Il procedimento dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale

Il processo tributario si instaura con ricorso davanti alla commissione tributaria provinciale. Il ricorso deve essere redatto in carta da bollo e per le controversie di valore inferiore ad € 2.582,28 può essere sottoscritto direttamente dalla parte. a cura di Maria Leo.

Il procedimento dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale con particolare riferimento alla motivazione del ricorso, alle richieste delle parti e alla sottoscrizione

 

Il processo tributario si instaura con ricorso davanti alla commissione tributaria provinciale, in base a quanto prescritto dall’articolo 18, comma 1 del D.Lgs. n. 546/92.

Il ricorso deve essere redatto in carta da bollo (€ 14,62 dal 1° giugno 2005) e contenere:

  • la Commissione Tributaria a cui ci si rivolge;
  • il nome, cognome (o la ragione sociale o la denominazione) del ricorrente (e, quando c’è, del suo legale rappresentante);
  • la residenza (o la sede legale o il domicilio eletto);
  • il codice fiscale;
  • l’Ufficio o l’ente locale o il concessionario della riscossione nei cui confronti è proposto;
  • gli estremi dell’atto impugnato;
  • l’oggetto della domanda (c.d. petitum);
  • i motivi di fatto e di diritto atti a provare la sua fondatezza (c.d. causa petendi);
  • la sottoscrizione del ricorrente;
  • la sottoscrizione del difensore, quando è presente, con l’indicazione dell’incarico conferito.

          Per le controversie di valore inferiore ad € 2.582,28, il ricorso può essere sottoscritto direttamente dalla parte.

 

Il ricorso è inammissibile se manca una delle indicazioni prescritte dal suddetto articolo.

 

          Orbene, per quanto concerne l’esame del presente scritto è d’uopo evidenziare che l’oggetto ed i motivi della domanda, corrispondenti alle tradizionali categorie del petitum (mediato e immediato) e della causa petendi, sono due elementi essenziali del ricorso, previsti nelle lettere d) ed e) dell’art. 18, e già prima nelle lettere b) e d) dell’art. 15 del D.P.R. n. 636/1972.

          La trattazione congiunta dei suddetti elementi si giustifica sia per lo stretto collegamento tra gli stessi, sia perché per giungere ad una definizione degli stessi occorre preliminarmente fare riferimento al dibattito sulla natura del processo tributario: dalla scelta dell’una o dell’altra impostazione discendono, infatti, pressoché automaticamente, come ineludibili corollari, anche due differenti coppie di definizioni per i due elementi in esame.

          Per chi ritiene di attribuire al processo tributario la natura di un giudizio di impugnazione-annullamento, l’oggetto immediato della domanda sarà normalmente costituito dal provvedimento, richiesto al giudice, consistente nell’annullamento dell’atto impositivo impugnato, ovvero nella declaratoria di nullità dello stesso, previo accertamento dei vizi specificamente allegati dal ricorrente; l’oggetto mediato sarà, invece, ravvisabile nella tutela dell’interesse legittimo leso dall’atto dell’Amministrazione finanziaria.

          Nei processi di rimborso, invece, il petitum consisterà nell’accertamento di un credito al contribuente e nella conseguente condanna dell’Amministrazione a soddisfarlo, previo annullamento dell’atto che ha negato il rimborso.

Ciò posto, i motivi di regola non potranno altro che consistere nelle ragioni giuridiche e di fatto per le quali, ad avviso del ricorrente, l’atto impugnato (o la parte contestata di esso) è annullabile o radicalmente e irreversibilmente viziato.

Nei processi di rimborso, invece, indicare i motivi significherà indicare il fatto da cui scaturisce il diritto al rimborso e la ragione per cui si ritiene indebito il pagamento preteso dall’Amministrazione.

Per chi ritiene che il processo tributario sia sempre e comunque un giudizio di accertamento sul rapporto, il petitum immediato sarà sempre costituito dal provvedimento richiesto, mentre quello mediato consisterà nella pretesa tributaria di cui il ricorrente domanda l’accertamento negativo, o nel diritto al rimborso del quale il soggetto medesimo chiede il riconoscimento, preordinato ad una pronuncia di condanna dell’Amministrazione finanziaria o dell’ente locale alla restituzione delle somme indebitamente percepite; i motivi coincideranno, invece, con la ragione della domanda, a prescindere dai vizi dell’atto, e cioè con l’inesistenza di fatti costitutivi, ovvero l’esistenza di fatti estintivi, modificativi o impeditivi, della pretesa dell’Amministrazione.

