Il ricarico al ribasso è antieconomico

in una logica infragruppo, percentuali di ricarico troppo basse sono indizio della volontà di traslare ricavi e costi artatamente fra le varie società del gruppo

Con sentenza n. 16642 del 29 luglio 2011 (ud. del 9 marzo 2011) la Corte di Cassazione ha ritenuto che il comportamento manifestamente contrario agli ordinari canoni dell’economia e dell’attività dell’impresa legittima l’Amministrazione finanziaria all’accertamento analitico induttivo – anche attraverso gli elementi desunti dalle percentuali di ricarico – incombendo al giudice di merito – che disattende i rilievi dell’ufficio impositore – motivare adeguatamente in ordine all’assenza di violazioni di norme tributarie.

 

La rettifica

La rettifica operata dall’ufficio deriva dal maggior reddito imponibile accertato attraverso la rilevazione di un’ingiustificata drastica riduzione della percentuale di ricarico sui costi dei beni prodotti, dall’89,34% dell’anno precedente al 27,49% risultante per l’anno in contestazione, frutto di accordi di gruppo tra società controllata e società controllante, volti a conseguire vantaggi fiscali, con applicazione di una percentuale di ricarico (75%) comunque inferiore rispetto a quella dichiarata dalla società negli ultimi anni.

 

La sentenza

Preliminarmente, i massimi giudici, ribadiscono che, come reiteratamente affermato da condivisa giurisprudenza di legittimità, “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, anche in presenza di una contabilità formalmente regolare, i ricavi possono essere ritenuti falsi in base alla loro sproporzione per difetto rispetto ai costi, ed in tale contesto è ammissibile un accertamento analitico – induttivo, il quale tenga conto delle poste passive indicate dal contribuente, per ricostruire i ricavi effettivi; trattasi, in tal caso, non già di accertamento induttivo “tout court”, ma di accertamento analitico – induttivo, che è sempre legittimo quando l’esposizione dei ricavi sia talmente ridotta rispetto ai costi da indurre a ritenere antieconomica la gestione (in termini, ex plurimis, v. Cass. 31.10.2005, n. 21165)”.

In tal caso “in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo, è legittimo l’accertamento su base presuntiva ed il giudice di merito, per poter annullare l’accertamento, deve specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie” (v. Cass. 8.7.2005, n. 14428; cfr. 16.1.2009, n. 951; 26.11.2007, n. 24532; 5.10.2007, n. 20857; 18.5.2007, n. 11559).

Nel caso di specie l’antieconomicità della gestione aziendale risulta presunta dall’Ufficio dalla riduzione dei ricavi della società conseguente all’applicazione di una percentuale di ricarico ridotta dall’89,34% del 1993 (in linea con i risultati degli anni precedenti), al 34,96%, come nella più favorevole delle ipotesi calcolato dall’Ufficio per il 1994.

In presenza di tale situazione il giudice del gravame ha ritenuto di confermare l’illegittimità dell’accertamento sulla base di un’apparentemente articolata motivazione, “che però non soddisfa l’unica fondamentale esigenza di comprendere se la condotta della società non sia in realtà da ritenersi posta in essere in violazione delle disposizioni tributarie sulla determinazione del reddito d’impresa, e più propriamente orientata ad occultare redditi della B. dirottandoli sulla controllante C., onde sottrarli a tassazione e conseguente versamento di ulteriori imposte”.

In particolare:

  • la spiegazione della causa che ha determinato l’aumento dei costi della società nel 1994, rispetto agli anni precedenti, risulta esposta in maniera alquanto criptica. Si afferma infatti che: “… nel 1994 … la C. ha ritenuto più conveniente, per ragioni di mercato, che i materiali e gli accessori forniti dalla B. s.r.l. contrariamente a quanto avvenuto negli anni precedenti, fossero acquistati da terzi, che hanno praticato prezzi più convenienti rispetto a quelli di propria produzione“; mentre, all’opposto, sembra pacifico che quegli accessori, in passato acquistati dalla C. presso terzi, nel 1994 fossero stati richiesti alla B. unitamente ai manufatti forniti per l’installazione, onde anche il dubbio che il riferimento del giudice, non sufficientemente esplicitato, possa essere alle rimanenze di fine esercizio, conseguenti alla ulteriore scelta della C. di ritornare a fornirsi degli accessori presso terzi;

