Verifiche sui componenti pluriennali di reddito: conservazione dei documenti contabili, decadenza del potere di accertamento e divieto di duplicazioni d'imposta

analizziamo i problemi che sorgono in caso di verifica sui cespiti ammortIzzabili od altri componenti pluriennali di reddito, con particolare attenzione alle problematiche relative alla documentazione da reperire ad al coordinamento dell’accertamento fra diversi periodi d’imposta

 

Si sta recentemente riproponendo all’attenzione degli operatori, una casistica che solitamente passa “inosservata”, o, comunque, cui si attribuisce solitamente scarsa attenzione : quella inerente le conseguenze delle verifiche tributarie, qualora queste coinvolgano oneri pluriennali, o cespiti ammortizzabili…. Quanto precede presenta un primo profilo, costituito dall’onere probatorio posto a carico dei contribuenti sottoposti a verifica, e delle connessioni tra quest’ultimo ed i termini decadenziali imposti all’attività di accertamento dell’amministrazione finanziaria dalla normativa vigente.

La problematica presenta inoltre, un secondo rilevante profilo di analisi, inerente l’evenienza, purtroppo non così remota, di incorrere in fenomeni di “doppia imposizione”, generati appunto dal carattere “pluriennale” che caratterizza l’utilità e l’incidenza reddituale di dette componenti patrimoniali.

 

Premessa

I controlli eseguiti dagli uffici dell’amministrazione finanziaria, aventi ad oggetto la corretta contabilizzazione ed imputazione reddituale di componenti pluriennali di reddito, possono generare situazioni di notevole difficoltà per i contribuenti ed i loro consulenti, con particolare riferimento all’obbligo di conservare ed esibire documentazione contabile relativa ad annualità lontane nel tempo.

Altro profilo di analisi, è quello che, sempre prendendo le mosse dalle verifiche eseguite su componenti pluriennali, ne pone in evidenza gli effetti nefasti in capo al contribuente assoggettato a controllo, quando si verifichino casi di duplicazione d’imposta: in tali ipotesi, si rende necessaria la definizione di una “linea” di comportamento concretamente perseguibile per il recupero di quanto indebitamente corrisposto al fisco.

Il presente contributo vuole cercare di fare luce sul tema, prendendo spunto da una recente pronuncia di merito, per effettuare poi una panoramica sul parere dei Giudici di Legittimità, e tracciare possibili soluzioni interpretative suscettibili di concreta fruizione da parte degli operatori.

 

Il primo “profilo” : obbligo di conservazione ed esibizione di documentazione contabile inerente annualità temporalmente “lontane”. Analisi e spunti di riflessione da recente giurisprudenza di merito.

Di notevole interesse, in relazione all’oggetto del presente contributo, è una sentenza emessa dalla C.T.P. di Trento (n. 7/2/11 del 13.01.2011), che ha messo in luce aspetti di assoluto rilievo, con specifico riferimento all’onere della prova in materia tributaria. Secondo i giudici di merito citati, è in capo al contribuente l’onere di documentare esistenza e consistenza di tutte le componenti negative di reddito, “non esclusi i costi afferenti quei beni che, benchè siano stati acquistati molti anni prima, continuino a partecipare al risultato di esercizio attraverso la procedura di ammortamento1”.

Appare tuttavia opportuno esaminare il caso sottoposto ai giudici trentini, ripercorrendo le varie “tappe” della questione, analizzandone i presupposti ed i capisaldi normativi di riferimento, onde poter comprendere come siano pervenuti alla conclusione di cui si è detto poc’anzi…

A seguito dell’avvio di una verifica fiscale nei confronti di un’impresa, i verificatori hanno richiesto al contribuente sottoposto a controllo di esibire ogni valida documentazione, atta ad attestare l’effettivo sostenimento di oneri pluriennali sottoposti ad ammortamento.

La società ha obiettato che non esisteva alcun obbligo di esibizione documentale, con riferimento agli acquisti effettuati oltre dieci anni prima ;

la relativa documentazione fiscale, riferita a periodi anteriori di oltre dieci anni, rispetto alla data della verifica, era stata nel frattempo distrutta, perchè ne erano scaduti i termini di conservazione civilistici e fiscali.

