Il raddoppio dei termini per l’accertamento in presenza di violazioni penali

Torniamo sulla discussa sentenza della Corte Costituzionale che ha legittimato il raddoppio dei termini di accertamento in caso di reati tributari: analisi del rapporto delle motivazione di tale sentenza con lo Statuto del Contribuente e del problema dell’archiviazione dei documenti contabili.

Il raddoppio dei termini per l’accertamento in caso di reati tributari: aspetti generali

reato tributarioIn presenza di violazioni comportanti l’obbligo di denuncia per reati tributari, il legislatore ha disposto il raddoppio degli ordinari termini decadenziali per l’accertamento.

In attuazione della normativa di riferimento, più avanti ripresa e commentata, se in ambito penale emergono elementi da trasfondere nell’accertamento tributario, viene evitata la decadenza del potere accertativo a causa del protrarsi dell’istruttoria e del giudizio penali.

La questione, alla quale si ricollegano non poche problematiche interpretative e applicative, è stata oggetto di chiarimenti ufficiali da parte dell’amministrazione – soprattutto nella circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 54/E del 23.12.2009 –, nonché di una importante pronuncia da parte della Corte Costituzionale, alla luce della quale deve intendersi che l’ampliamento dei termini per l’accertamento viene a operare sempre, anche per le annualità che ordinariamente sarebbero già «chiuse» a tali fini, ma che vengono a «rivivere» se ricorre la violazione perseguibile penalmente.

 

 

I termini ordinari per l’accertamento e gli effetti del «raddoppio»

In generale, gli avvisi di accertamento ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP, e gli avvisi di rettifica ai fini dell’IVA, devono essere effettuati entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione (cfr., per le imposte sui redditi, l’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973, come modificato dal D.Lgs. 9.7.1997 n. 241, e per l’IVA l’art. 57 del D.P.R. n. 633/1972).

Nei casi di omessa presentazione della dichiarazione o di presentazione di dichiarazione nulla (ai fini IRES-IRPEF/IRAP/IVA), l’avviso di accertamento può essere invece notificato fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata.

Fino alla scadenza di tali termini le rettifiche e gli accertamenti possono essere integrati o modificati, mediante la notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi.

 

Per effetto delle disposizioni che consentono il raddoppio dei termini – terzo comma del predetto art. 43 del D.P.R. n. 600/1973 e terzo comma dell’art. 57 del D.P.R. n. 633/1972 -, l’amministrazione può notificare gli avvisi di accertamento:

  • in caso di dichiarazione infedele, entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione;

  • in caso di omessa presentazione o di presentazione di dichiarazione nulla, fino al 31 dicembre del decimo anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata.

L’ampliamento dei termini vale solamente per il periodo d’imposta in cui è stata commessa la violazione penale, mentre non si estende ad altri periodi d’imposta, per i quali continuano ad applicarsi gli ordinari termini per l’accertamento.

 

Alcune precisazioni e criticità

In relazione alla normativa sopra brevemente richiamata, può essere evidenziato che:

  • anche in presenza di comportamenti plurimi, alcuni concretanti violazioni penaltributarie, e altri no, il raddoppio dei termini opera ugualmente per l’intera annualità, cioè per le attività generali di accertamento/rettifica, a prescindere dall’entità della violazione penale;

  • il raddoppio dei termini incide anche sull’ulteriore azione accertatrice, cioè per gli eventuali accertamenti integrativi ex art. 43 DPR n. 600/73;

  • il raddoppio dei termini opera a seguito della semplice constatazione, cioè della notizia di reato trasmessa all’A.G., la quale – come è noto – non «fa sorgere» il reato, ma semplicemente sottopone la notizia alla Procura;

  • in caso di successivo proscioglimento del contribuente, l’eventuale atto di accertamento notificato, che ha usufruito del raddoppio dei termini, non può essere considerato inefficace.

 

Gli indirizzi dell’Agenzia delle Entrate

La circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 54/E del 23.12.2009 ha focalizzato le problematiche interpretative riguardanti, per l’appunto, i casi in cui:

  • le indagini penali si concludano con un decreto di archiviazione;

  • in presenza di un rinvio a giudizio, il processo si concluda con una sentenza di proscioglimento (non luogo a procedere, non doversi procedere o assoluzione).

