Il segreto bancario nell’accertamento tributario

Il segreto bancario è l’obbligo di discrezione che i rappresentanti e gli impiegati bancari devono garantire agli affari dei loro clienti dei quali sono venuti a conoscenza esercitando il proprio lavoro.

Indagini bancarie: la disciplina giuridica

 In passato, il Fisco non aveva analoghi poteri, in quanto vigeva il segreto bancario.

Tale limite oggi non esiste più: l’art. 18, L. 30 dicembre 1991, n. 413 ha fatto cadere del tutto detto segreto, permettendo agli Uffici di richiedere informazioni alle banche e alle Poste.

Attualmente, la materia è regolata dall’art. 32, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e dall’art. 51, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, così come modificati dalla L. 413/91, e chiarita in dettaglio dalla C.M. 10 maggio 1996, n. 116/E, dalla Circ. D.R.E. Puglia 6 giugno 2001, n. 12 e, da ultimo, dalla Circ. Dir. Centrale Accertamento 28 settembre 2001, n. 84[1].

Il segreto bancario è definito come l’obbligo di discrezione che i rappresentanti e gli impiegati bancari devono garantire agli affari dei loro clienti dei quali sono venuti a conoscenza esercitando il proprio lavoro.

Il detentore del segreto bancario è unicamente il cliente, il quale è l’unico in grado di liberare la banca all’obbligo di discrezione permettendole di deliberare e rivelare le informazioni protette dal segreto. Giova precisare che l’obbligo di discrezione non è una particolarità della professione bancaria ma che questa regola è applicata anche ad altri campi, come, ad esempio, nell’ambito delle professioni mediche e d’avvocato.

D’altra parte, le informazioni relative alla sfera finanziaria di ogni individuo hanno, per loro stessa natura, carattere prettamente personale ed è, quindi, del tutto normale che siano trattate come strettamente confidenziali. In questa dimensione, si colloca il riscontro storico della evoluzione del modus operandi del banchiere, basato sul rigoroso rispetto della confidenzialità del rapporto con il cliente[2].

Tale comportamento si è consolidato nel tempo, quale espressione concreta di norme morali e di costume, applicate in maniera talmente costante ed uniforme da divenire un comportamento giuridicamente rilevante per la collettività. Siamo, in altre parole , nella fattispecie degli usi normativi praeter legem (opinio iuris seu necessitatis).

Con l’avvento del Medio Evo, si è prodotto un consolidamento del principio di segretezza come conseguenza della progressiva istituzionalizzazione dell’attività bancaria. In vari scritti dell’epoca medioevale[3], prevalentemente di autori fiorentini, si possono leggere esortazioni al rispetto di un assoluto riserbo nella conduzione degli affari.

Tuttavia, per una compiuta disciplina del segreto bancario bisogna giungere all’epoca moderna attraverso, peraltro, passaggi molto graduali. In particolare, fu nei secoli XVII e XVIII che il segreto bancario cominciò a divenire oggetto, in diversi Paesi europei, di una vera e propria disciplina legislativa, fino ad arrivare al secolo XVIII, periodo cruciale per quanto attiene, appunto, all’evoluzione in campo giuridico di tale istituto. Alla base di questa evoluzione vi fu, certamente, la crescita del sistema bancario e la necessità di tutelare la riservatezza delle informazioni con precise norme scritte.

La base legale del segreto bancario è data, innanzitutto, dal diritto civile, precisamente dal legame contrattuale per il quale il banchiere si impegna a rispettare il segreto sulla situazione personale del suo cliente.

La legislazione bancaria considera che l’obbligo di discrezione del banchiere è un dovere professionale con la conseguenza che una violazione è punibile dalla legge. Infatti, la Legge sulle banche dichiara punibili i dipendenti bancari o banchieri che divulghino informazioni prettamente riservate e protette. È molto importante precisare che nonostante la protezione, la Legge sulle banche riserva espressamente le disposizioni di altre leggi (diritto penale) in virtù delle quali il banchiere è tenuto a collaborare con le autorità e a deporre in giudizio.

