L’accertamento di un maggior reddito in capo all’impresa familiare va imputato interamente al titolare, senza coinvolgere i collaboratori.
In caso di accertamento di un maggior reddito imprenditoriale, lo stesso deve essere riferito soltanto al titolare dell’impresa familiare e non “pro quota” agli altri familiari collaboratori aventi diritto alla partecipazione agli utili dell’azienda; il principio vale in quanto è diversa la natura del reddito tra quello del titolare e quello dei collaboratori.
Come funziona l’impresa familiare?
Nell’impresa familiare collaborano i familiari dell’imprenditore (coniuge, parenti entro il terzo grado, affini entro il secondo grado), prestando in modo continuativo la propria attività lavorativa, a fronte del riconoscimento del diritto al mantenimento e alla partecipazione agli utili e agli incrementi dell’impresa.
L’impresa familiare si caratterizza per l’assenza di un vincolo societario e dalla insussistenza del rapporto di lavoro subordinato tra l’imprenditore e i suoi familiari.
Sebbene per la costituzione dell’impresa familiare non siano richiesti specifici requisiti di forma, l’art. 5 comma 4 del TUIR prevede, tra le condizioni necessarie a ripartire il reddito dell’impresa tra titolare e collaboratori, che i familiari partecipanti risultino nominativamente, con l’indicazione del rapporto di parentela con l’imprenditore, da atto pubblico o scrittura privata autenticata avente data anteriore all’inizio del periodo di imposta.
Nell’ambito della impresa familiare, ai partecipanti familiari va riconosciuto il diritto ad una quota di utili maturati in capo all’imprenditore (titolare).
NdR: vedi, ad esempio, la partecipazione agli utili del familiare convivente
Il caso: accertamento di maggiore reddito verso un’impresa familiare
Un caso affrontato dalla Suprema Corte riguarda la fattispecie in cui il titolare riceveva un avviso di accertamento relativo ad un maggior reddito, che gli veniva interamente attribuito.
Avverso tale operazione, egli proponeva ricorso, sostenendo che non era corretta l’imputazione al solo titolare dei redditi prodotti dall’impresa familiare.
Il ricorso, rigattato in sede di giudizio di merito, arriva appunto alla Cassazione.
I giudici di legittimità, con l’ordinanza n. 8582/23, hanno ritenuto il ricorso del tutto infondato nel merito.
In ciò la Corte ha richiamato i propri precedenti, in virtù dei quali
“in materia di impresa familiare, il reddito percepito dal titolare […..] costituisce un reddito d’impresa, mentre le quote spettanti ai collaboratori – che non sono contitolari dell’impresa familiare – costituiscono redditi di puro lavoro, non assimilabili a quello di impresa, e devono essere assoggettati all’imposizione nei limiti dei redditi dichiarati dall’imprenditore” (Cassazione, pronuncia n. 34222/19).
In altre parole, dal mero punto di vista fiscale, in caso di accertamento di un maggior reddito imprenditoriale, lo stesso deve essere riferito soltanto al titolare dell’impresa, rimanendo escluso che possa essere attribuito “pro quota” agli altri familiari collaboratori aventi diritto alla partecipazione agli utili d’impresa.
L’imprenditore è unico e il reddito dei collaboratori, essendo da lavoro, va ragguagliato a quanto l’imprenditore stesso ha dichiarato di aver assegnato loro (Cassazione, ordinanza n. 9198/22).
a cura di Danilo Sciuto
Giovedì 13 Luglio 2023