L'abuso del diritto è rilevabile anche d'ufficio

Analisi di una recente ed importante sentenza di Cassazione che estende l’applicazione della disciplina di contrasto alle operazioni elusive.

Con sentenza n. 7393 dell’11 maggio 2012 (ud. 5 aprile 2012) la Corte di Cassazione, nel confermare che l’assenza di valide ragioni economiche determina l’abuso del diritto, ha affermato che lo stesso è rilevabile d’ufficio.

 

La sentenza

La Corte, innanzitutto, rileva che ciascun giudice ha il potere

“di qualificare autonomamente la fattispecie demandata alla sua cognizione, a prescindere dalle allegazioni delle parti in causa. Ne discende che, nel processo tributario, la suddetta necessità di perimetrare l’ambito del giudizio entro i confini posti dalle ragioni poste a base dell’atto impositivo, non impedisce al giudicante di operare una diversa qualificazione giuridica della fattispecie concreta, che abbia dato luogo all’esercizio della pretesa fiscale sottoposta al suo esame. E neppure può ritenersi precluso, allo stesso giudice, l’esercizio di poteri cognitori d’ufficio, non potendo ritenersi che i poteri del giudice tributario siano più limitati di quelli esercitabili in qualunque processo di impugnazione di atti, come quello amministrativo di legittimità (v., in tal senso, Cass. 20398/05, 21221/06)”.

 

Sempre in via preliminare, la Suprema Corte osserva

“che l’ordinamento tributario è ispirato all’esigenza di contrastare il c.d. abuso del diritto, individuato dalla giurisprudenza comunitaria come lo strumento essenziale, finalizzato a garantire la piena applicazione del sistema comunitario di imposta. In materia tributaria, invero, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, sebbene non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio di imposta, in assenza di ragioni economiche apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici (cfr., tra le tante, Cass. 6800/09, 4737/10, 20029/10, 1372/11)”.

 

Nell’ordinamento italiano

“il principio del divieto di abuso del diritto trova la sua derivazione, per quel che concerne i tributi armonizzati (l’IVA, le accise ed i diritti doganali), da un principio generale del diritto comunitario, secondo cui i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme di tale diritto.

L’applicazione delle stesse non può – per vero – essere estesa fino a comprendere pratiche abusive, ossia operazioni effettuate, non nell’ambito di normali transazioni commerciali, ma esclusivamente allo scopo di beneficiare abusivamente dei vantaggi previsti dal diritto comunitario (cfr, tra le tante, C. Giust CE, 9.3.99, causa C – 212/97, Centros, C. Giust. CE, 21.2.06, causa C – 255/02, Halifax, C. Giust. CE, 6.4.06, causa C – 456/04, Agip Petroli, C. Giust. CEr 12.9.06, causa C – 196/04, Cadbury Schweppes, C. Giust. CE, 5.7.07, causa C – 321/05).

Ed anche nella giurisprudenza di questa Corte si è affermato, in relazione ai tributi armonizzati (e segnatamente all’IVA), che le pratiche abusive consistenti nell’impiego di una forma giuridica, o di un regolamento contrattuale, al fine di realizzare quale scopo principale, ancorchè non esclusivo, un risparmio di imposta, consistono in abusi di diritti fondamentali garantiti dall’ordinamento comunitario e, pertanto, assumono rilievo normativo primario in tale ordinamento, indipendentemente dalla presenza di una clausola generale antielusiva nell’ordinamento fiscale italiano (cfr. Cass. 25374/08)”.

 

Per quanto concerne, poi, i tributi non armonizzati (imposte dirette, come nel caso di specie)

“il principio del divieto di abuso del diritto trova, invece, fondamento nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, dettati dall’art. 53 Cost..

Nè tale principio contrasta con quello di riserva di legge in materia tributaria (art. 23 Cost.), atteso che – lungi dal tradursi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge – esso si concreta esclusivamente nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo, o prioritario, scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali”.

 

Il principio in parola comporta, dunque, l’inopponibilità del negozio stesso all’amministrazione finanziaria, per qualsivoglia profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diversi da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche disposizioni antielusive (cfr. Cass. S.U. 30055/08, Cass. 4737/10, 1372/11).

Il passaggio certamente significativo è quello con cui la Corte di Cassazione afferma che il rango comunitario e costituzionale del principio di divieto di abuso del diritto determina “la sua applicazione d’ufficio da parte del giudice tributario, a prescindere, dunque, da qualsiasi allegazione, al riguardo, ad opera delle parti in causa (Cass. S.U. 30055/08, Cass. 1372/11)”.

Nè può affermarsi che il principio del divieto di abuso del diritto sia stato elaborato dalla giurisprudenza della Corte per sopperire alla mancanza, nell’ordinamento finanziario italiano, di una clausola antielusiva generale, così che, nelle ipotesi in cui tale disposizione espressa sussista, il principio generale di divieto di abuso del diritto non sarebbe configurabile.

“Al contrario, invero, siffatto principio esiste in ambito comunitario e costituzionale, ovverosia a livello normativo primario, ben prima ed a prescindere dall’esistenza di norme elusive espresse nell’ordinamento italiano, di rango legislativo.

Sicchè, quando – come nella specie – tale disposizione espressa antielusiva esiste, sarebbe del tutto illogico escludere dall’operatività del divieto di abuso del diritto proprio i comportamenti diretti ad eludere tale specifica norma antielusiva, per il solo fatto che il giudicante di merito si sia limitato a richiamare espressamente solo il prioritario e pozione principio suindicato, di derivazione comunitaria e costituzionale”.