A sostegno della propria tesi, la società richiamava alcune norme, che si ritiene utile riprendere ed esaminare in questa sede, onde verificarne “l’incidenza” sulla fattispecie in esame :

    • l’articolo 2220 codice civile;

    • l’articolo 22 del d.p.r. n. 600/73;

    • l’articolo 8, comma 5, della Legge n. 212/2000.

 

L’articolo 2220 del codice civile : la “conservazione delle scritture contabili”.

La prima delle citate disposizioni, denominata “Conservazione delle scritture contabili”, è norma conclusiva del secondo capo, relativo alle scritture contabili, posto all’interno del libro quinto del vigente codice civile . Essa recita testualmente : “Le scritture devono essere conservate per dieci anni dalla data dell’ultima registrazione. Per lo stesso periodo devono conservarsi le fatture,le lettere, e i telegrammi ricevuti e le copie delle fatture, delle lettere e dei telegrammi spediti.”

In base alla normativa civilistica, pertanto, i documenti amministrativi ed i registri contabili vanno conservati per un periodo decennale, con decorrenza dall’ultima registrazione .

 

L’articolo 22, del d.p.r. n. 600/73: tenuta e conservazione dellescritture contabili

Il secondo comma dell’articolo 22 del decreto sull’accertamento in materia di imposte sui redditi, recita testualmente: “Le scritture contabili obbligatorie ai sensi del presente decreto, di altre leggi tributarie, del codice civile o di leggi speciali, devono essere conservate fino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo d’imposta, anche oltre il termine stabilito dall’ articolo 2220 del codice civile o da altre leggi tributarie…”.

Evidentemente quindi, la norma fiscale in esame “amplia” il periodo temporale a cui va riferito l’obbligo di conservazione documentale in materia contabile ed amministrativa: la misura di tale arco temporale, come è intuibile, potrebbe risultare anche di gran lunga superiore, rispetto al periodo decennale previsto dalla vigente normativa civilistica.

Sarebbe interessante comprendere, non soltanto da un punto di vista meramente interpretativo, ma soprattutto pratico ed operativo, quali siano i “limiti temporali” opponibili ad una tale disposizione!

In tal senso, come vedremo nel prosieguo della presente trattazione, ci vengono in aiuto i giudici di merito trentini, con la recentissima sentenza di cui si è detto in precedenza, che avremo modo di commentare diffusamente .

 

L’articolo 8, comma 5, della Legge n. 212/2000

La legge citata, meglio nota come “Statuto dei diritti del contribuente”, all’articolo 8, comma 5, recita testualmente: “L’obbligo di conservazione di atti e documenti, stabilito a soli effetti tributari, non può eccedere il termine di dieci anni dalla loro emanazione o dalla loro formazione.”

Quest’ultima disposizione parrebbe quindi confermare il disposto civilistico che abbiamo avuto modo di esaminare poc’anzi, ribadendo il limite decennale come quello massimo, oltre il quale nessun obbligo di conservazione può essere imposto al contribuente.

Vediamo tuttavia, proseguendo l’esame del “caso” di nostro interesse, sottoposto ai giudici tributari di Trento, come la società sottoposta a verifica, richiamando a propria tutela la disposizione statutaria appena evidenziata, si appellava altresì a quel filone giurisprudenziale della Suprema Corte, secondo cui i principi espressi dallo Statuto dei diritti del contribuente rappresenterebbero la trasposizione in materia tributaria del dettato costituzionale. Richiamando la sentenza n. 17576 del 10.12.2002 della Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, i principi tipici dello Statuto dei diritti del contribuente, “… debbono ritenersi immanenti nell’ordinamento stesso, già prima dell’entrata in vigore dello Statuto, e, quindi, vincolanti l’interprete, in forza del fondamentale canone ermeneutico dell’interpretazione adeguatrice a Costituzione : cioè, del dovere dell’interprete di preferire , nel dubbio, il significato e la portata della disposizione interpretata conformi a Costituzione”.

Rafforzativa in tal senso appare anche la sentenza n. 7080 del 14.04.2004 della stessa Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, secondo cui “qualsiasi dubbio interpretativo o applicativo sul significato e sulla portata di qualsiasi disposizione tributaria, che attenga ad ambiti materiali disciplinati dalla legge, n° 212 del 2000, deve perciò essere risolto dall’interprete nel senso più conforme ai principi dello Statuto del contribuente, cui la legislazione tributaria, anche antecedente, deve essere adeguata …”.