Così come la Legge sulle banche, vi sono molte altre norme legislative che limitano il segreto bancario. Alcune disposizioni di diritto civile, penale, amministrativo, di assistenza giudiziaria internazionale prevedono delle deroghe al segreto bancario, che può essere soppresso su ordine di un’autorità giudiziaria, anche contro la volontà del cliente.

 

2. Il segreto bancario in Italia

In Italia, la tutela del segreto bancario è materia articolata e discussa, come emerge già dall’analisi del suo controverso fondamento giuridico, che può essere rinvenuto in una o in tutte le seguenti norme:

1)     Art. 47 della Costituzione: la tutela del segreto bancario risponde, infatti, a finalità pubbliche di protezione del sistema creditizio e, quindi, dell’economia nazionale;

2)     Art. 10 della legge bancaria n. 375 del 1936, il cui disposto normativo è stato ripreso dall’ar. 7 del Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (D.ls. del 1° settembre 1993 n. 385);

3)     Artt. 175, 1337 e 1375 del codice civile che, imponendo un obbligo di generale correttezza nella formazione e nello svolgimento dei rapporti giuridici, devono intendersi applicabili a tutti i rapporti contrattuali; in tal senso, i diritti ed i doveri riguardanti la riservatezza altro non sarebbero che la declinazione del principio generale di correttezza nel rapporto banca/cliente;

4)     Art. 326 e 622 del codice penale[4].

La possibilità di utilizzare le presunzioni relative di imponibilità per i movimenti non giustificati, risultanti dai conti correnti intestati al contribuente, è subordinata al rispetto di una procedura amministrativa di acquisizione dei dati bancari.

In particolare, il Legislatore prevede, quale presupposto essenziale della procedura di acquisizione dei dati bancari, la preventiva richiesta di un’autorizzazione al Comandante di zona della Guardia di finanza o al Direttore regionale delle entrate, nel caso in cui operino gli Uffici finanziari.

Individuati i conti correnti del contribuente, oggetto di accertamento, è possibile richiedere all’istituto di credito copia del conto intrattenuto con il cliente, con la specificazione di tutti i rapporti inerenti e connessi.

Qualora i dati rilevati dai conti non trovino riscontro nella contabilità del soggetto, opereranno le presunzioni legali previste dalle norme innanzi menzionate, che invertono l’onere della prova in capo al contribuente, imponendogli di chiarire natura e matrice dei propri movimenti e recuperando a tassazione quanto permanga privo di giustificazione.

L’art. 32, D.P.R. 600/1973, prevede, infatti, al numero 2), del comma 1, che i rilevamenti effettuati sui suddetti conti siano posti a base degli accertamenti, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito.

E’ per tale ragione che gli Uffici possono, in contraddittorio, chiedere dati e notizie al contribuente, invitandolo a comparire di persona o inviandogli questionari.

 

3. Deroghe fiscali

indagini finanziarie del Fisco sul contribuentePur con i limiti che esse presentano, si riconosce, in linea generale, la indiscussa portata deterrente che l’utilizzo di tali indagini può avere laddove si rifletta sul fatto che l’effetto dissuasivo delle norme tributarie rappresenta, unitamente ad un tanto auspicato recupero di coscienza civica da parte del contribuente, in tema di spontanea contribuzione alle spese pubbliche, la vera frontiera di un sistema fiscale quale il nostro, caratterizzato ormai da una fiscalità di massa ed in cui risulta utopico dirsi in grado di sconfiggere l’evasione fiscale soltanto attraverso generalizzati accertamenti eseguiti a tappeto [5].

Nell’evoluzione normativa in materia di segreto bancario, importante rilievo ha rivestito legge 9 ottobre 1971, n.825, che attribuiva la delega legislativa al Governo per la riforma tributaria e che, per la prima volta, aveva previsto all’art. 10, n. 12: “l’introduzione, limitata ad ipotesi di particolare gravità, di deroghe al segreto bancario nei rapporti con l’Amministrazione finanziaria, tassativamente determinate nel contenuto e nei presupposti”.

