La malattia esonera dagli studi di settore

la questione dello stato di salute del contribuente soggetto ad accertamento basato sugli studi di settore è molto discussa: ecco gli ultimi orientamenti al riguardo

Con Ordinanza n. 29185 del 28 dicembre 2011 (ud. 7 dicembre 2011) la Corte di Cassazione è stata chiamata in causa ancora una volta in materia di studi di settore.

 

Il processo

La controversia promossa da M. di F.M. e P. Snc contro l’Agenzia delle Entrate è stata oggetto di decisione di secondo grado, che ha rigettato l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate contro la sentenza della CTP di Frosinone n. 74/4/2005 che aveva accolto il ricorso della società contribuente avverso l’avviso di rettifica Iva 1996.

La CTR rilevava che il contribuente, invitato al contraddittorio “aveva dimostrato che trattavasi di attività iniziata da poco e che il socio F.M. per questioni di salute non aveva potuto offrire la propria collaborazione e che quindi la redditività non ha raggiunto i parametri prefissati … in presenza di tali circostanze spettava all’Ufficio di motivare adeguatamente sulla inattendibilità delle suddette controdeduzioni“.

 

La decisione della Suprema Corte

Innanzitutto la Corte riafferma e conferma “il principio (cfr, SS.UU. n. 26635 del 18/12/2009) secondo cui la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nei periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito”.

Nel caso di specie, secondo i giudici supremi, tali principi risultano osservati dalla decisione impugnata laddove, “a fronte della dimostrazione da parte del contribuente che trattavasi di attività iniziata da poco e che il socio F.M. per questioni di salute non aveva potuto offrire la propria collaborazione e che quindi la redditività non ha raggiunto i parametri prefissati…, ha affermato l’obbligo dell’Ufficio di motivare adeguatamente sulla inattendibilità delle suddette controdeduzioni“.

 

Brevi riflessioni

L’atto di accertamento fondato sugli studi di settore è legittimo se il contribuente non fornisce e documenta debitamente la prova contraria.

In pratica, il dato di partenza è la legittimità dello strumento, che può essere modificato solo se il contribuente dimostra di non essere in una situazione di normalità.

Per certi versi, gli ultimi orientamenti giurisprudenziali si avvicinano molto al pensiero della circolare n. 5/E del 23 gennaio 2008, con la quale l’Agenzia delle Entrate ha fornito una serie di indicazioni, in ordine alle modalità di utilizzo dello studio di settore, in fase di accertamento, utilizzabili anche per i parametri.

Già la stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22555 del 5 novembre 2010 (ud. del 15 giugno 2010), nel confermare il principio espresso a SS.UU. – sentenze n. 26635, 26636,26637,26638 del 10 dicembre 2009 (ud. del 1° dicembre 2009)-, secondo cui la procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sè considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, col contribuente (che può tuttavia, restare inerte assumendo le conseguenze, sul piano della valutazione, di questo suo atteggiamento), esito che, essendo alla fine di un percorso di adeguamento dell’elaborazione statistica degli standard alla concreta realtà economica del contribuente, deve far parte (e condiziona la congruità) della motivazione dell’accertamento, nella quale vanno esposte le ragioni per le quali i rilievi del destinatario dell’attività accertativa siano state disattese, ha affermato che la malattia vada debitamente provata da parte del contribuente. La Corte rileva che “l’omissione denunziata nell’ottavo motivo è priva di consistenza essendosi il ricorrente limitato a lamentarla senza però esprimere le ragioni per le quali i fatti da lui addotti (“concordanza tra importi dichiarati ed estratto conto bancario”; “beneficiare di pensione”; “nessuno da mantenere”; “supporto familiare”), ipoteticamente non valutati, dovrebbero dimostrare che egli non avrebbe sviluppato “la propria attività in maniera economicamente significativa”: gli ultimi tre di detti elementi, infatti, per la loro qualità, sono privi di qualsiasi significatività, univocamente oggettiva nel senso voluto dal contribuente perchè non necessariamente (nè ordinariamente) il professionista che benefici di pensione, che non abbia nessuno da mantenere e che, per giunta, goda di un supporto familiare (peraltro limitato, nel caso, al vivere in casa) svolge e/o deve svolgere un’attività professionale ridotta rispetto al collega che viva solo degli onorari professionali, abbia familiari da “mantenere” e provveda in proprio anche alle spese di alloggio; la concordanza invocata, poi, dimostra, al massimo, la formale coincidenza della dichiarazione fiscale con i conti bancari: nessuno dei fatti addotti (e, tanto, a prescindere dalla sussistenza della prova della loro effettività) prova la concreta ricorrenza di circostanze peculiari, esterne od interne, influenti negativamente sul regolare svolgimento di qualsivoglia attività professionale, d’ordinario naturalmente volta alla produzione di utili economici”. Per i giudici supremi, l’affermazione della CTR secondo cui “non vi è prova alcuna della effettiva incidenza della patologia indicata” (ipotiroidismo) “sulla attività lavorativa … esercitabile in costanza di malattia“, ancora, è sterilmente contrastata (ultimo motivo di ricorso) col mero richiamo al “contenuto del certificato medico” perchè la sola asserzione “riduce notevolmente la capacità lavorativa“, contenuta nello stesso, “non evidenzia nessun difetto logico sui giudizio di inidoneità probatoria di quel certificato espresso dal giudice di appello – cui è istituzionalmente demandato l’afferente accertamento – essendo detta asserzione priva di qualsiasi riferimento a concreti parametri medico-legali o di un qualche diverso elemento di riscontro concreto da parte dello stesso certificante, specie quanto all’avverbio (peraltro del tutto generico perché non contiene alcun riferimento percentuale) notevolmente“.