L’ufficio verificatore, nel corso delle varie fasi che hanno condotto alla formazione dell’atto impositivo, ed al successivo contenzioso, ha sostenuto la bontà del proprio operato, richiamando due principi normativi, ed in particolare:

    • L’articolo 76 del vigente TUIR, che, al primo comma, stabilisce il principio dell’autonomia di ogni periodo d’imposta, affermando che: “L’imposta è dovuta per periodi di imposta, a ciascuno dei quali corrisponde una obbligazione tributaria autonoma…“;

    • L’articolo 109 dello stesso Testo Unico, che sancisce il “principio della certezza e determinabilità” dei componenti di reddito; la disposizione in esame afferma che “I ricavi, le spese, e gli altri componenti positivi e negativi … concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza; tuttavia i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza, o determinabile in modo obiettivo l’ammontare, concorrono a formarlo nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni”.

 

Da un’analisi congiunta delle due norme appena descritte, a parere dei verificatori, si desume che il contribuente è obbligato a giustificare il sostenimento di ogni costo che abbia concorso alla formazione del reddito in un determinato periodo d’imposta : anche laddove si tratti di beni acquisiti molti anni prima, che partecipino al reddito per tramite delle relative quote di ammortamento.

 

La sentenza n. 7/2/11 del 13.01.2011, emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Trento

I giudici di merito di Trento hanno evidenziato come sia ormai assodato, sia in dottrina che in giurisprudenza, che “a fronte della deduzione di costi … ricada sul contribuente l’onere di documentarne la loro effettiva sussistenza e l’ammontare (anche ai fini dell’eventuale valutazione dei requisiti di inerenza e competenza)”. Il suddetto principio, inoltre, non può subire eccezione alcuna, nel caso di beni acquistati oltre dieci anni prima, dei quali però, si sono dedotte le quote di ammortamento di competenza nell’esercizio oggetto di verifica.

La sentenza prosegue quindi, affermando2 che: “… se un costo viene portato in deduzione (anche se in quote di ammortamento), fino a quando su quella deduzione può sorgere contestazione da parte dell’amministrazione … il contribuente è tenuto, nel suo interesse, a conservare la relativa documentazione, senza la quale non potrà provarne l’esistenza e quindi la ragione della deduzione”.

La predetta sentenza di merito, in sostanza, risponde al quesito che ci si era posti in precedenza circa i limiti temporali da “opporre” al disposto di cui al secondo comma dell’articolo 22 del d.p.r. n. 600/73, evidenziato poc’anzi, secondo cui l’obbligo di conservazione è da estendersi oltre il termine decennale individuato dal disposto civilistico di cui all’articolo 2220. La risposta, di grande interesse operativo, è quella secondo cui permane, in capo al contribuente sottoposto a verifica, l’obbligo di conservare la documentazione probatoria dell’acquisto di un cespite, sino a quando non sarà decaduto il potere di accertamento, con riferimento al periodo d’imposta in cui è stata portata in deduzione l’ultima delle quote di ammortamento ad esso inerenti.

Vediamo anche di esaminare la posizione della sentenza nei confronti del disposto di cui all’articolo 8, comma 5, dello Statuto dei diritti del contribuente, il quale, come si ricorderà, statuiva che “l’obbligo di conservazione di atti e documenti, stabilito a soli effetti tributari, non può eccedere il termine di dieci anni dalla loro emanazione o dalla loro formazione”. A tale disposizione infatti, si era appellata la società verificata, generando un “conflitto” motivazionale con il disposto di cui all’articolo 22 del d.p.r. n. 600/73, cui i giudici di merito aditi avrebbero dovuto fornire debita interpretazione nella relativa sentenza . Orbene la sentenza in esame ha concluso con il rigetto di tale eccezione, rilevando come la disposizione statutaria, “… in quanto norma di carattere generale non può prevalere su una norma speciale, quale è l’articolo 22; norma che va comunque interpretata tenendo conto della possibile deduzione frazionata ultra decennale di determinati costi e dell’onere probatorio che, anche in tale ipotesi, rimane a carico di chi vuol far valere il diritto a portarli in deduzione”.