Risultava manifesta, in quegli anni, la viva preoccupazione del Legislatore, necessariamente correlata al dettato costituzionale contenuto nell’art. 47, che prevede la tutela del risparmio, di salvaguardare l’economia del Paese e di non scoraggiare l’accumulazione di denaro, nell’assoluto impegno di non favorire l’emergenza di quelle condizioni che avessero potuto causare o incoraggiare la dispersione o, peggio, la fuga di massa di capitali all’estero.

In ossequio a quanto disposto dalla delega di legge, con l’art. 35 del D.P.R. 29 settembre 1973, n.600, recante “Disposizioni in materia di accertamento delle imposte sui redditi”, venivano previste “deroghe” al segreto bancario in ipotesi ben determinate, mentre soltanto con il D.P.R. 15 luglio 1982, n. 463 furono dettati, con l’introduzione nel D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, dell’art. 51-bis, i casi di accesso alla documentazione bancaria del contribuente in materia di Iva: appariva chiaro come la stessa circostanza, secondo la quale la possibilità derogatoria al segreto che proteggeva le operazioni bancarie fosse prevista inizialmente soltanto per l’accertamento delle imposte dirette e non anche in materia di imposta sul valore aggiunto, testimoniasse l’estrema prudenza e la notevole attenzione con le quali il Legislatore aveva affrontato la particolare problematica[6] .

Le suddette previsioni normative in tema di segreto bancario comportavano un indiscusso ampliamento dei poteri degli Uffici finanziari e della Guardia di Finanza ma limitavano, di fatto, l’esercizio di tali attribuzioni al rigido rispetto di requisiti formali e, soprattutto, sostanziali posti a presidio della riservatezza dei rapporti tra contribuenti ed istituti di credito nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, richiedendo, nel contempo, l’adozione di procedure operative rivelatesi, all’atto pratico, assai laboriose e di problematica attuazione.

Sono trascorsi ormai otto anni da quando la legge 30 dicembre 1991, n. 413, entrata in vigore il 1° gennaio 1992, ha apportato sostanziali modifiche legislative in materia di accertamenti bancari, prevedendo in capo agli Uffici finanziari ed alla Guardia di Finanza il potere di richiedere ed ottenere informazioni al sistema bancario indipendentemente dalla ricorrenza di particolari presupposti di fatto.

In tale contesto normativo, l’art.18 ha, infatti, innovato profondamente le previsioni contenute nei decreti 600/1973 e 633/1972, sancendo “l’insopprimibile esigenza di evitare che il segreto (bancario) costituisca un comodo riparo per l’evasione fiscale e la criminalità economica”, così come è dato leggere nella Relazione al disegno di legge n. 3005 del 30 settembre 1991, dal quale ha preso origine la stessa L. n. 413/1991.

Il settore nel quale il segreto bancario è stato , di fatto, del tutto abolito, è quello dei rapporti tra le banche e l’Amministrazione finanziaria. Allo scopo di rendere più incisiva la lotta all’evasione fiscale, infatti, l’art. 18 della Legge n. 413/1991 ha profondamente modificato il regime preesistente tanto in materia di imposte dirette (artt. 32 e 33 D.P.R. n:600/73) quanto in materia di imposta sul valore aggiunto ( art. 51 D.P.R. n. 63/72).

Nel primo caso, gli uffici delle imposte dirette, la Guardia di Finanza e gli ispettori del Secit possono:

1)     chiedere alle banche ed agli uffici postali copia dei conti di cui è titolare il contribuente, compresi tutti i rapporti ad essi inerenti o connessi, come pure le garanzie prestate da terzi;

2)     inviare questionari per richiedere alle banche ed agli uffici postali ulteriori dati, notizie e documenti di carattere specifico relativi agli stessi conti;

3)     disporre l’accesso dei propri impiegati presso le banche e gli uffici postali, limitatamente a due ipotesi tassative, ovvero quando la copia dei conti non sia stata trasmessa o sia pervenuta oltre i termini di legge oppure quando vi sia il fondato sospetto che i dati contenuti nelle copie trasmesse siano inesatti o incompleti.

