Il P.V.C. dell'INPS legittima l'accertamento fiscale

E’ legittimo l’accertamento analitico-induttivo effettuato dall’Agenzia delle Entrate sulla base di un PVC della Finanza che richiama, a sua volta, un PVC dell’Inps.

Processo Verbale di Contestazione dell’INPS e legittimità dell’accertamento fiscale

chi deve produrre il processo verbale di contestazione PVC in caso di verifica fiscaleLa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13027 del 24 luglio 2012, ha riconosciuto la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo effettuato dall’Agenzia delle Entrate sulla base di un Pvc della gdf che richiama, a sua volta, un Processo Verbale di Contestazione dell’Inps, senza necessità che gli ispettori dell’Agenzia delle Entrate effettuino una loro verifica ed emettano il relativo Pvc.

Ciò che rileva, secondo la Corte, è la conoscenza dell’atto da parte del contribuente.

 

Il fatto

Gli atti impositivi si fondano sulla verifica svolta dalla Guardia di finanza, la quale aveva riscontrato che la (X) aveva tenuto una contabilità irregolare, anche in forza dei rilievi mossi dagli ispettori Inps, consistenti in :

  • mancata registrazione di costi;

  • non annotazione di proventi costituiti dai compensi corrisposti in nero ai due dipendenti.

In ogni caso, il contribuente era a conoscenza delle ragioni della ripresa fiscale, posto che i verbali della GdF e dell’Inps erano conosciuti dalla medesima, per essere stati consegnati ad essa e ai quali gli avvisi facevano riferimento, sicché il ricorso al metodo analitico-induttivo era stato regolare.

 

La sentenza

“In tema di accertamento induttivo dei redditi d’impresa, consentito dall’art. 39, comma primo, lett. d) del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 sulla base del controllo delle scritture e delle registrazioni contabili, l’atto di rettifica, qualora l’ufficio abbia sufficientemente motivato, sia specificando gli indici di inattendibilità dei dati relativi ad alcune poste di bilancio, sia dimostrando la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, è assistito da presunzione di legittimità circa l’operato degli accertatori, nel senso che null’altro l’ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla eventuale antieconomicità delle stesse, senza che sia sufficiente invocare l’apparente regolarità delle annotazioni contabili, perché proprio una tale condotta è di regola alla base di documenti emessi per operazioni inesistenti o di valore di gran lunga eccedente quello effettivo (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 951 del 16/01/2009, n. 11599 del 2007).

Del resto anche le vicende relative alla situazione patrimoniale del contribuente accadute in anni diversi da quello in contestazione possono costituire legittimi indici di capacità contributiva in tale materia, allorché si riflettano sul periodo fiscale interessato, traducendosi in ulteriori ed autonomi indici contributivi (V, pure Cass. Sentenza n. 6714 del 02/06/1992)”.

 

Inoltre, prosegue la sentenza,

“ in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico – induttivo del reddito d’impresa, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. d) , del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo della antieconomicità del comportamento del contribuente. Pertanto in tali casi è consentito all’ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici – purché gravi, precise e concordanti – maggiori ricavi o minori costi, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente, come nella specie (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 6337 del 03/05/2002, n. 11645 del 2001))”.

 

 

Legittimità dell’accertamento basato su PVc dell’INPS – Brevi note

In ordine alla valenza degli elementi acquisiti, si rileva che la Corte di Cassazione – sentenza n. 7832 dell’11 giugno 2001 – aveva già ritenuto legittimo l’accertamento dell’ufficio motivato sul richiamo ad un pvc dell’INPS, in quanto il recepimento di una conclusione di un ente – anche non tributario – se non accompagnata da una autonoma valutazione, sta a significare che l’ufficio ne condivide le motivazioni.