Rileggendo l’articolo 22 del d.p.r. n. 600/73, al comma 2, laddove afferma che “le scritture contabili … devono essere conservate … anche oltre il termine stabilito dall’art. 2220 del codice civile o da altre leggi tributarie”, si può concludere che tra le “altre leggi tributarie” va considerato anche lo Statuto dei diritti del Contribuente (Legge n°212/2000).

 

La posizione della Corte di Cassazione

Un caso similare a quello che è stato oggetto di esame in precedenza, è stato sottoposto alla Suprema Corte, in occasione della sentenza n. 15178 del 23.06.2010 (udienza del 18 febbraio 2010).

La predetta sentenza conferma la correttezza delle conclusioni raggiunte dai giudici di merito di Trento, pur addivenendo a definire un principio generale di più ampia portata. Quanto precede, con particolare riferimento al diritto dell’amministrazione finanziaria di contestare i criteri di redazione del bilancio adottati, anche con riferimento ad un esercizio per cui è decaduto il potere di accertamento ; tutto ciò, tenendo conto delle conseguenze che i predetti criteri sono suscettibili di generare sulla fiscalità di esercizi futuri.

Entrando nel merito della specifica casistica oggetto della sentenza, la Cassazione ha affrontato il tema inerente la possibilità o meno di contestare la deducibilità di costi che trovano origine nell’iscrizione a bilancio in anni precedenti, in relazione ai quali è decorso il termine decadenziale, ordinariamente opponibile all’attività di accertamento.

Ci si riferiva a quote di ammortamento, ed alla ripartizione annuale di spese manutentive patrimonializzate : il tutto riferito a fabbricati industriali in relazione ai quali il fisco aveva rettificato la base di calcolo delle quote citate, ritenendo non corretto il valore fiscalmente rilevante, attribuito ai cespiti in discussione. La società verificata si era opposta, affermando che il valore patrimoniale dei beni era da considerarsi ormai definitivamente stabilito, e non più modificabile, una volta trascorsi i termini decadenziali definiti dall’articolo 43 del d.p.r. n. 600/73.

Alla società, infatti, non era stata mossa alcuna contestazione in merito, con riferimento all’esercizio di iscrizione in contabilità del fabbricato e delle relative spese di manutenzione portate ad incremento dello stesso ; nessuna contestazione, con riferimento al predetto esercizio, è stata mossa per tutto il periodo in cui il predetto periodo d’imposta avrebbe potuto essere soggetto a verifiche, ad opera degli uffici preposti. Perchè, dunque, ammettere una rettifica del genere, dopo che il potere di accertamento su quel particolare esercizio era ormai decaduto, a norma di legge?

I giudici di merito hanno confermato le tesi difensive della contribuente,

mentre l’Ufficio ha contestato tali interpretazioni, con particolare riferimento al disposto di cui al citato articolo 43 del d.p.r. n. 600/73: secondo i verificatori, infatti, era da ritenersi tempestiva la rettifica operata su quote dedotte seguendo criteri di imputazione a bilancio scorretti, anche se posti in essere in annualità ormai non più accertabili…

I giudici di legittimità hanno confermato l’impostazione e le motivazioni addotte dall’Ufficio, affermando che l’accertamento non deve essere riferito all’esercizio di iscrizione delle “poste” patrimoniali oggetto di contestazione, in quanto, “…pur sussistendo l’asserita decadenza dell’Ufficio dalla possibilità di rideterminare valori riferiti a spese per immobili in anni precedenti il quinquennio, è possibile la regolarizzazione dei calcoli delle quote di ammortamento per gli anni successivamente accertati”. Prosegue quindi la sentenza asserendo che “è facoltà dell’Ufficio contestare anche soltanto i criteri utilizzati dal contribuente nella redazione del bilancio, per i loro riflessi fiscali negli esercizi futuri, senza necessariamente procedere, per il periodo considerato, alla determinazione di una maggiore pretesa impositiva, e senza che ciò comporti una preclusione al recupero d’imposta per gli anni successivi.

Conseguentemente viene riconosciuta la fondatezza dell’atto impositivo mediante il quale si recuperavano a tassazione le quote di ammortamento, relativamente ad esercizi ancora “accertabili”. Quanto precede, a seguito della contestazione sul criterio utilizzato nell’imputazione contabile e di bilancio di un fabbricato industriale e di spese manutentive sullo stesso patrimonializzate e sottoposte ad ammortamento. La validità dell’atto impositivo non è inficiata dall’intervenuta decadenza del potere di accertamento, con riferimento all’esercizio di iscrizione a bilancio delle predette “poste” patrimoniali.