  • l’affermazione secondo la quale all’aumento dei costi per la B., per l’acquisizione anche degli accessori richiesti dalla C., non abbiano fatto riscontro corrispondenti aumenti dei ricavi della società fornitrice, per la scelta strategica attuata di fornire quegli accessori al prezzo di costo per un verso è irragionevole e per altro verso è insufficiente: “irragionevole perchè ponendo la CTR in una benevola e non condivisibile prospettiva favorevole ad esaltare la logica di gruppo, dedotta come ispiratrice delle politiche aziendali delle due società, la fa apparire appiattita su una giustificazione che non spiega affatto quale interesse avrebbe potuto spingere ad una simile scelta che avrebbe inevitabilmente danneggiato la B. (non a caso a conclusione dell’esercizio 1994 messa in liquidazione), senza affatto incidere su un costo insopprimibile di produzione, semplicemente fittiziamente spostato dall’uno all’altro soggetto, senza nessuna reale economia: nulla spiega, cioè, perchè quegli accessori, necessari alla C., avrebbero dovuto essere acquistati dalla B. e poi forniti alla società controllante alto stesso prezzo di acquisto, con oggettiva diminuzione del reddito d’impresa della B. e senza nessun complessivo vantaggio economico per le due società appartenenti allo stesso gruppo, in quanto comunque gravate di un costo rimasto immutato per l’acquisizione di quegli accessori. Ma oltre che irragionevole per le ragioni esposte, l’affermazione è insufficiente perchè non idonea comunque a far apparire interamente giustificata una così drastica riduzione dei ricavi della B., avuto anche riguardo a quanto chiarito dall’Ufficio circa il fatto che, pur accedendosi alla tesi della cessione degli accessori alla C. a prezzo di costo (L. 456.807.000), i ricavi complessivi della B. sarebbero risultati pari soltanto ad una percentuale di ricarico dei 34,96%”;

  • analogamente l’assunto secondo il quale la procedura di calcolo seguita dall’Ufficio nel determinare nel 34,69% la percentuale di ricarico nella più favorevole delle ipotesi applicata dalla B., sarebbe “approssimativa“, appare assolutamente apodittica, anche perchè giustificata unicamente dal rinvio alle risultanze delle scritture contabili, per le ragioni già innanzi esposte assolutamente non rilevanti;

  • l’espressione: “La diminuzione della percentuale di ricarico è conseguenza diretta dell’aumento dei costi e della diminuzione dei ricavi“, costituisce la rappresentazione in termini letterali di un’operazione aritmetica, che però nulla dice a fondamento della correttezza dell’operazione medesima, soprattutto con riferimento alla rispondenza agli effettivi flussi economici dell’azienda, i cui redditi avrebbero ovuto essere determinati D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 9, avuto riguardo ai “valore normale” delle prestazioni fornite (v. Cass. 13.10.2006, n. 22023; 24.7.2002, n. 10802);

  • gli ulteriori riferimenti ai prezzi concordati dalle due società, come frutto di condizioni di mercato e non di “una comune strategia aziendale volta a pianificare una più conveniente politica fiscale di gruppo”, con assenza di vantaggio economico per le due società, per un verso ancora una volta e per le ragioni già in precedenza richiamate, non bastano a ricondurre in termini di ragionevolezza e convenienza economica i risultati economici di una gestione che fa risultare le percentuali di ricarico precipitate nella misura indicata, mentre per altro verso risultano palesemente apodittiche e priva di quei riscontri resi indispensabili dalla difesa dell’Ufficio;

  • il richiamo alle perdite registrate dalla B. nel 1994, ed alla sua successiva messa in liquidazione, lungi dal costituire argomento spendibile a sostegno della tesi di una “oggettiva” antieconomicità della gestione della società, appare l’inevitabile e prevedibile conseguenza di una gestione che, come ipotizzato dall’Ufficio, ha preferito dirottare altrove i propri ricavi.

