Principio
I costi fiscalmente non deducibili sono, per loro natura, costi neutrali ai fini fiscali, nel senso che di essi non è dato tener conto ai fini della determinazione della base imponibile, la quale è comunque alterata in caso di costi erroneamente ritenuti deducibili, con conseguente inevitabile ricaduta sulla quantificazione delle imposte dovute.
I costi fiscalmente non deducibili sono equiparabili a maggiori ricavi in nero e pertanto con riferimento ai primi è ipotizzabile una loro distribuzione ai soci in nero. Tale assunto è stato precisato dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 25501 del 12 novembre 2020.
Vicenda
Il giudice del gravame, ribaltando la sentenza di primo grado, ha ritenuto che il contribuente, socio al 50% di una società di capitale, società a ristretta base partecipativa, aveva l'onere di provare che i maggiori redditi accertati nei confronti della società anzidetta per il 2009 non erano stati da lui percepiti nella misura della sua partecipazione al capitale sociale.
Con il ricorso per cassazione il predetto socio ha impugnato la sentenza di gravame sulla base delle seguenti censure.
"Secondo la giurisprudenza di legittimità, poteva parlarsi di distribuzione di utili ai soci in una società a ristretta base azionaria solo in presenza di maggiori ricavi in nero, atteso che solo in tale ipotesi poteva ritenersi che maggiori somme di danaro fossero entrate nelle casse della società, con conseguente ragionevole presunzione di distribuzione di somme ai soci, mentre, nel caso in esame, erano stati accertati solo costi non deducibili, dai quali non era dato presumere che nelle casse della società fossero entrate maggiori somme di danaro; l'ufficio avrebbe dovuto comunque offrire ulteriori elementi per far ritenere effettiva un'ipotetica distribuzione di utili ai soci, incombendo sull'ufficio l'onere di fornire indici concreti, tali da far presumere che il socio avesse conseguito, pro quota, il maggior reddito accertato nei confronti della società; nella specie, inoltre, non era stato applicato in modo corretto il meccanismo della prova presuntiva, in quanto l'ufficio, se voleva avvalersi dello strumento della presunzione, era tenuto a dimostrare che l'esistenza del fatto ignoto (e cioè il conseguimento, da parte del socio, prò quota, del maggior reddito accertato nei confronti della società) fosse l'unica conseguenza logica della premessa, costituita dall'accertamento in capo alla società di operazioni non deducibili, mentre erano al contrario ipotizzabili conclusioni diverse, quali la creazione di riserve occulte da parte della società, ovvero l'appropriazione indebita di utili da parte di soci disonesti; l'ufficio non aveva pertanto assolto all'onere probatorio su di esso gravante di provare l'effettivo trasferimento diretto od indiretto di utili ai soci; la CTR aveva infine violato il divieto di presunzioni di secondo grado, fondate cioè su altre presunzioni, atteso che, in tal modo, sarebbe diminuito il livello di attendibilità del meccanismo presuntivo, con conseguente violazione del diritto di difesa del contribuente”.
Pronuncia
Gli Ermellini, con la pronuncia citata, hanno respinto per infondatezza il ricorso in cassazione del contribuente sulla base delle seguenti argomentazioni.
Secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 20851 del 2005; Cass. n. 1947 del 2019), nel caso di società a ristretta base partecipativa, è da ritenere pienamente ammissibile la presunzione di distribuzione ai soci [1] di utili non contabilizzati dalla società; detta presunzione non viola la regola del divieto di presunzione di secondo grado, in quanto il fat