La Suprema Corte richiamava anche una sua precedente sentenza, e precisamente la numero 12880 del 21 maggio 2008 : la controversia sottoposta ai Giudici trattava della contestazione circa l’esatta qualificazione da attribuire ad un costo, patrimonializzato dalla società sottoposta a verifica, mentre l’ufficio riteneva trattarsi di un costo d’esercizio, tale da dover incidere unicamente sul conto economico.

La Cassazione ha concluso che è ammissibile un accertamento teso a contestare i criteri utilizzati in sede di redazione del bilancio, anche qualora non ne scaturisca alcun aggravio d’imposta per lo stesso esercizio, alla luce dei riflessi e delle conseguenze che tali scorrette impostazioni contabili e di bilancio, sono suscettibili di generare sugli esercizi futuri.

 

Riflessioni conclusive sulla questione

Tenendo conto di quanto esaminato, emerge quindi la necessità, in capo ai contribuenti, di conservare, anche a distanza di anni, la documentazione attestante il sostenimento di costi ed oneri aventi utilità pluriennale, e relativi a cespiti ammortizzabili … A tale impostazione non sono mancate “reazioni” da parte della dottrina, secondo cui, in tal modo, il contribuente resterebbe sottoposto ad una pretestuosa “contestazione postuma”3 esperibile praticamente quasi senza limiti di tempo, ad opera dell’amministrazione. Come si comprenderà, il tema è di vasta portata, coinvolgendo la contabilizzazione di poste patrimoniali capaci di riverberi su annualità successive: si pensi, i.e., alla corretta iscrizione originaria di cespiti, di oneri pluriennali, ma altresì di partecipazioni, o di “beni merce”; ma nella problematica in esame ricadono anche tutte le ipotesi “modificative” di dette iscrizioni, quali le patrimonializzazioni, o le svalutazioni che periodicamente possono rendersi necessarie.

Occorre pertanto rifarsi ai criteri richiamati dalla recente pronuncia della Suprema Corte, secondo cui, pur ritenendo pacifica “l’asserita decadenza dell’Ufficio dalla possibilità di rideterminare valori riferiti a spese per immobili in anni precedenti il quinquennio”, ha affermato la possibilità per l’amministrazione finanziaria, di rettificare le quote di ammortamento conseguenti, con riferimento agli esercizi ancora accertabili, in conformità al disposto di cui all’articolo 43 del d.p.r. n. 600/73.

L’intervenuta decadenza del potere di accertamento fa sì che l’effetto “regolatore” caratterizzante le rettifiche operate in tali fattispecie, non possa avere effetto retroattivo, a valere sino alla data della iscrizione originaria in contabilità ; quanto precede senza inficiare la piena valenza delle predette rettifiche, con riferimento agli esercizi ancora suscettibili di controllo.

 

Il secondo profilo di analisi : il pericolo di “doppiaimposizione”, conseguente alle verifiche sui componentipluriennali.

Il secondo profilo di analisi, relativo alla fattispecie in esame, è quello delle“duplicazioni d’imposta”: tale “perversa fenomenologia” caratterizza, talvolta, le verifiche fiscali riguardanti oneri ad utilità pluriennale, cespiti, competenza delle relative quote di “incidenza reddituale”, e criteri di contabilizzazione adottati .

Un interessante caso applicativo recentemente sottoposto alla giurisprudenza di merito, è quello che ha formato oggetto della sentenza n. 5, emessa dalla C.T.P. di Vercelli, in data 18 gennaio 20104: in tale casistica l’Ufficio ha ripreso a tassazione una plusvalenza patrimoniale susseguente alla cessione di beni merce, che, a parere dei verificatori, avrebbero dovuto essere trattati alla stregua di cespiti ammortizzabili.

La questione, come è evidente, appare estendibile ad una serie di ipotesi, nelle quali le rettifiche operate possano generare conseguenze su diverse annualità.