La pronuncia di prassi conferma che, in base alla testuale formulazione della norma (e tenendo conto dell’art. 12 delle «preleggi»), l’ampliamento dei termini opera «… a prescindere dalle successive vicende del giudizio penale che consegua alla denuncia».

Inoltre, «anche utilizzando il diverso – e sussidiario – criterio interpretativo della mens legis, ossia della finalità della disposizione, si giunge alle medesime determinazioni, non sembrando ragionevole ipotizzare che il legislatore abbia voluto subordinare l’efficacia del procedimento tributario di accertamento – e delle risultanze istruttorie ivi raccolte – al verificarsi di una fattispecie successiva ed eventuale, quale la pronuncia di condanna penale del contribuente».

A ciò può aggiungersi la considerazione che il raddoppio del termine decadenziale non rappresenta un’ulteriore sanzione (oltre a quelle specificamente previste dalle norme sanzionatorie penali e amministrative), bensì (come illustrato dalla prassi e sopra rammentato) una garanzia di utilizzabilità (per il Fisco) degli elementi emergenti in seno all’istruttoria e al procedimento penale.

A tale riguardo l’Agenzia valorizza il principio del «doppio binario», ossia della separazione netta tra il procedimento amministrativo di accertamento e il procedimento penale (ex art. 20, D.Lgs. n. 74/2000).

 

L’estensione del raddoppio del termine ai soggetti «collegati»

In particolare, secondo l’Agenzia, il raddoppio dei termini (e la sua permanenza anche in caso di successive vicende processuali favorevoli al contribuente/imputato) risulta utile «… in relazione alle fattispecie in cui, per l’accertamento tributario nei confronti del soggetto verso cui opera l’ampliamento dei termini, sia necessario procedere all’accertamento anche nei confronti di altro soggetto d’imposta legato al primo, ad esempio, da un rapporto di responsabilità solidale, limitatamente agli aspetti tributari che assumono rilevanza per la determinazione della posizione fiscale del primo e limitatamente al periodo di imposta cui si riferisce la violazione che assume rilevanza penale».

A titolo esemplificativo, l’Agenzia indica i rapporti tra società consolidante e consolidata nell’ambito del consolidato fiscale, relativamente ai quali ritiene che «… la proroga dei termini in capo alla consolidata comporti l’estensione della medesima anche nei confronti della consolidante».

Pur non verificandosi nel caso del responsabile solidale il presupposto richiesto dalla norma del 2006 (ossia la violazione penalmente rilevante), la responsabilità solidale opera con effetto estensivo, ampliandone l’ambito soggettivo di applicazione.

Analogamente, tale vis estensiva opera – secondo la circolare – per le società legate da rapporti di controllo che abbiano aderito alla procedura di liquidazione IVA di gruppo, e per le società trasparenti per opzione a norma dell’art. 115 del TUIR.

«A tale ultimo riguardo, la proroga in argomento si applica agli aspetti tributari che assumono rilevanza per la determinazione della posizione fiscale della società partecipata, limitatamente ai redditi di partecipazione imputati a ciascun socio».

 

 

I principi affermati dalla Corte Costituzionale in relazione alla questione a essa sottoposta

La Consulta è intervenuta in materia con la sentenza n. 247 del 25.7.2011, la quale ha sostanzialmente chiarito che il raddoppio dei termini conseguente alla presenza di violazioni penali deve ritenersi legittimo anche se gli elementi integranti il fumus di reato emergono in un momento in cui gli ordinari termini per l’accertamento sono già decaduti.

Le statuizioni della Corte incidono direttamente sulla questione dei termini di conservazione delle scritture contabili, legati – ex art. 22 del D.P.R. n. 600/1973 – ai termini decadenziali per l’esercizio del potere di accertamento.

La questione era stata sollevata dalla CTP di Napoli, con riferimento alle sopra richiamate disposizioni normative che, in ambito IVA e nel settore delle imposte sui redditi, hanno disposto il raddoppio dei termini, per effetto delle integrazioni apportate dal D.L. 4.7.2006, n. 223, convertito con modificazioni dalla L. 4.8.2006, n. 248, in vigore dal 4.7.2006.