In particolare, per ciò che riguarda i motivi, è d’uopo evidenziare che il ricorso introduttivo deve essere interamente motivato, con l’indicazione delle ragioni di fatto e di diritto poste a difesa del contribuente.

I motivi rappresentano l’aspetto giustificativo dell’istanza del ricorrente ed hanno la funzione di negare la pretesa tributaria avanzata dall’Ufficio.

Per cui laddove, i motivi siano del tutto inconferenti o inesistenti rispetto all’atto impugnato conseguenza necessaria diviene l’inammissibilità del ricorso.

          A tale proposito è d’uopo fare cenno di diverse sentenze che hanno trattato casi eterogenei fra loro al fine di meglio comprendere la portata e l’importanza di una giusta elaborazione dei motivi del ricorso.

Par quanto attiene, appunto, ad una giusta elaborazione (o meglio, all’esatta specificità) degli stessi motivi sovviene, a titolo esemplificativo, la sentenza della Corte di Cassazione del 25/10/2004 n. 20650 in materia di Ici, con la quale i Giudici accolgono il ricorso proposto dal  Comune poiché il ricorso presentato in primo grado dal contribuente era privo di motivi specifici, contenendo soltanto la generica affermazione che i presupposti per la determinazione dell’Ici non erano quelli utilizzati dal comune e contenuti nel terzo comma dell’art. 5 del D.Lgs. n. 504/92, ma quelli previsti Dal quarto comma dello stesso articolo.

Continuano ribadendo che, poiché il processo tributario – almeno per quanto attiene all’introduzione del giudizio – deve considerarsi un processo di impugnazione, la mera denuncia di violazione di una norma giuridica, senza alcun riferimento agli elementi di fatto e al contenuto specifico dell’atto impugnato non adempie all’onere della specificità dei motivi (nella fattispecie, trattandosi di domanda di rimborso, era posto totalmente a suo carico l’onere di provare che il fabbricato non era interamente posseduto da imprese e che lo stesso non era distintamente contabilizzato.

 

          Un altro caso interessante ci viene offerto dalla sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Genova – sez. I – del 31/01/2007 n. 426 laddove viene dichiarata l’inammissibilità del ricorso per omissione assoluta della causa petendi.

In effetti, nel caso preso in esame dai giudici genovesi, viene bocciato il ricorso avverso un reddito di partecipazione presentato da un socio di una società alla quale era stato accertato un maggior imponibile, poiché il predetto socio si rifaceva per relationem al ricorso della società.

I giudici nel dichiarare inammissibile il ricorso perché privo di causa petendi ribadiscono che nella disciplina del processo tributario vige il principio di autonomia delle domande giudiziali, sicchè ciascuna deve essere in sé completa degli elementi previsti dalla legge, il che impedisce anche l’impiego della motivazione per relationem.

L’esito non cambia neppure quando cadono in decisione controversie vertenti l’una sul reddito delle società di persone, l’altra o le altre sul reddito c.d. di partecipazione.

Ciascuna di tali controversie, infatti, è introdotta con domanda giudiziale autonoma, ossia “principale”, essendo garantito il diritto di azione (ex art. 24 Cost.) sia alla società, sia ai singoli soci (cfr., ad es., Cass., sez. V, 22.6.2001, n. 8567; 1.6.2001, n. 7425; 27.1.2001, n. 1184 ).

I problemi relativi alla connessione fra dette controversie, oppure alla necessità o facoltatività della sospensione per pregiudizialità, più volte caduti sotto l’esame della giurisprudenza, non possono giustificare l’assenza, nella domanda giudiziale proposta dal socio, degli elementi indefettibili per legge, essendo il giudizio sull’ammissibilità o inammissibilità della domanda indipendente dalla connessione e dalla pregiudizialità (infatti potrebbe essere inammissibile – ad es. perchè tardivo – anche il ricorso della società, senza che ciò incida sul diritto d’azione del singolo socio).