Nel caso di specie, la migliore dottrina ritiene che

“l’atto di accertamento in questione non rinvia ad atti dell’Amministrazione finanziaria o della Gdf ma a quello di enti che non hanno competenze tributarie. In effetti, la norma contenuta nell’art. 36 del Dpr 600/1973, fa riferimento all’obbligo di soggetti pubblici incaricati istituzionalmente di svolgere attività ispettive o di vigilanza che, a causa o nell’esercizio delle loro funzioni vengono a conoscenza di fatti che possono configurarsi come violazioni tributarie, di comunicarli direttamente alla Gdf. Va da sé che la Gdf dovrebbe far propri tali documenti e procedere con successivi atti tipici della polizia tributaria: circostanza questa che, nel caso di specie, non sembra essere avvenuta e che tuttavia non è risultata rilevante, dai giudici, ai fini della legittimità dell’avviso di accertamento”.1

 

La stessa Cassazione, con sentenza n.17222, depositata il 28 luglio 2006, ha ritenuto ancora una volta legittima la rettifica del reddito, fondata su una segnalazione della Guardia di finanza, dove la prova del maggior reddito era stata desunta dalle risultanze dell’accertamento dell’Inps elevato nei confronti di una società, in debito verso l’Inps.

Sul versante delle presunzioni, ricordiamo che la rettifica analitica, con posta induttiva sui ricavi, di cui all’art. 39, c. 1, lett. d, del D.P.R. n. 600/1973, consente di ricostruire i ricavi, in presenza di presunzioni gravi, precise e concordanti, da rendere inattendibili le risultanze documentali per mancanza delle garanzie inerenti a una contabilità sistematica.

Per giurisprudenza costante della Corte di Cassazione

“il procedimento presuntivo consiste nella interpretazione di un fatto certo – in quanto pacificamente riconosciuto o acclarato dal giudice attraverso i mezzi di prova legittimamente acquisiti, o desumibili dalle nozioni di fatto che rientrano nell’ambito della comune esperienza – per risalire ad un fatto ignoto, che costituisce in se stesso oggetto del thema probandum e che viene ritenuto provato in quanto correlato con logica conseguenzialità al primo.

Devesi tener presente al riguardo: che gravi sono gli elementi presuntivi oggettivamente e intrinsecamente consistenti e come tali resistenti alle possibili obiezioni, precisi sono quelli dotati di specificità e concretezza e non suscettibili di diversa altrettanto (o più) verosimile interpretazione, e concordanti sono quelli non confliggenti tra loro e non smentiti da altri dati ugualmente certi. In altre parole, la gravità dell’elemento indiziario ne esprime la capacità dimostrativa in funzione del tema della prova, la precisione risponde a una esigenza di univocità, e la concordanza soddisfa la necessità di una valutazione integrata e complessiva di tutti gli elementi che presentino singolarmente una almeno parziale rilevanza probatoria positiva.

Peraltro, non si richiede che i fatti su cui la presunzione si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignorato come l’unica conseguenza possibile secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva, essendo sufficiente invece che, alla luce delle regole di esperienza e secondo l’id quod plerumque accidit, il fatto ignoto sia desumibile alla stregua di un canone di probabilità con riferimento a una connessione di accadimenti ragionevolmente verosimile in base a un criterio di normalità”2.

 

Tale pensiero risulta condiviso anche dalla giurisprudenza di merito3, che ha affermato che

“a legittimare la prova per presunzioni basta che la deduzione sia effettuata alla stregua di un canone di probabilità con riferimento ad una connessione possibile e verosimile, non occorrendo che i fatti su cui la presunzione si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile e verosimile dei fatti medesimi, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva”.

 

Inoltre,

“è altrettanto vero che il contribuente – il quale intenda contestare l’idoneità dimostrativa di quei fatti, oppure sostenere l’esistenza di circostanze modificative od estintive dei medesimi – deve, a sua volta, dimostrare i fatti su cui le sue eccezioni si fondano”4.

 

L’unico limite all’utilizzo dell’art. 39, c. 1, lett. d, va ravvisato nell’obbligo di porre a supporto dei rilievi delle presunzioni dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, come previsti dall’art. 2729, c. 1, del codice civile.

 

Nello specifico dell’antieconomicità, evidenziamo, per tutte, la sentenza della Cassazione n. 26167 del 6 dicembre 2011 (ud 6 luglio 2011). Per la Suprema Corte, “

la giurisprudenza è da tempo orientata a sostegno dell’affermazione che, a fronte di condotte aziendali che risultano in netto contrasto con le leggi del mercato, compete all’imprenditore dimostrare, in modo specifico, che la differenza negativa tra costi di acquisto e prezzi di rivendita, emersa dalle scritture contabili, non è dovuta all’occultamento di corrispettivi, ma trova valide ragioni economiche che la giustificano (ex pluribus, Cass. n. 8068/2010; n. 11242/2011).

