetti favorevoli anche sul piano fiscale.

 

Momento di innesco dell’indeducibilità

Il momento nel quale assume rilievo. ai fini della contestazione dell’indeducibilità. la qualificabilità dell’attività dell’agente come delitto non colposo è costituito dalla data in cui il Pubblico Ministero ha esercitato l’azione penale ovvero il giudice ha emesso decreto di rinvio a giudizio o sentenza di non luogo a procedere per prescrizione. Per effetto di tale presupposto temporale i costi non potranno mai essere considerati indeducibili sino a quando non si saranno verificate le circostanze anzidette. Prima dell’avvio dell’azione penale (o comunque del verificarsi di una delle altre condizioni temporali indicate) la contestazione non può essere mossa. Si tratta soltanto di una condizione temporale necessaria, ma non sufficiente a qualificare l’indeducibilità. Non si potrà mai avere indeducibilità sino a quando la sussistenza del reato (delitto non colposo) non sia stata accertata. Diversamente, infatti, si sarebbe in presenza di una sanzione (l’indeducibilità) in assenza dell’accertamento della colpevolezza dell’agente. Costituisce innesco della norma (che se interpretata rigidamente dovrebbe condurre all’indeducibilità del costo) anche l’ipotesi in cui “… il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 del codice di procedura penale ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 del codice penale”.

 

Rimborso

Con riferimento al disinnesco della indeducibilità, la (nuova) previsione normativa precisa che “qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’art. 530 del codice di procedura penale ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’art. 529 del codice di procedura penale, compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi”. Sussiste l’anomala o incomprensibile esclusione dal diritto al rimborso di quanto corrisposto dal contribuente in pendenza del giudizio tributario per le sanzioni che, almeno stando al tenore letterale della norma, non potrebbero essere restituite.

 

8 ottobre 2012

Ignazio Buscema

 

ALLEGATO

Cass. civ. Sez. V, Sent., 20-06-2012, n. 10167

Fatto Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo

La controversia concerne l’impugnazione di una serie di avvisi di accertamento ai fini IVA, IRPEG ed IRAP relativamente ad una attività di acquisto di autoveicoli di provenienza estera (cessioni intracomunitarie) da società intermediarie e successiva rivendita realizzando un meccanismo contabile di fatturazioni soggettivamente inesistenti nel quadro di una “frode carosello”: Ulteriore contestazione mossa dall’amministrazione, ma successivamente abbandonata, era quella relativa a certi “bonus straordinari” versati ad agenti o ad altri intermediari.

La Commissione adita accoglieva il ricorso della società contribuente, ma la decisione era riformata in appello, con la sentenza in epigrafe che dava atto anche della rinuncia dell’Ufficio alla pretesa relativa ai cd. “bonus qualitativi”, avverso la quale la società contribuente propone ricorso per cassazione con quattordici motivi. L’amministrazione non ha notificato controricorso, ma ha depositato un atto di costituzione ai fini della partecipazione all’udienza di discussione.

 

Motivi della decisione

I motivi di ricorso, salvo l’ultimo che deve essere considerato separatamente, rappresentano una “artificiale” parcellizzazione di una sostanzialmente unica censura che investe, sotto il profilo del vizio di violazione di legge e del vizio di motivazione, la sentenza impugnata sul punto relativo alla natura di “cartiere” delle società interposte e al carattere “evasivo” della società contribuente sulla base delle prove presuntive addotte dall’amministrazione e ritenute, dalla parte ricorrente, non assistite dai requisiti di gravità, sufficienza e concordanza, nonchè sulle conseguenze che da tanto sono state dedotte quanto alla affermata indetraibilità dell’IVA (con violazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19) e alla ritenuta indeducibilità dei costi (con violazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis).

Per valutare la fondatezza o infondatezza del complesso delle censure articolate nel ricorso (molte delle quali si palesano inammissibili quali istanze per una mera revisione del giudizio di merito e per difetto di autosufficienza), va rilevato che la sentenza impugnata, con analitico approfondimento di tutti gli elementi della fattispecie sottoposta al suo esame, ha accertato in fatto, con congrua motivazione, l’esistenza di una ipotesi di “frode carosello” in un quadro probatorio tanto grave da far concludere il giudice per un comportamento della società contribuente che, al di là di “fatture e di operazioni soggettivamente inesistenti”, si sostanzia in “un comportamento globalmente fraudolento nel suo insieme, che si traduce in un pregiudizio per l’erario per effetto del versamento di una minore imposta, nonchè in un vulnus alla correttezza e alla regolarità commerciale e del mercato, realizzato per effetto dell’abuso di circostanze a sè favorevoli”. Contrariamente a quanto la società ricorrente dimostra di credere – il giudice d’appello ha verificato la sussistenza di un comportamento fraudolento più grave di quello originariamente ipotizzato dall’amministrazione finanziaria, spiegandone efficacemente e compiutamente le ragioni:

sicchè non vi è stata omissione di pronuncia, bensì rigetto implicito della contraria ipotesi avanzata, nè vi è stata violazione di legge o inadeguatezza della motivazione. Punto centrale resta la prova che il contribuente, a fronte di operazioni inesistenti, è tenuto a dare (anche secondo l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Giustizia) della propria buona fede (e che nel caso il giudice ha ritenuto non sia stata data).