L’art. 3, comma 177, della legge n. 549/1995 ha, inoltre, introdotto all’art. 51 del D.P.R. n. 63372 il nuovo comma 6 bis, che riconosce alle Autorità suddette la facoltà di richiedere al contribuente una autocertificazione, attestante i rapporti da questi intrattenuti con gli istituti di credito nell’ultimo quinquennio, specificandone natura, numero ed estremi identificativi: presupposto per l’inoltro della richiesta è, comunque, l’attivazione di un accertamento, ispezione o verifica a carico del contribuente.

Ferma restando la limitata incidenza nel settore tributario del principio di tutela del segreto bancario, occorre puntualizzare alcuni aspetti rilevanti.

Innanzitutto, i dati e le informazioni raccolti durante le indagini bancarie devono rimanere riservati, a norma dello stesso art. 18, comma 4, della L.n. 413/1991, secondo il quale l’organo dal quale promana l’autorizzazione deve dare dettagliate disposizioni circa l’utilizzo corretto dei dati raccolti.

La banca, inoltre, in caso di accertamenti dell’Autorità finanziaria, contrariamente a quanto accade nel procedimento penale, è tenuta ad informare il proprio cliente delle indagini in corso, al fine di metterlo in condizione di poter intervenire.

Eventualmente assistito, nella procedura per far valere le proprie ragioni, instaurando una sorta di contraddittorio con l’Amministrazione.

Il provvedimento di autorizzazione deve, infine, essere motivato specificamente ed adeguatamente.

 

 

4. La pronuncia della Corte di Cassazione, n°12813 del 27 settembre 2000

Il Supremo Collegio, con la pronuncia in esame, ha confermato che “legittimamente l’Amministrazione può, quando procede alla ricostruzione del reddito di un contribuente, utilizzare dati anche bancari acquisiti presso altri contribuenti, senza che sussista alcun obbligo di contestare tali dati al contribuente o agli estranei presso cui sono stati acquisiti”.

Tale affermazione, che ad avviso della Corte rappresenta ormai jus receptum, viene però stavolta accompagnata da una precisazione molto rigida nei confronti dell’Amministrazione.

Si tratta di un temperamento da tempo atteso per evitare l’indiscriminato utilizzo dei dati acquisiti presso terzi, che talvolta sottendono il rischio di contestazioni assolutamente infondate, che rischiano, tuttavia, di ricadere nella sfera di responsabilità del contribuente verificato.

Si prevede, infatti, che in sede giudiziaria debba esservi un’attenta valutazione degli elementi così raccolti ed acquisiti e, in particolare, è stabilito a carico dell’Amministrazione stessa l’onere di provare, anche sulla base di presunzioni, la correlazione tra i movimenti bancari relativi al conto personale di un terzo ed il contribuente accertato.

La Corte richiama, cioè, ad un miglior impegno i giudici tributari di merito nel valutare gli elementi che l’Ufficio porti quali fondanti l’accertamento bancario, imponendo all’Amministrazione di provare in giudizio, secondo le ordinarie regole, la riferibilità dei movimenti del terzo all’attività economica del soggetto interessato dall’accertamento.

E’ richiesto, quindi, un elemento ancora più specifico ed ulteriore rispetto all’ordinaria prova presuntiva: deve essere valutato se le operazioni economiche documentate tra il terzo ed il ricorrente siano inerenti all’attività d’impresa; ad esempio, perché intercorse tra imprenditori con reciproco rapporto di clientela o del medesimo settore merceologico.

La Suprema Corte ha, dunque, posto un giusto limite di concretezza al temuto indiscriminato utilizzo dei dati bancari, mediante la restrizione delle presunzioni applicabili ai dati che possano essere ritenuti formalmente intestati a terzi ma, di fatto, riferibili al contribuente soggetto all’accertamento, superando, così, l’apoditticità di conclusioni meramente presuntive ed imponendo un imprescindibile, preventivo controllo di merito al giudice, circa la connessione oggettiva tra tali soggetti.