In particolare, nella fattispecie che era oggetto del contenzioso, una società aveva richiesto la definizione automatica dell’IVA «per gli anni pregressi» 2001 e 2002, ai sensi dell’art. 9 della L. 27.12.2002, n. 289; tale istanza era stata respinta dall’Agenzia delle Entrate, giacché la dichiarazione di condono non era comprensiva di tutti i periodi di imposta ancora accertabili, come richiesto dalla legge. La stessa CTP di Napoli aveva quindi accolto l’impugnazione della società avverso il «diniego di condono».

In seguito, nel 2008, l’Agenzia delle Entrate aveva proceduto all’accertamento dell’IVA dovuta dalla società, rispettivamente, per gli anni 2002 e 2003, basandosi su una verifica svolta dalla G.d.F. (delegata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Nola), la quale aveva ritenuto sussistere alcuni reati previsti dal D.Lgs. n. 74/2000 (operazioni passive fittizie per fruire di un credito tributario ritenuto inesistente).

La società aveva impugnato gli avvisi di rettifica, affermando sia che il perfezionamento del condono aveva precluso la possibilità di effettuare gli accertamenti contestati, sia che la riapertura dei termini dell’accertamento non avrebbe dovuto operare con riferimento ad annualità ormai «chiuse» («cristallizzate»): proprio in relazione a tale aspetto, era affermato il possibile contrasto con la Costituzione – artt. 3, 24 e 25 – che la CTP ha ritenuto di rimettere alla Corte Costituzionale.

Era altresì affermato il contrasto della normativa in rassegna con l’art. 3, ultimo comma, della L. 27.7.2000, n. 212 (Statuto del contribuente), in quanto applicativo degli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost.

 

 

Il problema dell’«irragionevole proroga» dei termini già scaduti

In primo luogo, è stato rimesso alla Corte il problema relativo alla legittimità costituzionale di un disposto normativo che avrebbe prorogato i termini decadenziali per l’esercizio dell’attività di accertamento, in apparente contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nonché con l’art. 3, c. 3, dello Statuto del contribuente.

In via preliminare, la Consulta ha precisato che le disposizioni dello Statuto, non avendo rango costituzionale, «non costituiscono, neppure come norme interposte, parametro idoneo a fondare il giudizio di legittimità costituzionale di leggi statale», ritenendo conseguentemente inammissibile tale questione.

Inoltre, è stato inequivocabilmente affermato che in realtà la normativa censurata non proroga, né riapre, termini decadenziali ormai scaduti.

I termini raddoppiati infatti, secondo la Corte, «sono anch’essi termini fissati direttamente dalla legge, operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva (allorché, cioè, sussista l’obbligo di denuncia penale per i reati tributari previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000), senza che all’amministrazione finanziaria sia riservato alcun margine di discrezionalità per la loro applicazione».

Insomma, gli uffici non hanno il potere di far «rivivere» i «poteri di accertamento ormai esauriti», giacché «i termini “brevi” e quelli raddoppiati si riferiscono a fattispecie ab origine diverse, che non interferiscono tra loro ed alle quali si connettono diversi termini di accertamento».

 

La questione della conservazione dei documenti contabili

Un ulteriore profilo di apparente contrasto con norme costituzionali – in particolare con l’art. 24 Cost. – era sottoposto alla Corte sotto i due profili della soggezione del contribuente a un tempo per l’accertamento eccedente l’arco temporale di conservazione delle scritture contabili, e dell’asseritamente «indeterminata soggezione del contribuente all’azione esecutiva del fisco», apparentemente confliggente con il diritto alla difesa del contribuente stesso.

Ambedue i rilievi sono stati ritenuti infondati, giacché:

  • l’obbligo di conservazione delle scritture contabili non sussiste solamente fino alla scadenza del termine breve per l’accertamento, bensì per tutta la durata rispettivamente consentita dal terzo comma dell’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973 e dal terzo comma dell’art. 57 del decreto IVA;

  • il termine «raddoppiato» concesso agli uffici in presenza di violazioni penali non deve ritenersi né indeterminato né irragionevolmente ampio, dato che: a) esso è determinato in modo in equivoco dalla normativa; b) esso è di poco superiore al termine di prescrizione dei reati tributari (sei anni), «e la sua entità è adeguata a soddisfare la ratio legis di dotare l’amministrazione finanziaria di un maggior lasso di tempo per acquisire e valutare dati utili a contrastare illeciti tributari, i quali, avendo rilevanza penale, sono stati non ingiustificatamente ritenuti dal legislatore particolarmente gravi e, di norma, di complesso accertamento».