 

D’altronde, che le domande giudiziali debbano essere autonome nella loro completezza, anche nelle particolari controversie testé menzionate, emerge pure dalla possibilità che la società di persone impugni l’avviso d’accertamento, a essa destinato, presso una Commissione tributaria provinciale e ciascuno dei soci impugni l’atto impositivo, che lo riguarda, presso altra Commissione provinciale: il tutto in applicazione delle regole sulla competenza territoriale stabilite nell’art. 58, d.lgs. n. 600/1973, nonché negli artt. 4 e 5, d.lgs. n. 546/1992.

 

        Atteso quanto sopra, l’inammissibilità del ricorso in esame, per mancata indicazione esplicita dei motivi d’impugnazione, è rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 22, c. 2, d.lgs. n. 546/1992, sebbene l’Amministrazione si sia costituita senza eccepire l’inammissibilità medesima.

Per quanto detto si può facilmente desumere che  i motivi riguardano la fondatezza della domanda e ciò appare ancora più chiaro se si tiene presente che, trattandosi di processo di impugnazione di un atto dell’Autorità finanziaria, la vera domanda è rappresentata dalla pretesa tributaria, individuata dal contenuto dell’atto.

In effetti, è d’uopo sottolineare che il problema dell’allegazione e della rilevanza dei fatti non opera sullo stesso piano della domanda, ma della sua giustificazione e fondatezza.

In tal senso i motivi si pongono come elemento di collegamento della domanda alla decisione.

Pertanto, se la domanda ha, essenzialmente, una funzione identificativa che porta a circoscrivere l’oggetto del giudizio e del suo risultato finale, i motivi costituiscono le ragioni giustificative della domanda stessa circoscritta all’oggetto e, come tali, sono al di fuori della domanda stessa.

A questo proposito sovviene una sentenza della Corte di Cassazione del 31/10/2006, n. 23466 nella quale fortemente si ribadisce che i motivi del ricorso introduttivo delimitano l’oggetto del processo tributario caratterizzato da un meccanismo di instaurazione di tipo impugnatorio.

Pertanto nella predetta sentenza si accoglie il ricorso del Ministero con il quale si evidenziava che il contribuente in secondo grado aveva introdotto una causa petendi del tutto estranea ai motivi di primo grado.

          Ancora, la sentenza della Corte di Cassazione del 26 maggio 2008, n. 13509, nella quale si afferma testualmente:

“Nel processo tributario, (…), l’oggetto del dibattito è limitato alla contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa dell’Amministrazione, entro i limiti delle contestazioni sollevate dal contribuente nel ricorso introduttivo di primo grado.

I motivi di impugnazione svolti in tale ricorso costitutiscono la causa di annullamento dell’atto impositivo, con conseguente inammissibilità di un mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionati davanti al giudice di secondo grado, ciò costituendo inserimento non consentito di un nuovo tema di indagine”.

Vi è da aggiungere, infine, che l’ampiezza dei motivi risulta inversamente proporzionale alla maggiore o minore articolazione dell’attività amministrativa.

Per cui, laddove manchi un’attività positivamente svolta (come nel caso del silenzio-diniego o di istanza di rimborso), l’ambito dei motivi si presenta, ovviamente, amplissimo, ricomprendendo tutte le ragioni che possono giustificare, ad es., la restituzione di un versamento.

Viceversa, rispetto agli atti che rappresentano la conclusione di un’attività amministrativa articolata e complessa, e, quindi, analiticamente disciplinata, i motivi possono risultare meglio delimitati e più facilmente identificabili.

 

Orbene, alla luce delle argomentazioni svolte, chiaro appare che le richieste del ricorrente, presumibilmente di annullamento dell’atto, si muovono nell’ambito delle eccezioni, quale mera contrapposizione alla richiesta avanzata dall’Amministrazione finanziaria.

E, quindi, l’iniziativa del ricorrente rende immutabile l’oggetto del giudizio di impugnazione per entrambe le parti.

Ed è proprio in questo punto che causa petendi e petitum si intersecano e  trovano il loro punto d’unione.

In effetti, i motivi esplicati nel ricorso introduttivo sono poi posti alla base (direi piuttosto sfociano naturalmente) dell’oggetto della domanda (petitum), la quale sostanzialmente coincide con la richiesta avanzata dalla parte al giudice.