 

Nel caso di specie, si è in presenza – secondo la ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito – di un’operazione negoziale (conferimento dello stabilimento nelle Bahamas dalla società portoghese alla società bahamense, con l’effetto di svalutare la partecipazione della T. s.r.l. nella prima, quale effetto della concatenata svalutazione della partecipazione della società portoghese in quella bahamense), palesemente diretta a determinare un decremento di valore del reddito imponibile della società italiana.

La CTR, attraverso il ricorso al principio di divieto di abuso del diritto, è – per vero – pervenuta al risultato di censurare il comportamento di evasione di imposta, mediante la riduzione del reddito tassabile conseguente alla riduzione del valore della suddetta partecipazione, non già ipotizzando una violazione diretta dell’art. 61, c. 3-bis, del D.P.R. n. 600 del 1973, bensì mediante la costruzione di una fattispecie fiscalmente atipica, del tutto equiparabile a quella tipica prefigurata dalla norma summenzionata.

Per tale via, dunque, all’ipotesi concretantesi in una fattispecie elusa (violazione diretta della norma succitata), è stata in concreto equiparata quella della fattispecie elusiva, conseguente all’avere il contribuente dato vita ad un’operazione negoziale che – seppure in via indiretta – ha prodotto lo stesso risultato, in termini di risparmio di imposta, della fattispecie tipica di evasione fiscale.

La Corte rileva all’evidenza che siffatta equiparazione tra i due fenomeni suindicati è imposta dalla logica intrinseca al sistema tributario, nel quale è preminente e va salvaguardata in ogni caso – per una regola di rango costituzionale – l’esigenza della parità di trattamento nella ripartizione delle spese pubbliche, quale si ricava dal combinato disposto degli artt. 3 e 53 Cost..

Neppure può ritenersi, infine, configurabile, a giudizio della Corte, la dedotta pretermissione, da parte del giudice di appello, delle garanzie procedimentali (richiesta di chiarimenti, instaurazione di un contraddittorio con il contribuente) previste dalla norma di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, c. 4.

Ed invero, va rilevato al riguardo che la norma succitata non richiede particolari formalità per la preventiva richiesta di chiarimenti al contribuente, prima dell’emanazione dell’avviso di accertamento, limitandosi a prevedere che la stessa possa essere fatta “anche per lettera raccomandata”, senza escludere, pertanto, altre modalità, ivi compresa la richiesta orale da parte dei verbalizzanti, dovendo la sola risposta del contribuente essere necessariamente formulata per iscritto (cfr. Cass. 351/09).

Ebbene, nel caso di specie, deve ritenersi che siffatta esigenza garantistica sia stata pienamente rispetta dall’amministrazione, atteso che dallo stesso ricorso si evince che alla contribuente, all’esito della verifica fiscale operata nei suoi confronti, fu consegnato il processo verbale di constatazione, nel quale i verificatori contestavano alla società italiana la suddetta indeducibilità della svalutazione della partecipazione, dalla stessa detenuta, nella controllata società portoghese.

Per il che, essendo del tutto evidente che un contraddittorio con la contribuente – a conoscenza della quale erano stati portati, prima dell’emissione dell’avviso di accertamento, tutti i rilievi operati dai verificatori – è stato regolarmente instaurato dall’amministrazione, prima dell’emanazione dell’atto impositivo, il proposto ricorso appare del tutto infondato anche in relazione a tale profilo (in pratica, la Corte attraverso il Pvc ritiene debitamente instaurato il contraddittorio, dal momento che i verificatori hanno l’obbligo di verbalizzare le eventuali dichiarazioni che il contribuente intende rendere).

 

 

 

Abuso del diritto – Brevi note

La nozione di abuso del diritto, quindi, secondo l’indirizzo giurisprudenziale della Corte Suprema, assume il ruolo di una clausola generale utilizzabile per l’intero ordinamento tributario.

Al riguardo vengono richiamate alcune recenti pronunce della Corte (Cass. nn. 30055/2008, 30056/2008, 30057/2008 e 15029/2009), rese a Sezioni Unite, che hanno riconosciuto l’esistenza di un principio generale antielusivo, con la precisazione che la fonte di esso, in tema di tributi non armonizzati, va rinvenuta negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano ed, in particolare, nei principi della capacità contributiva e di progressività di cui all’art. 53 della Costituzione.

Proprio la sentenza n. 30055 del 02.12.2008 (dep. il 23.12.2008) la Corte di Cassazione a SS.UU – conforme Cass. SS.UU. n. 30056/2008 e 30057/2008 di pari data – ha affermato che i principi costituzionali della capacità contributiva e della progressività dell’imposizione negano il conseguimento di vantaggi fiscali attraverso strumenti giuridici utilizzati al solo scopo di risparmiare imposte, in assenza di ragioni economicamente apprezzabili.

Nel merito della controversia, le SS.UU. aderiscono all’indirizzo di recente affermatosi nella giurisprudenza della Sezione tributaria (si veda, da ultimo, Cass. nn. 10257/2008;25374/2008),

“fondato sul riconoscimento dell’esistenza di un generale principio antielusivo” e fa leva sui principi di capacità contributiva (art. 53, co. 1, Cost.) e di progressività dell’imposizione (art. 53, co. 2, Cost.), che costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme finalizzate alla più piena attuazione di quei principi.

Con la conseguenza che “non può non ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”.

 

Né tale principio può ritenersi in contrasto con la riserva di legge in materia tributaria di cui all’art. 23 Cost., in quanto il riconoscimento di un generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario non si traduce nella imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali.

 

10 luglio 2012

Roberta De Marchi