Quel che la ricorrente insiste nel ritenere una parte “debole” della sentenza impugnata – e cioè, l’affermazione che: “Questa Commissione non parlerebbe tanto di fatture e di operazioni soggettivamente inesistenti, bensì di un comportamento globalmente fraudolento nel suo insieme, che si traduce in un pregiudizio per l’erario….” – è, invece, un elemento “forte” della decisione, in quanto, come già rilevato, esprime il convincimento, raggiunto dal giudice d’appello, sulla sussistenza di un quadro indiziario di tale capacità probante, da eccedere la dimostrazione persuasiva dell’esecuzione di singole “operazioni inesistenti”, per far emergere un più complessivo sistema fraudolento, nel quale sarebbe impossibile negare la consapevolezza della società contribuente nella partecipazione alla “frode”. E analiticamente il giudice spiega come siffatte conclusioni fossero giustificate dall’assenza di una qualsiasi convincente spiegazione dell’intera operazione, in particolare in ordine alla necessità dell’interposizione di altre società – peraltro prive di mezzi e strutture “sufficienti per organizzare operazioni di acquisto e rivendita di autoveicoli della dimensione quantitativa di quelle realizzate grazie alla Baiauto S.p.A.” -, e dalla qualità di “operatore qualificato di quest’ultima che, attraverso l’intervento di funzionali esperti nel settore, ben difficilmente poteva non conoscere a quali obiettivi potesse mirare la presenza di un terzo intermediario dell’operazione”. Tanto più che si trattava di un terzo privo di quelle caratteristiche proprie necessarie per realizzare l’operazione stessa e fonte, comunque, di ulteriori ed “evitabilissimi costi”. Sicchè la sentenza impugnata si dimostra adeguatamente motivata e riesce ad illuminare efficacemente le ragioni per le quali il giudice ha ritenuto nella specie la gravita, precisione e concordanza del quadro indiziario. Nè la ricordata affermazione del giudice di merito si presta ad essere interpretata come una violazione del precetto di dovuta corrispondenza tra chiesto e pronunciato, nè come una terza via “a sorpresa” eletta dal giudice per risolvere le questioni sottopostegli: si tratta, in verità, di una semplice enunciazione dell’efficacia probante del quadro indiziario teso a dimostrare, come necessario e come possibile mediante l’utilizzo di presunzioni semplici dotate del requisito di gravita, precisione e concordanza, “gli elementi di fatto della frode, attinenti il cedente, ovvero la sua natura di “cartiera”, la inesistenza di una struttura autonoma operativa, il mancato pagamento dell’IVA come modalità preordinata al conseguimento di un utile nel meccanismo fraudolento e in secondo luogo, la connivenza nella frode da parte del cessionario”, ossia “elementi obiettivi tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto sull’inesistenza sostanziale del contraente” (v. Cass. n. 10414 del 2011). Questo e non più di questo è il senso dell’affermazione, a torto criticata, che il giudice d’appello pone a fondamento della sua decisione.

Tanto premesso deve essere valutato separatamente, quanto alle conseguenze dell’accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito, il profilo relativo alla indetraibilità dell’IVA da quello relativo al profilo della indeducibilità dei costi.

Quanto al primo profilo, non può esservi dubbio, sulla scorta del costante orientamento di questa Corte, che quanto affermato dalla sentenza impugnata in tema di sussistenza nella fattispecie di operazioni soggettivamente inesistenti, non può costituire una violazione della sesta direttiva CEE relativamente alla indetraibilità dell’imposta. “In tema di IVA” ha stabilito questa Corte”, nelle cd. “frodi carosello” – fondate sul mancato versamento dell’imposta incassata da società “cartiere” a seguito di acquisti intracomunitari, o altrimenti esenti, e successive rivendite anche attraverso l’interposizione di una o più società filtro (buffers) – il meccanismo dell’operazione e gli scopi che la stessa si propone (acquisizione di materiali a prezzi più contenuti al fine di praticare prezzi di vendita più bassi, con alterazione a proprio favore del libero mercato), fanno presumere la piena conoscenza della frode e la consapevole partecipazione all’accordo simulatorio del beneficiario finale, con la conseguenza che, in applicazione del relativo principio sancito dall’art. 17 della direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, l’IVA assolta dal medesimo beneficiario nelle operazioni commerciali con la società filtro non è detraibile ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19, anche se le predette operazioni siano state effettivamente compiute e le relative fatture, al pari dell’intera documentazione contabile, sembrino perfettamente regolari” (Cass. n. 867 del 2010). Nel caso di specie, come si è già rilevato, il giudice di merito, con congrua motivazione, ha accertato che nel giudizio non è stata conseguita la prova della “buona fede” della società contribuente, anzi che vi sono convincenti indizi della consapevolezza del carattere delle operazioni da parte di detta società.