Il precedente indirizzo giurisprudenziale, infatti, partendo dall’analisi degli artt. 32, comma 7, D.P.R. 600/1973 e 51, comma 7, D.P.R. 633/1972, aveva, via via, permesso un’applicazione semplicistica dei principi in essi riportati, dimostrando scarsa sensibilità per le garanzie difensive del contribuente.

Si ricordi, a questo proposito, la tendenza consolidata a considerare imputabili alla società, che fosse di persone o di capitali, i risultati delle verifiche esperite sui conti dei soci, sulla base di presunzioni relative, mantenendo in capo ai soci l’onere di dimostrare l’inesistenza di correlazione fra i movimenti bancari accertati sui propri conti personali e l’attività imprenditoriale della società; ovvero, la legittimazione dell’accertamento fondato sui conti del coniuge, ove il contribuente non fornisse la prova contraria e fatti salvi i casi di assoluta estraneità della sua attività a quella imprenditoriale o professionale del coniuge.

Tutto ciò si interseca, oggi, inoltre, con l’altrettanto recente sentenza della Corte di Cassazione 1° aprile 2003, n. 4987, con cui è stata, tra l’altro, confermata a carico degli amministratori di società di persone la presunzione legale di collegamento, che renderebbe acquisibili e, quindi, direttamente utilizzabili nei confronti della società i loro dati bancari.

Un principio severo quest’ultimo e diametralmente opposto rispetto a quanto accadrebbe per le società di capitali: per queste ultime i soci, persone fisiche, e gli amministratori sono effettivamente terzi rispetto alla persona giuridica contribuente, mentre nelle s.n.c. e nelle s.a.s. si determina una sorta di “confusione”, che rende omogenei il trattamento e le garanzie degli uni e dell’altra.

La portata dell’attuale sentenza è, dunque, di enorme rilevanza, dal momento che si superano, in modo chiaro e definitivo, le distorsioni e le illegittimità che il precedente orientamento poteva comportare.

Si pensi al caso, già prospettato, dell’esecuzione di indagini bancarie sui conti personali dei soci di una società di capitali verificata dal Fisco: ritenere che il conto corrente di un soggetto sia collegabile ex abrupto alle movimentazioni di un distinto soggetto di diritto, al fine di presumere ricavi non contabilizzati da quest’ultimo, sulla sola base di convinzioni personali degli organi verificatori, senza che gli stessi forniscano alcuna prova dell’esistenza di un’interposizione soggettiva nella titolarità dei conti verificati, non è più possibile.

Ciò rappresenta, peraltro, un classico caso di violazione del divieto della praesumptio de praesumpto, dando luogo ad una illegittima compressione del diritto del contribuente a fornire la prova contraria.

La Corte non ha tuttavia ritenuto sufficiente, al fine di consentire l’utilizzabilità di detti elementi, il fatto che i dati bancari dimostrino tale tipo di correlazione.

E’ cioè necessario consentire al contribuente un’ulteriore forma di garanzia, consistente in una difesa fondata anche su dichiarazioni.

E’ questa la parte più “forte” della sentenza in commento, che, in un processo tipicamente scritto, quale quello tributario, con divieto di prova testimoniale, consente di produrre copia di dichiarazioni rese dallo stesso terzo, in relazione all’illustrazione della natura delle movimentazioni di conto che l’inquirente intenderebbe addebitare al verificato.

Enunciando un significativo ed ulteriore principio, la giurisprudenza del Supremo Collegio statuisce, infatti, che “in simile valutazione si dovrà ovviamente consentire al contribuente di addurre elementi a sostegno delle proprie tesi e debbono essere prese in considerazione anche eventuali dichiarazioni del terzo”.

Tali dichiarazioni, si precisa, potranno anche essere fornite al contribuente direttamente o a chi lo assiste; infatti, “se è vero che nel processo tributario non sono ammesse le testimonianze, è però anche vero che la giurisprudenza ammette pacificamente che possano essere introdotte nel giudizio dichiarazioni extraprocessuali, e non vi è motivo -specie in un sistema processuale fondato sulla parità delle parti- per limitare simile rilevanza alle dichiarazioni rese all’Ufficio finanziario o alla Guardia di finanza”.