In effetti il petitum è l’atto di cui si chiede l’annullamento, cioè l’atto-provvedimento di controparte, che, attraverso l’impugnazione assume l’aspetto di pretesa (avversaria), a fronte dell’istanza (di annullamento, totale o parziale) che formalizza un’eccezione (per di più meramente negatoria della pretesa).

          La corretta formulazione del petitum è di particolare importanza in quanto ad esso è vincolata l’attività decisionale; difatti, il processo tributario è fondato sul principio della domanda, con derivante rigida correlazione tra chiesto e pronunciato.

Ciò diviene un fattore di estrema importanza laddove si evidenzi il fatto che l’assoluta mancanza o incertezza dell’oggetto della domanda, a prescindere dall’impostazione teorica accolta, è causa di inammissibilità del ricorso.

Inoltre, è d’uopo evidenziare che tale richiesta deve essere avanzata categoricamente in seno al ricorso stesso e non, ad esempio, in una memoria successiva.

 

          A tale proposito una sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano – sez. VIII – del 21/0282008 n. 27 che dichiara inammissibile un ricorso in quanto privo di richieste, avanzate, tra l’altro, solo in una memoria aggiuntiva.

infatti, la Commissione, rigetta il ricorso osservando come nel caso di specie non sia stata formulata espressamente alcuna domanda nell’atto introduttivo del giudizio.

In effetti, in tale caso il contribuente formula numerose nuove domande solo nelle memorie integrative, ma tale operato tardivo non sana il difetto originario dell’atto introduttivo che, pertanto, risulta privo di uno degli elementi fondamentali del ricorso: il petitum.

Causa petendi e petitum, poi, sono strettamente connesse con quello che sarà il guidicato.

          In effetti, è ovvio che il giudice deve attenersi ai motivi dedotti dalle parti così come prescritto dall’art. 7 del D. Lgs. N. 546/92 “Le commissioni tributarie, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all’ ente locale da ciascuna legge d’imposta”, ciò per non incorrere altresì in vizi di ultrapetizione.

A conferma di quanto detto, la sentenza della Corte di Cassazione del 13 ottobre 2008, n. 25097, nella quale si afferma che i motivi di impugnazione dell’atto impositivo

“si configurano come causa petendi della correlata domanda di annullamento, con la conseguenza che incorre nel vizio di extra o ultrapetizione il giudice adito che fondi la propria decisione su motivi non dedotti o dedotti sotto profili diversi da quelli che costituiscono la ratio decidendi”.

Effettivamente, nella suddetta sentenza è stato ravvisato il vizio di “ultrapetizione” del giudice che in una lite ove un socio di una società di persone ha censurato l’avviso a lui notificato sulla base della mancata notifica dell’atto notificato alla società, dopo aver specificato che l’Ufficio non ha l’obbligo di notificare l’accertamento emanato in capo alla società anche ai soci, ha annullato ugualmente il provvedimento in quanto quest’ultimo era stato notificato ad un soggetto diverso dal curatore della società che, nel frattempo, era stata dichiarata fallita.

 

Da citare, altresì, due pregevoli sentenza della Cassazione la n. 14365 del 20/06/2007 e la n. 23466 del 31/10/2006.

Orbene, argomentando dei motivi del ricorso e del fatto che gli stessi devono essere normalmente indicati nel ricorso non si può prescindere dalla trattazione di un’importante eccezione a questa regola, espressamente contemplata dall’art. 24 del D.Lgs. n. 546/1992, rubricato “Produzione di documenti e motivi aggiunti”, il quale testualmente recita:

“I documenti devono essere elencati negli atti di parte cui sono allegati ovvero, se prodotti separatamente, in apposita nota sottoscritta da depositare in originale ed in numero di copie in carta semplice pari a quello delle altre parti.

 L’ integrazione dei motivi di ricorso, resa necessaria dal deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione, è ammessa entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla data in cui l’ interessato ha notizia di tale deposito.

Se è stata già fissata la trattazione della controversia, l’ interessato, a pena di inammissibilità, deve dichiarare, non oltre la trattazione in camera di consiglio o la discussione in pubblica udienza, che intende proporre motivi aggiunti. In tal caso la trattazione o l’ udienza debbono essere rinviate ad altra data per consentire gli adempimenti di cui al comma seguente.