 

Conclusivamente, pertanto, “il giudice del gravame con la sentenza impugnata non solo ha mostrato di non considerare adeguatamente che l’antieconomicità della gestione di una società non può legittimamente dipendere, sotto il profilo fiscale, da politiche di gruppo volte semplicemente a dirottare i ricavi dall’uno all’altro soggetto, senza una valida comprovata giustificazione, ma ha anche del tutto trascurato di fornire spiegazioni sufficienti in ordine al fatto che la sola vendita al prezzo di costo degli accessori alla C. possa esser valsa ad assorbire il divario riscontrato tra le diverse percentuali di ricarico accertate dall’Ufficio con riferimento al 1994 e agli anni immediatamente precedenti”.

 

Brevi considerazioni

In forza dell’art. 39, c. 1, lett. d, del D.P.R. n. 600/1973, “… l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti” (ai fini IVA trova applicazione l’art. 54 del D.P.R. n. 633/1972).

La rettifica analitica, con posta induttiva sui ricavi, di cui all’art. 39, c. 1, lett. d, del D.P.R. n. 600/1973, consente infatti di ricostruire i ricavi, in presenza di presunzioni gravi, precise e concordanti, da rendere inattendibili le risultanze documentali per mancanza delle garanzie inerenti a una contabilità sistematica.

Per giurisprudenza costante della Corte di Cassazione1il procedimento presuntivo consiste nella interpretazione di un fatto certo – in quanto pacificamente riconosciuto o acclarato dal giudice attraverso i mezzi di prova legittimamente acquisiti, o desumibili dalle nozioni di fatto che rientrano nell’ambito della comune esperienza – per risalire ad un fatto ignoto, che costituisce in se stesso oggetto del thema probandum e che viene ritenuto provato in quanto correlato con logica conseguenzialità al primo. Devesi tener presente al riguardo: che gravi sono gli elementi presuntivi oggettivamente e intrinsecamente consistenti e come tali resistenti alle possibili obiezioni, precisi sono quelli dotati di specificità e concretezza e non suscettibili di diversa altrettanto (o più) verosimile interpretazione, e concordanti sono quelli non confliggenti tra loro e non smentiti da altri dati ugualmente certi. In altre parole, la gravità dell’elemento indiziario ne esprime la capacità dimostrativa in funzione del tema della prova, la precisione risponde a una esigenza di univocità, e la concordanza soddisfa la necessità di una valutazione integrata e complessiva di tutti gli elementi che presentino singolarmente una almeno parziale rilevanza probatoria positiva. Peraltro, non si richiede che i fatti su cui la presunzione si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignorato come l’unica conseguenza possibile secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva, essendo sufficiente invece che, alla luce delle regole di esperienza e secondo l’id quod plerumque accidit, il fatto ignoto sia desumibile alla stregua di un canone di probabilità con riferimento a una connessione di accadimenti ragionevolmente verosimile in base a un criterio di normalità2.

Pur legittimo indirizzare il controllo sugli aspetti gestionali, economici e finanziari più significativi e rilevanti ai fini fiscali, resta fermo che “il fisco non può certo interferire nel merito delle scelte imprenditoriali, disconoscendo la deducibilità di costi sostenuti in operazioni che, a posteriori, si sono rilevate un cattivo affare, né sindacare sulla necessarietà o meno di un costo”3.

Comunque, rientra nei poteri dell’amministrazione finanziaria la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti in bilancio e nelle dichiarazioni e la rettifica di quest’ultime, anche se non ricorrono irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio dell’impresa, con negazione della deducibilità, totale o parziale, di un costo ritenuto insussistente o sproporzionato.

Pertanto, in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo, è legittimo l’accertamento del reddito d’impresa ai sensi dell’art. 39, c. 1, lett. d, del D.P.R. 29 settembre 1973, n.600, il quale consente di desumere l’esistenza di ricavi non dichiarati anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti.

 

15 settembre 2011

Francesco Buetto

1 Fra le altre, Cass., Sez.I, Sent. del 28 agosto 1996, n.7931.

2 In senso conforme, Cass.,Sez.I, Sent. del 14 agosto 1992, n.9583; Sez.I, Sent.del 26 novembre 1994, n.10058; Sez.I, Sent. del 3 dicembre 1994, n.10408.

3 LUPI, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Milano, 2001, pag.579.