E’, pertanto, in tal guisa richiamato il principio della parità di trattamento delle parti nel processo, esplicitato, peraltro, dall’art. 111 della Costituzione: il “giusto processo” si fa quindi strada anche nel contenzioso tributario. Inoltre, si considerano pacificamente ammesse in giudizio, quali elementi di valutazione anche a favore del contribuente, le dichiarazioni extraprocessuali (per esempio, gli atti notori).

Ovviamente, non possono essere considerate di pari valore lettere e dichiarazioni prodotte direttamente dal privato e quelle rese all’Amministrazione finanziaria e da questa verbalizzate: sorgerebbe, infatti, un problema di attendibilità delle stesse, in quanto rese al di fuori del controllo dell’Autorità pubblica.

La sentenza risolve la difficoltà osservando che, comunque, in caso di dubbio, rimane aperta per le Commissioni tributarie la possibilità di ricorrere ai poteri concessi dall’art. 7, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, chiedendo alla Guardia di finanza di raccogliere le dichiarazioni di terzi, in modo da renderle paritarie rispetto a quelle raccolte direttamente dall’Ufficio. Gli accertamenti bancari continuano, senza alcun dubbio, a costituire uno dei leitmotiv del contenzioso tributario ed amministrativo.

Ad onor del vero, non è difficile comprenderne le ragioni.

Molto spesso, infatti, proprio grazie a questo importantissimo strumento istruttorio, l’Amministrazione finanziaria è in grado di formulare contestazioni di estremo rilievo nei confronti di contribuenti per così dire “riottosi”.

Non sfugge che proprio gli accertamenti bancari, grazie all’apparato normativo che li disciplina, costituiscono per il Fisco un formidabile grimaldello per scardinare la posizione fiscale di soggetti che ostentano una contabilità formalmente ineccepibile.

E, a parte il discorso che potrebbe aprirsi in relazione ai parametri o agli studi di settore, non c’è dubbio che, nel nostro assetto, il potere di investigare presso le banche e gli altri intermediari finanziari integra una delle poche possibilità che l’ordinamento riconosce al Fisco di far prevalere, in qualche misura, la sostanza sulla forma.

Certamente, la Corte di Cassazione, almeno nel periodo più recente, sembra orientata nel senso di un approccio, per così dire, più anglosassone (nel senso della prevalenza della sostanza sulla forma) al problema fiscale e un chiaro esempio di questo nuovo atteggiamento appare costituito dalle sentenze che ammettono la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di sindacare le scelte antieconomiche dell’imprenditore.

Tuttavia, a parte le pronunce della Cassazione, più o meno condivise dalla dottrina, il punto fermo continua ad essere costituito dalle disposizioni normative, che appaiono piuttosto ancorate a garantire, di massima, il principio secondo cui sono i verificatori del Fisco a dover smentire l’assunto contabilmente documentato dal contribuente; il che, in un assetto che vuole fortemente (e fortunatamente) privilegiare la certezza del diritto, appare certamente condivisibile, sia pure con i temperamenti resi necessari da talune situazioni specifiche.

Le indagini bancarie hanno costituito, sin dall’attuazione della riforma tributaria risalente ormai ad oltre venti anni addietro, uno dei più incisivi strumenti a cui il Fisco ha fatto costantemente ricorso, anche attraverso un lungo e non sempre agevole processo di limitazione dei rigori dell’istituto del segreto bancario, nel tentativo di arginare, o quanto meno di contrastare, il dilagante fenomeno dell’evasione fiscale ed agevolare il controllo della posizione reddituale del contribuente e la ricostruzione della materia imponibile sottratta a tassazione.

Come si avrà modo di approfondire nel prossimo paragrafo, sulla tematica del segreto bancario è intervenuta – con la sentenza del 03 febbraio 1992, n. 51 – la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla illegittimità, per eccesso di delega, in relazione alla L. 825/1971, dell’art. 33, terzo comma, del D.P.R. 600/1973 e dell’art. 63, primo comma, del D.P.R. 633/1972, nella parte in cui le predette norme abilitano la Guardia di Finanza a trasmettere agli Uffici finanziari informazioni, dati o documenti acquisiti nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria.