L’ integrazione dei motivi si effettua mediante atto avente i requisiti di cui all’ art. 18 per quanto applicabile. Si applicano l’ art. 20, commi 1 e 2, l’ art. 22, commi 1, 2, 3 e 5 e l’ art. 23, comma 3”.

          Dal chiaro tenore letterale della norma si evince che l’integrazione dei motivi è possibile soltanto in presenza di specifici presupposti, pertanto, deve essere esclusa qualsiasi integrazione dei motivi già svolti nel ricorso, ove non si verifichino nuove acquisizioni documentali.

Nella pratica, l’integrazione dei motivi riguarda più frequentemente il ricorrente, in quanto il resistente, al momento della costituzione in giudizio conosce già i motivi addotti dal ricorrente. Infatti essa è, eccezionalmente, consentita ai reclamanti solo nell’ipotesi in cui la controparte depositi in causa documenti da loro in precedenza non conosciuti.

L’integrazione dei motivi deve essere proposta entro il termine perentorio di 60 giorni dalla data in cui l’interessato ha avuto notizia del deposito di documenti non conosciuti. In genere, la decorrenza dei 60 giorni non può essere successiva al termine ultimo per il deposito dei documenti (20 giorni liberi prima dell’udienza).

          Peraltro, si può verificare che al momento della comunicazione dei documenti “non conosciuti” l’udienza di trattazione della controversia sia già stata fissata.

Per tale ipotesi, il comma 3 dell’art. 24 prevede che l’interessato debba manifestare la propria intenzione di proporre motivi aggiunti “non oltre la trattazione in camera di consiglio o la trattazione in pubblica udienza” e ciò, “a pena di inammissibilità”.

Pertanto, nelle suddette ipotesi, l’interessato può rendere nota l’intenzione di proporre motivi aggiunti sino al momento immediatamente antecedente alla decisione.

          In definitiva, sembra doversi ritenere che la dichiarazione dell’intenzione di presentare motivi aggiunti possa intervenire sia nell’ipotesi in cui il termine (60 gg.) per la presentazione dei motivi scavalchi la data dell’udienza, sia che detta data sia successiva a tale termine. E ciò in quanto il procedimento “incidentale” dei motivi aggiunti prevede entrambe le fasi temporali della notifica del relativo ricorso e della presentazione delle controdeduzioni del resistente.

Dunque, anche se il termine per la proposizione dei motivi aggiunti ricade all’interno della data fissata per l’udienza, ma all’interno di tale data non vi è lo spatium temporis per il deposito delle controdeduzioni del resistente, l’udienza stessa deve essere, comunque, rinviata.

          Peraltro, è d’uopo sottolineare che il legislatore, con riferimento all’integrazione dei motivi del ricorso ai fatti emergenti dal deposito di “documenti non conosciuti” ha confermato la comune partecipazione di fatti e motivi alla componente accertativa (rectius della cognizione) del processo tributario. Con l’ulteriore osservazione che documento non conosciuto è solo quello in precedenza non conoscibile secondo la normale diligenza.

          A tal proposito, la Suprema Corte, nella sentenza del 18 aprile 2007, n. 9224, ha ritenuto che la produzione di documenti, impossibile in precedenza, per causa di forza maggiore, è ammissibile, nell’ipotesi di cassazione con rinvio, solo a supporto di pretese e considerazioni già svolte, e non anche qualora determini la necessità di ulteriori contestazioni e deduzioni.

Ad ulteriore prova di quanto detto, un’altra sentenza della Corte di Cassazione dell’1 giugno 2007, n. 12909, nella quale si afferma testualmente: “L’integrazione dei motivi è consentita (…) soltanto in relazione alla necessità di contestazione di documenti depositati dalla controparte, e fino ad allora non conosciuti, in ogni caso solo entro il termine di 60 giorni dalla data in cui si è avuta notizia di tali documenti”.

In tale senso si vedano: Cassazione sentenza del 25/01/2008 n. 1622; sent. n. 455 del 11/01/2008; sent. N. 8179 del 02/04/2007.