Quanto al secondo profilo, quello relativo alla indeducibilità dei costi rispetto al quale viene dedotta la violazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis, occorre tener conto della modifica apportata alla predetta disposizione con il D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 1. Detta norma prevede che la L. n. 537 del 1993, art. 4, comma 4-bis sia sostituito dal seguente: “Nella determinazione dei redditi di cui al testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 1, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi”. A norma del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 3: “Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano, in luogo di quanto disposto dalla L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al comma 4- bis previgente non si siano resi definitivi; resta ferma l’applicabilità delle previsioni di cui al periodo precedente ed ai commi 1 e 2 anche per la determinazione del valore della produzione netta ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive”. La relazione al disegno di legge di conversione del decreto all’esame del Parlamento spiega lo scopo della norma con la volontà del legislatore di “inibire in modo inequivoco la deducibilità dei componenti negativi di reddito direttamente connessi al compimento delle fattispecie di reato più gravi, evitando che tale indeducibilità possa essere letta come una sanzione impropria, venendo invece la stessa inquadrata come regola generale nell’ambito della determinazione del reddito imponibile”. Venendo a quel che più interessa la fattispecie che si discute nella presente controversia, la ricordata relazione al disegno di legge di conversione, afferma:

“Per effetto di questa disposizione, l’indeducibilità non trova applicazione per i costi e le spese esposti in fatture o altri documenti aventi analogo rilievo probatorio che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi, ferme restando le regole generali in materia di detrazione della relativa imposta sul valore aggiunto di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 e in tema di deduzione previste dal testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917; pertanto, ove del caso, l’indeducibilità dei costi rappresentati in documenti emessi da soggetti che in tutto o in parte non hanno effettivamente posto in essere l’operazione, sarà, comunque, rilevabile per effetto delle altre disposizioni normative eventualmente applicabili e connesse ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità dei componenti negativi”. Ciò significa che ai soggetti terzi – alla cui categoria appartiene la società contribuente nel caso di spese – coinvolti nelle frodi carosello non è più contestabile, alla luce della nuova norma, la deducibilità dei costi, in quanto i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato ma, nella maggior parte dei casi, per essere commercializzati, venduti. Sicchè non è più sufficiente il coinvolgimento (anche consapevole) dell’acquirente in operazioni che siano fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore perchè non siano deducibili, ai fini delle imposte sui redditi, i costì relative alle predette operazioni.

Resta comunque aperto il problema della concreta deducibilità dei costi in relazione ai principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità: ma di un siffatto accertamento non vi è traccia nel giudizio. Pertanto sotto questo profilo il ricorso è da accogliere con la conseguente cassazione della sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito perchè esamini nuovamente la questione concernente la deducibilità dei costi alla luce del seguente principio di diritto: “In tema di imposte sui redditi, a norma della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis, nella formulazione introdotta con il D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, sono deducibili per l’acquirente dei beni i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti, per il solo fatto che essi sono sostenuti nel quadro di una c.d. “frode carosello”, anche per l’ipotesi che l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che a norma del TUIR siano in contrasto con i principi effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità”. Con il quattordicesimo ed ultimo motivo, la ricorrente lamenta l’omessa pronuncia sulla richiesta di disapplicazione (o, subordinatamente, di riduzione) delle sanzioni.

Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza. Nella sentenza impugnata manca qualsiasi riferimento ad una sollevata eccezione di disapplicazione delle sanzioni e alle relative ragioni legittimanti: nel ricorso non sono chiariti questi punti, se non attraverso un richiamo ad una richiesta, genericamente formulata, di disapplicazione delle sanzioni, senza esporre quali fossero state le motivazioni addotte dalla società contribuente a sostegno della richiesta stessa. E tanto non basta, in particolare alla luce della perplessa esposizione del motivo di ricorso che si muove tra una disapplicazione che sarebbe dovuta sulla base di una non meglio chiarita incertezza delle condizioni di applicabilità della normativa (quale?) ed una supposta riduzione che sarebbe consequenziale alla parziale estinzione della controversia in ordine ai bonus.

11 ricorso, pertanto, deve essere accolto nei limiti di cui alla surriportate motivazioni e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio ad altra Sezione della Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia-Romagna, che provvederà anche in ordine alle spese della presente fase del giudizio.

 

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra Sezione della Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia-Romagna.