La circostanza, invero, che una impresa commerciale dichiari, ai fini dell’imposta sul reddito, per più anni di seguito rilevanti perdite, nonché una ampia divaricazione tra costi e ricavi, costituisce una condotta commerciale anomala, di per sè sufficiente a giustificare da parte dell’erario una rettifica della dichiarazione, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, cui corrisponde, in materia di Iva, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, a meno che il contribuente non dimostri concretamente la effettiva sussistenza delle perdite dichiarate (v. Cass. n. 21536/2007, nonchè, da ultimo, quanto all’omologa affermazione di presunta esistenza di proventi non dichiarati, correttamente desunta dall’anomalia contabile costituita dal disavanzo di cassa, Cass. n. 11987/2011; n. 24509/2009; n. 27585/2008)”.

 

La presenza di scritture contabili formalmente regolari non preclude all’amministrazione finanziaria di procedere, legittimamente, all’accertamento analitico induttivo dei ricavi (o del reddito d’impresa) dichiarati da un contribuente che, nel corso dell’esercizio controllato, abbia posto in essere un comportamento palesemente antieconomico.

Da qui, il conseguente spostamento dell’onere della prova a carico di quest’ultimo, il quale, dal canto suo, deve validamente motivare quelle scelte imprenditoriali non in linea con i criteri di economicità (cfr. per tutte Cass. nn. 398/2003 e 6337/2002).

 

A questi insegnamenti si è attenuta l’impugnata sentenza, per cui è consequenziale dedurne l’infondatezza, innanzi tutto, del sesto motivo nella parte afferente, atteso che – in presenza di una pluriennale condotta antieconomica – l’onere della prova, appunto, si inverte a carico dell’imprenditore.

La sentenza, inoltre, contrariamente a quanto sostenuto in tal caso nel secondo motivo, indica le ragioni per cui ha ritenuto implausibile la spiegazione fornita, nel rilievo che la politica aggressiva di ribasso dei prezzi comunque non poteva giustificare il riscontro di un volume d’affari dichiarato in misura costantemente inferiore agli acquisti, “considerato che la regola alla quale si ispira chiunque svolga un’attività economica è (semmai) quella di ridurre i costi”.

 

8 agosto 2012

Gianfranco Antico

 

NOTE

1 IORIO, Verbali Inps a utilizzo multiplo, in “ Il Sole 24 ore”, edizione del 15.7.2001

2 Fra le altre cfr. Cass.,Sez.I, Sent. del 14 agosto 1992, n. 9583.

3 CTC, sez. XXVII del 04.11.92 n.5902

4Cass., Sez.V, sent. n. 4857 del 2 aprile 2001. Tale sentenza, in tema di reddito di lavoro autonomo, si segnala in quanto, fra l’altro, evidenzia che l’accertamento operato dall’ufficio “non si basa affatto sulla generica contestazione di non inerenza delle predette spese in ragione della loro natura superflua, bensì sulla precisa affermazione della incongruità delle stesse con riferimento al titolo documentale giustificativo esibito dallo studio … e, in particolare, al suo oggetto ed al valore dei beni in esso specificamente indicati; sicchè, l’argomento più volte addotto nella motivazione … della insindacabilità delle scelte imprenditoriali da parte degli organi tributari di controllo si palesa, per un verso, irrilevante, nella misura in cui si fonda su un presupposto di fatto erroneo, e, per l’altro, anche contraddittorio, laddove … anche la superfluità di un costo finisce con l’essere ricondotta nell’ambito degli indizi di non inerenza dello stesso “. La vicenda processuale, oggetto della sentenza, riguarda la deducibilità da parte di uno studio associato delle spese corrispondenti ai costi sostenuti per l’utilizzazione di beni e servizi fornitigli da una Fondazione, documentante con fatture ” recanti, quale indicazione dell’oggetto, l’espressioneutilizzo ns. impianto e strutture”.