In tale circostanza, la Corte, facendo parlare di piena “penetrabilità” dei rapporti tra banca e cliente da parte dell’Amministrazione finanziaria, ha escluso la illegittimità costituzionale dei suddetti articoli, interpretando gli stessi nel senso che la trasmissione di dati ed informazioni acquisiti ad opera della Guardia di Finanza nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria non conosce limiti dinanzi al segreto bancario, il quale non può, in alcun modo, sussistere di fronte all’attività di prevenzione e di repressione dei reati .

 

5. L’intervento della Corte Costituzionale e la tutela della riservatezza

Si è sopra accennato, nell’ambito dell’acceso dibattito sulla natura e sul fondamento del segreto bancario, all’intervento della Corte Costituzionale, con la sentenza del 3 febbraio 1992, n. 51, nella quale, in linea con l’orientamento della dottrina di stampo privatistico ed aderendo ad analoga, pregressa giurisprudenza della Cassazione, il segreto bancario è definito come

“un dovere di riserbo cui sono tradizionalmente tenute le imprese bancarie in relazione alle operazioni, ai conti ed alle posizioni concernenti gli utenti dei servizi da essi erogati.

A tale dovere, tuttavia, non corrisponde nei singoli clienti delle banche una posizione giuridica soggettiva costituzionalmente protetta, né, men che meno, un diritto della personalità, poiché la sfera di riservatezza con la quale vengono tradizionalmente circondati i conti e le operazioni degli utenti dei servizi bancari è direttamente strumentale all’obiettivo della sicurezza e del buon andamento dei traffici commerciali” [7].

L’interesse tutelato dal segreto bancario è, in definitiva, identificato con la sfera di riservatezza che circonda i rapporti economici dei singoli individui; in altri termini, l’intervento della Corte Costituzionale mira a riportare il segreto bancario medesimo nell’ambito dei rapporti economici suscettibili di soggiacere a limitazioni, di fonte legislativa, da parte dei pubblici poteri, qualora intervengano finalità di più ampio interesse sociale .

Nella sentenza in esame, la Corte stabilisce, inoltre, la subordinazione del dovere di riservatezza connesso con il segreto bancario

“all’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà, primo fra tutti quello di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva”,

nonché

“all’attuazione di esigenze costituzionali primarie, come quelle connesse all’amministrazione della giustizia e, in particolare, alla persecuzione dei reati”.

“In altri termini – prosegue la Corte Costituzionale – alla riservatezza cui le banche sono tenute nei confronti delle operazioni dei propri clienti non si può applicare il paradigma di garanzia proprio dei diritti di libertà personale, poiché alla base del segreto bancario non ci sono valori della persona umana da tutelare: ci sono, più semplicemente, istituzioni economiche e interessi patrimoniali, ai quali quel paradigma non è applicabile”.

Si afferma, tuttavia, a tal proposito, come risulti invero eccessivo far derivare dalle asserzioni sopra riportate l’inesistenza di qualsiasi interesse costituzionalmente rilevante ai fini del segreto bancario o, meglio, della riservatezza dei rapporti bancari.

Come è stato, infatti, sottolineato in dottrina, con la sentenza de qua la Corte ha interpretato legittimamente il ruolo di arbitro dei conflitti tra princìpi costituzionali, individuando le regole necessarie per mediare tra le diverse esigenze statuite dall’ordinamento: da un lato, quella del necessario concorso alle spese pubbliche – e, quindi, della equa e corretta determinazione del carico impositivo – ed all’accertamento degli eventuali illeciti, e dall’altro, quella della salvaguardia del risparmio e della tutela della riservatezza .

D’altronde, si argomenta come le particolari autorizzazioni nonché i rigorosi vincoli dettati dalla normativa vigente a difesa di un uso riservato dei dati bancari non sarebbero giustificati, considerando le problematiche operative e le lungaggini che tali cautele comportano, se non in base ad esigenze superiori: queste ultime sono ricondotte alla tutela della riservatezza, ex artt.13 e 14 della Costituzione ed alla tutela del risparmio, ex art. 47 della Carta costituzionale.

