Le presunzioni bancarie vanno smentite dal contribuente

indagini basate sui movimenti bancari del contribuente: quali prove contrarie deve fornire il contribuente per smontare l’accertamento?

Con sentenza n. 4688 del 23 marzo 2012 (ud. 14 marzo 2012) la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità di un atto di accertamento, fondato solo sulla base delle movimentazioni bancarie.

 

La sentenza

Per la Suprema Corte, “le presunzioni fondate sulle movimentazioni bancarie legittimano l’Ufficio a considerare come ricavi i versamenti e i prelevamenti dei quali il contribuente non riesca a dare giustificazione: per poter accertare la natura di costi degli addebiti; in particolare, al fine della loro deducibilità, è necessario che il contribuente fornisca prova contraria alla rilevanza fiscale delle movimentazioni bancarie (Cass, 17/6/2008, n. 16341)”.

La presunzione legale relativa posta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, costituisce, quindi, una eccezione al principio del libero apprezzamento delle prove da parte del giudice ed alla regola dell’onere della prova”.

Per la Corte, “la motivazione dei giudici d’appello è esente da censura, in ordine ad entrambi i vizi denunciati, avendo fatto corretta applicazione, con un’adeguata motivazione, dei principi in tema di presunzione ricavatale dalla movimentazione bancaria in quanto ogni accredito nel conto corrente bancario equivale a ricavo che aumenta il reddito, in mancanza di prova contraria. Anche i costi relativi ad acquisti non documentati devono considerarsi ricavo operando la presunzione di operazioni non fatturate e, nel caso di specie, in base alla motivazione della sentenza impugnata, non specificamente contestata sul punto, la ricorrente non è stato in grado di produrre fatture emesse o ricevute riconducibili alle operazioni bancarie indicate”.

 

Brevi note

La sentenza che si annota si inserisce in quel filone giurisprudenziale – maggioritario e uniforme – secondo cui, in materia di indagini finanziarie, l’onere della prova incombe sul contribuente.

Anche di recente la Suprema Corte aveva avuto modo di ribadire la sua posizione. Con ordinanza n. 28160 del 21 dicembre 2011 (ud 23 novembre 2011) della Corte di Cassazione ha, infatti, confermato che In tema di accertamento dell’IVA, la presunzione, stabilita dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, n. 2, secondo la quale i singoli dati ed elementi risultanti dai conti bancari sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dal successivo art. 54, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili, ha un contenuto complesso, consentendo di riferire i movimenti bancari all’attività svolta in regime IVA, eventualmente dalla persona fisica, e di qualificare gli accrediti come ricavi e gli addebiti come corrispettivi degli acquisti; essa può essere vinta dal contribuente che offra la prova liberatoria che dei movimenti egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che questi non si riferiscono ad operazioni imponibili (Cass. n. 3929/2002)”.

Il dettato normativo appare eloquente: procedimentalizzare la maggior capacità di spesa non giustificata dal contribuente, e correlare tale maggior capacità di spesa con le ulteriori operazioni attive effettuate presuntivamente “in nero“.

La stessa Suprema Corte, con la sentenza n. 16650 del 29 luglio 2011 (ud. del 15 aprile 2011) aveva confermato il principio secondo cui le risultanze delle indagini finanziarie sono presunzioni legali relative, accordando, comunque, al contribuente di provare l’opposto, in maniera dettagliata e circostanziata. “In virtù della presunzione stabilita dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, – che, data la fonte legale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c., per le presunzioni semplici – sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari del contribuente vanno imputati a ricavi conseguiti dal medesimo nella propria attività d’impresa, se questo non dimostra di averne tenuto conto nella determinazione della base imponibile oppure che sono estranei alla produzione del reddito (v. tra le altre Cass. nn. 9103/2001, 15447/2001)”. Tale presunzione legale è superabile attraverso una valida prova contraria fornita dal contribuente e detta prova va “valutata dal giudice in rapporto agli elementi risultanti dai suddetti conti, per verificare, attraverso i riscontri possibili (date, importi, tipo di operazione, soggetti coinvolti), se ed eventualmente a quali movimenti la documentazione fornita dal contribuente si riferisca, così da escludere dal calcolo dell’imponibile esclusivamente quanto risultante dai singoli movimenti bancari ritenuti riferibili alla produzione documentale del contribuente”. Proseguono i giudici: “ne consegue che non può ritenersi attendibile valutazione di una eventuale prova contraria offerta dal contribuente il fatto che nella sentenza impugnata si faccia un generico riferimento – privo del benché minimo accenno ad un qualsivoglia riscontro effettuato in rapporto ai dati emergenti dai conti correnti – alla produzione di distinte relative a somme ricevute per il versamento di imposte per conto di clienti, a incassi per polizze assicurative o al recupero di crediti extraprofessionali”.

La Corte di Cassazione, quindi, come peraltro rilevato dalla sentenza ultima che si annota, giunge alla medesima conclusione: i movimenti bancari vanno giustificati dal contribuente e viene meno il principio del libero apprezzamento delle prove da parte del giudice. Non ci sono spazi di manovra per i giudici.

In presenza di accertamenti bancari, costituisce onere del contribuente dimostrare che i proventi “desumibili dalla movimentazione bancaria non debbono essere recuperati a tassazione“, o perchè egli ne ha già “tenuto conto nelle dichiarazioni“, o perchè (Cass. nn. 9573/2007 e 1739/2007) “non sono fiscalmente rilevanti” in quanto “non si riferiscono ad operazioni imponibili“.

Diversamente vanno legittimamente tassati.

 

18 aprile 2012

Francesco Buetto