Alle medesime conclusioni era giunta la Corte con la sentenza n. 19754 del 17 settembre 2010 (ud. del 7 giugno 2010), dove aveva affermato che laddove, comunque, il contribuente intenda far valere, a causa giustificativa, la presenza di una malattia – atta ad incidere sull’attività lavorativa – questa deve essere provata. I giudici della Corte, preliminarmente, avevano osservato che la sentenza “non è conforme ad alcuni principi affermati dalle Sezioni unite di questa Corte nella sentenza n. 26635 del 2009, secondo i quali, per quanto qui rileva, nella procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri, l’esito del contraddittorio endoprocedimentale non condiziona la successiva fase contenziosa, nella quale il contribuente non è vincolato alle eccezioni in quella sede sollevate e dispone della più ampia facoltà di prova, incluso il ricorso a presunzioni semplici”. Preso atto che nella specie è pacifico che “l’invito al contraddittorio endoprocedimentale vi è stato (anche se non ha portato ad esito positivo), ciò che rileva è che il giudice a quo, contrariamente a quanto lamenta il ricorrente, non ha deciso in base all’applicazione automatica dei parametri, perchè, sia pure in modo sintetico, ha valutato le prove fornite (anche in sede contenziosa) dal contribuente in ordine alla sua situazione concreta, ritenendo, da un lato, che la documentazione prodotta fosse “parziale e insufficiente”, e rilevando, dall’altro, la mancanza della prova relativa alla prognosi dell’intervento chirurgico”. Quest’ultima circostanza, ad avviso del Collegio, “riveste importanza decisiva, essendo evidente che, ai fini di stabilire l’incidenza di un tale evento sulla capacità produttiva di reddito, non rileva il fatto in sè, ma la durata della (eventuale) derivatane inabilità allo svolgimento della normale attività lavorativa”.

Per dimostrare che il contribuente non rientra nello standard previsto occorre provare l’incidenza della malattia sulla produzione dei ricavi, cioè il nesso relazionale.

Non basta dire: ho subito una malattia che riduce notevolmente la capacità lavorativa. Occorre provare la prognosi.

Fermo restando che un ruolo decisivo lo riveste la presenza o meno di personale. Infatti, in assenza di personale, la malattia ha un certo peso; diversamente, in una impresa con personale, l’assenza del titolare ha sicuramente un minor peso.

Ma quello che emerge dalle precedenti pronunce della Corte è che deve essere il contribuente a giustificarsi, con prove certe.

Nel caso della sentenza che si annota, dagli atti in nostro possesso, non si evince se comunque lo stato di malattia sia stato provato, pur se la sentenza della CTR si esprime nel senso della dimostrazione da parte del contribuente, e quindi, è da ritenere anche con un certificato medico.

 

25 gennaio 2012

Roberta De Marchi