Il contribuente sottoposto a verifica, a seguito della notifica del processo verbale di constatazione di conclusione delle operazioni di controllo, ha definito la pretesa erariale fondata, come si è detto, sulla riqualificazione di beni merce oggetto di cessione come cespiti, e la conseguente emersione di plusvalenze da realizzo.

La verifica si riferiva all’esercizio 2004, e, assumendo come valide le ragioni portate dall’Ufficio, il contribuente avrebbe avuto diritto di dedurre le quote di ammortamento sui “cespiti”, nei tre esercizi antecedenti.

Lo stesso contribuente, onde evitare l’insorgere di una duplicazione d’imposta, ha presentato istanza di rimborso, impugnando il silenzio opposto dall’ufficio, ai sensi dell’articolo 21 del decreto legislativo n. 546/92.

I Giudici aditi hanno aderito completamente alle tesi del contribuente, respingendo quanto asserito dall’ufficio, con particolare riferimento:

  • all’impossibilità, essendo spirati i termini, di presentare dichiarazioni rettificative, in prima istanza;

  • all’applicabilità, riferita al caso in esame, dei termini definiti dall’articolo 38 del d.p.r. n. 602/73, in materia di rimborsi, in ultima istanza.

 

Rammento, onde agevolare la piena comprensione della problematica, che la facoltà di rettificare la dichiarazione originariamente presentata, come è noto, va esercitata entro il termine di cui all’articolo 2, comma 8, del d.p.r. n. 322 del 22.07.98: si tratta del termine di decadenza del potere di accertamento dell’ufficio.

Il predetto termine è individuato, per le imposte sui redditi, dall’art.43 del d.p.r. n. 600/73; per l’Iva dall’art.57 del d.p.r. n. 633/72: entrambe le norme citate indicano quale termine ultimo (salvi casi particolari) il 31 dicembre del 4° anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione.

Con riguardo invece, ai termini stabiliti per produrre istanza di rimborso previsti dall’articolo 38 del d.p.r. n. 602/73, essi fanno rifermento al “termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data del versamento…, nel caso di duplicazione ed inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento”.

Riprendendo l’esame della sentenza n. 5 del 18 gennaio 2010, emessa dai giudici di merito della C.T.P. di Vercelli, la stessa afferma che nella fattispecie esaminata “l’Amministrazione finanziaria deve evitare ingiuste duplicazioni d’imposta, rettificando spontaneamente le dichiarazioni nelle quali si producono gli effetti delle rettifiche”: quanto precede, prevedendo così un “onere” in tal senso in capo agli stessi uffici, in assenza di adempimenti per il contribuente (come, appunto, la dichiarazione rettificativa).

I giudici di Vercelli hanno ulteriormente precisato che non sarebbe stato possibile al contribuente, in merito all’istanza di rimborso da produrre, seguire l’iter descritto dall’articolo 38 del d.p.r. n. 602/73: quanto precede, stante l’assenza, nel caso loro sottoposto, dei presupposti richiamati dalla norma richiamata. In altri termini, la richiesta di rimborso trova origine nell’accertamento con adesione, e non in un indebito frutto di errori, o della “… inesistenza parziale o totale dell’obbligo di versamento”.

Ne consegue che il termine di cui tener conto per valutare la tempestività della presentazione di istanza di rimborso, era nel caso specifico, quello definito dal secondo comma dell’articolo 21, decreto legislativo n. 546/92, che testualmente recita: “la domanda di restituzione … non può essere presentata, dopo due anni dal pagamento ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione”.

Nel caso esaminato, il “giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione”, coincide con la data in cui si è definito l’accertamento con adesione, rispetto alla pretesa manifestata a seguito della notifica del processo verbale di constatazione.

 

19 maggio 2011

Giuseppe Pagani

1Marco Thione, “Costi pluriennali e decadenza del potere di accertamento”, in “Consulenza” n°11/2011

2Maurilio Ricciardiello, “Beni ammortizzabili : niente cestino per le fatture con più di dieci anni”, in “Fisco Oggi”, rivista telematica dell’Agenzia delle Entrate, del 27.01.2011

3C. Pino, “La contestazione postuma del criterio di iscrizione in bilancio”, in “Corriere Tributario” n°36/2010

4Alfio Cissello, “Riqualificazione fiscale senza doppia imposizione”, in “Eutekne.Info”, il Quotidiano del Commercialista, del 20.10.2010