Come risulta dalla logica delle affermazioni della Corte, il termine raddoppiato si rivela quindi particolarmente funzionale a consentire l’esercizio delle attività di rettifica ai fini amministrativi tributari nelle more del procedimento penale avente a oggetto reati tributari.

Quanto all’asserita arbitrarietà del potere dell’amministrazione di «dilatare» i termini per l’accertamento, secondo quanto è affermato dalla Consulta «il raddoppio non consegue da una valutazione discrezionale e meramente soggettiva degli uffici tributari, ma opera soltanto nel caso in cui siano obiettivamente riscontrabili, da parte di un pubblico ufficiale, gli elementi richiesti dall’art. 331 c.p.p. per l’insorgenza dell’obbligo di denuncia penale».

Tale obbligo, secondo la «costante giurisprudenza della Corte di cassazione», «sussiste quando il pubblico ufficiale sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi del reato da denunciare (escluse le cause di estinzione o di non punibilità, che possono essere valutate solo dall’autorità giudiziaria), non essendo sufficiente il generico sospetto di una eventuale attività illecita».

Inoltre il pubblico ufficiale, che acquisisca la notitia criminis nell’esercizio o a causa delle sue funzioni, non può liberamente valutare se e quando presentare la denuncia, ma deve inoltrarla prontamente, pena la commissione del reato previsto e punito dall’art. 361 c.p. per il caso di omissione o ritardo nella denuncia (omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale).

Inoltre, la sussistenza del reato viene sottoposta al controllo delle giurisdizioni tributarie (c.d. «prognosi postuma»), nell’ambito del quale è verificata la ricorrenza del reato stesso, «accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento».

 

Discipline differenti per la notifica dell’accertamento?

È stata altresì dichiarata inammissibile dalla Consulta la questione relativa alle «irragionevoli elementi di disparità di trattamento» denunciate, affermando che «la censurata disparità di trattamento non sussiste, perché la ricorrenza di elementi tali da obbligare alla denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p. costituisce una situazione eterogenea rispetto a quella in cui tali elementi non ricorrono».

«È innegabile, infatti, che la non arbitraria ipotizzabilità di specifici reati tributari, espressivi di un particolare disvalore, giustifica la previsione di una disciplina differenziata, proprio in ragione della gravità dei fatti e della maggiore difficoltà che, di norma, richiede il loro accertamento».

 

 

Il raddoppio dei termini non ha natura sanzionatoria

Secondo il giudice rimettente, occorreva altresì verificare il carattere retroattivo – asseritamente contrastante con l’art. 25, Cost. – della «sanzione impropria» costituita dal raddoppio dei termini per l’accertamento dell’imposta.

Secondo la Corte, «la questione non è fondata, perché la disciplina del raddoppio dei termini non ha natura sanzionatoria. Non è perciò invocabile, nella specie, il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole (…)».

«In particolare, il raddoppio dei termini di accertamento non può qualificarsi “sanzione penale”, neppure impropria o atipica».

Da un lato, infatti, esso non rappresenta la reazione ad un illecito penale, dato che consegue non dall’accertamento della commissione di un reato, ma solamente dall’insorgere dell’obbligo di denuncia per reati tributari, «restando irrilevante il fatto che l’azione penale non sia iniziata o non sia proseguita o intervenga una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna».

Inoltre esso «non costituisce una conseguenza sfavorevole sul piano sostanziale, perché non comporta né un obbligo di prestazione né l’emissione di un atto di accertamento».

 

 

Rinvio all’abbassamento delle soglie a seguito della manovra di ferragosto

Occorre evidenziare pur in via incidentale che, per effetto di un emendamento governativo approvato in sede di conversione del D.L. n. 138 del 13.8.2011 (c.d. «manovra di ferragosto»), sono state ridotte le soglie quantitative – in termini di imposta evasa – previste per alcuni reati tributari.

L’abbassamento delle soglie di punibilità penale comporterà chiaramente un incremento delle ipotesi di raddoppio dei termini, sicché molte violazioni, prima sanzionate solo in via amministrativa, potranno godere del raddoppio, in presenza del semplice riscontro della violazione punibile a norma del D.Lgs. n. 74/2000.

 

2 novembre 2011

Fabio Carrirolo