Con riferimento a quanto di più stretto interesse ai fini dell’argomento in trattazione, risulta evidente come la L. 413/1991 ha avuto come ratio proprio quella di superare la logica del “segreto” che aveva vincolato, di fatto, l’attività degli organi ispettivi e realizzare un sistema fondato sulla chiarezza e sulla trasparenza dei flussi finanziari in grado di inibire agli evasori fiscali ed alla criminalità economica il facile ricorso a sin troppo comodi e discreti schermi.

La nuova disciplina, riconoscendo prevalenti le esigenze di conoscenza delle effettive posizioni finanziarie dei soggetti sottoposti a controllo costituisce, quindi, una decisa inversione di tendenza nei rapporti tra Fisco e contribuente ma proprio a tale scopo la stessa ha, opportunamente, previsto anche un complesso di precise e definite regole finalizzate a garantire la correttezza e la limpidezza dei comportamenti nei confronti non soltanto delle aziende e degli istituti di credito ma, soprattutto, dello stesso contribuente interessato dall’esecuzione degli accertamenti bancari.

 

6.      L’autorizzazione alla richiesta della copia dei conti ed i soggetti passivi dell’indagine bancaria

Prima di affrontare il tema della tutela del contribuente “coinvolto” nell’esecuzione di una indagine bancaria, giova brevemente soffermarci sull’autorizzazione alla richiesta della copia dei conti e chiarire, nel contempo, quali siano i soggetti passivi degli accertamenti di tale tipo effettuati dagli organi del Fisco.

L’avvio di un’indagine bancaria – secondo quanto previsto dall’art. 51, secondo comma, n. 7 del D.P.R. 633/1972 e dall’art. 32, primo comma  n. 7 del D.P.R. 600/1973, – è caratterizzato dalla trasmissione di una apposita richiesta, da parte dell’organo ispettivo procedente, all’autorità competente al rilascio della preventiva autorizzazione: si tratta del Direttore Regionale delle Entrate, se a procedere è un ufficio finanziario, del Comandante di zona della Guardia di Finanza, se ad effettuare gli accertamenti di cui trattasi è un reparto del Corpo ovvero il Direttore del Secit, nei casi in cui l’iniziativa sia assunta da ispettori del predetto organo.

È evidente come, posto che all’autorizzazione è stata riconosciuta dalla stessa Amministrazione finanziaria (C.M. n.116/E del 10 maggio 1996) natura di atto “prevalentemente discrezionale”, sia necessario che l’istanza, finalizzata ad ottenerne il rilascio, debba essere adeguatamente motivata in merito alle effettive ragioni ed alle reali circostanze di fatto che inducono ad intraprendere la specifica indagine bancaria, permettendo al soggetto investito del vaglio della richiesta di esercitarne il sindacato, sia di legittimità che di merito, e di esprimere un adeguato apprezzamento, anche in relazione alla prevedibile proficuità ai fini degli esiti del controllo .

L’autorizzazione, a sua volta, assolve al duplice ruolo di atto  legittimante l’esecuzione degli accertamenti bancari e di atto di controllo della conseguente corretta utilizzazione: il predetto documento autorizzativo rappresenta, quindi, non già un mero atto dovuto ma, come detto, un atto di natura discrezionale, che può essere non concesso in tutti i casi in cui sia rilevata l’assenza delle condizioni motivanti il ricorso allo specifico strumento istruttorio.

Nella richiesta di autorizzazione, è necessario, altresì, indicare gli estremi identificativi del soggetto passivo dell’indagine (di cui si dirà più avanti), il periodo temporale cui gli accertamenti si riferiscono, gli istituti di credito e gli uffici dell’Amministrazione postale cui si intende rivolgere la richiesta, indicando i motivi che giustificano l’estensione degli accertamenti in parola all’intero territorio nazionale.

 

A cura di Maurizio Villani

 

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