Alla luce di quanto asserito, chiaro appare che l’art. 24 del D.Lgs. n. 546/1992 subordina l’integrazione dei motivi al deposito, ad opera della controparte, di documenti non conosciuti, prevedendo poi i tempi e i modi in cui tale integrazione deve intervenire per garantire il rispetto del contraddittorio.

          Un altro elemento di fondamentale importanza per l’ammissibilità di un ricorso e oggetto dell’odierna trattazione è la sottoscrizione dello stesso.

Preliminarmente, è necessario precisare che:

  • per le controversie in cui è obbligatoria l’assistenza tecnica, in quanto di valore superiore ad € 2.582,28, occorre la firma del difensore del ricorrente, unitamente all’indicazione dell’incarico;
  • per le controversie in cui tale obbligo non sussiste, la firma può essere apposta dalla parte stessa.

 

La sottoscrizione del ricorso non costituisce un requisito formale ed accidentale dell’atto, ma ne è elemento essenziale, perché vale ad attribuire e riferire il contenuto del documento ad un soggetto determinato: colui che ne appare essere il sottoscrittore.

Nei ricorsi presentati dinanzi alla Commissione tributaria provinciale, il difensore deve apporre in originale la sottoscrizione sia in calce all’originale del ricorso notificato all’Amministrazione, sia in calce alla copia depositata nella segreteria della Commissione adita.

L’assenza di sottoscrizione è causa di inammissibilità del ricorso insanabile nel corso del giudizio ed in sua presenza, la Commissione Tributaria dichiarerà il ricorso inammissibile.

La formulazione dell’art. 18 sembrerebbe non lasciare dubbi interpretativi nell’affermare che la carenza di sottoscrizione del ricorso determina la sua inammissibilità quanto predetto.

          A proposito dell’inammissibilità del ricorso privo di sottoscrizione è d’uopo, però, effettuare alcune precisazioni.

In effetti, è necessario sottolineare che è orientamento ormai consolidato della giurisprudenza che ai fini dell’ammissibilità del ricorso è irrilevante la mancanza della sottoscrizione nella copia, essendo sufficiente che la sottoscrizione della parte sia contenuta nell’originale e sia seguita dall’autenticazione del difensore e che la copia notificata contenga elementi idonei a dimostrare la provenienza dell’atto da difensore munito di procura speciale, come la trascrizione o l’indicazione del mandato.

Peraltro, è d’uopo evidenziare che la sottoscrizione della procura (come pure dell’autenticazione del difensore) va sempre rilevata con riferimento all’originale dell’atto e non alla copia notificata.

 

A conferma di quanto asserito, tre sentenze della Corte di Cassazione – Sez. tributaria –  del 6 giugno 2007, nn. 13206, 13207, 13208, nelle quali si afferma testualmente: (…) ai fini dell’ammissibilità del ricorso è irrilevante la mancanza della sottoscrizione nella copia, essendo sufficiente che la sottoscrizione della parte sia contenuta nell’originale (…)”.

Inoltre, è d’uopo sottolineare che secondo consolidata giurisprudenza della Suprema Corte non può essere dichiarato inammissibile un ricorso sottoscritto dal solo contribuente, laddove il difensore si limiti a sottoscrivere il certificato di autenticità della firma apposta dal contribuente in calce al mandato processuale.

 

A conferma di quanto detto una recente sentenza della Suprema Corte del 30 gennaio 2008, n. 2070, laddove testualmente si afferma:

“la firma del difensore sugli atti (…), ancorché apposta solo sotto la certificazione dell’autenticità della sottoscrizione della parte, ha lo scopo, oltre che di certificare l’autografia del mandato, di sottoscrivere l’atto, con la conseguenza che non sussiste la nullità dell’atto stesso per mancata sottoscrizione del procuratore”.

Una questione meritevole di attenzione per ciò che concerne la sottoscrizione nel ricorso, è quella che riguarda l’ammissibilità del ricorso con firma fotocopiata.

 

Precisamente, si fa riferimento alla sentenza della Corte di Cassazione – Sez. tributaria – del 15 marzo 2004, n. 5257, nella quale si affronta, appunto, il problema dell’ammissibilità del ricorso allorché non risulti sottoscritta dal difensore o dalla parte anche la copia notificata alla controparte.

Nel caso esaminato dalla suddetta sentenza, la parte aveva notificato all’Ufficio una copia fotostatica del ricorso, nella quale era comunque chiaramente leggibile la firma del difensore e, successivamente, aveva deposita presso la Commissione l’originale del ricorso sottoscritto dal difensore.

In tale ipotesi, la Corte di Cassazione, preso atto che l’originale del ricorso introduttivo di primo grado risulta sottoscritto dal difensore del ricorrente e regolarmente depositato presso la segreteria della Commissione, con relativa attestazione di conformità alla copia consegnata all’ente impositore, ha ritenuto che l’atto non possa considerarsi del tutto privo di sottoscrizione.

In effetti nella copia depositata presso l’Ufficio è chiaramente leggibile la firma del difensore, anche se atto recante la sottoscrizione in copia fotostatica.

 

          Un’altra questione di notevole importanza in tema di sottoscrizione, riguarda l’inammissibilità o meno dei ricorsi non sottoscritti dal difensore abilitato nelle liti di valore superiore ad € 2.582,28.

A tal proposito, nel 2000 è intervenuta una sentenza della Corte Costituzionale del 13 giugno 2000, n. 189, che ha capovolto totalmente il precedente indirizzo giurisprudenziale, secondo cui era inammissibile sanare ex post, ai sensi dell’art. 12, comma 5, ultima parte del D.Lgs. n. 546/1992, la mancanza originaria della procura, in un ricorso sottoscritto solo dal contribuente in una controversia di valore superiore ad € 2.582,28.

          In effetti, la Corte Costituzionale, con una pronuncia interpretativa di rigetto, ha affermato che, anche nelle liti di valore superiore ad € 2.582,28, dinanzi ad un ricorso che risulti privo di procura ed erroneamente sottoscritto solo dal contribuente, il giudice, non solo non può dichiararne subito l’inammissibilità, ma ha l’obbligo di rivolgere al contribuente l’invito di cui al comma 5 dell’art. 12 succitato, attribuendogli così la facoltà di sanare ex tunc, entro un termine perentorio, il vizio.

Pertanto, chiaro appare che l’inammissibilità scatterebbe solo a seguito dell’inottemperanza all’ordine, impartito dal Presidente della Commissione tributaria o della Sezione o del Collegio, alla parte di munirsi di difensore tecnico abilitato entro un termine perentorio all’uopo fissato.

          A tal proposito, è d’uopo sottolineare che la Corte di Cassazione – Sez. tributaria – non ha mai apertamente smentito l’interpretazione dei dati normativi in questione in senso diametralmente opposto a quello propugnato dalla Corte costituzionale.

In effetti, è opportuno evidenziare che l’orientamento attuale e consolidato al riguardo è quello della sanabilità dei ricorsi, laddove, nelle controversie di valore superiore ad € 2.582,28, non risultino debitamente sottoscritti da un difensore abilitato.

          A conferma di quanto detto, numerose sentenze della Corte di Cassazione – Sez. tributaria – tra le quali meritevole di cenno è la sentenza del 15 maggio 2008, n. 12184, nella quale testualmente si afferma: (…) l’inammissibilità del ricorso deve intendersi riferita soltanto alle ipotesi in cui sia rimasto ineseguito l’ordine del Presidente della commissione o della sezione o del collegio, di munirsi, nel termine ad hoc fissato, di assistenza tecnica, conferendo incarico ad un difensore abilitato”.

Ad ulteriore prova di quanto asserito la sentenza del 22 gennaio 2007, n. 1299, nella quale testualmente si asserisce:

(…) può considerarsi ius receptum che nelle controversie di valore superiore a £ 5.000.000, (…), la inammissibilità del ricorso senza l’assistenza di un difensore abilitato può essere dichiarata soltanto qualora la parte privata non ottemperi, nel termine all’uopo fissato, all’ordine di munirsi di assistenza tecnica impartito dal Presidente della Commissione Tributaria”.

Le ulteriori e numerose sentenze della Corte di Cassazione – Sez. tributaria – confermano l’interpretazione data dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 189/2000, evidenziando, quindi, come i ricorsi non sottoscritti da un difensore abilitato, nelle controversie di valore superiore ad € 2.582,28, possano essere sanati con efficacia ex tunc.

 

Maria Leo

17 Aprile 2009