Secondo il fisco il fornitore è responsabile dei controlli sulla veridicità della dichiarazione di intenti presentata dall’esportatore abituale, anche se ha effettuato una verifica meramente formale sulla dichiarazione di intento: l’Agenzia ritiene che il cedente potrebbe trovarsi a subire pesanti sanzioni dall’amministrazione finanziaria non solo nelle ipotesi di collusione – e, quindi, frode – poste in essere con l’esportatore, ma, paradossalmente, anche in quelle in cui è egli stesso ad essere raggirato.
Falsità della dichiarazione di intenti: prassi operativa
In sede di verifica[1], talvolta, emerge che la verificata ha utilizzato le dichiarazioni di intento per emettere fatture senza addebito di imposta per cessioni mai effettuate nei confronti di esportatori.
Tale condotta, di per se stessa, legittima la contestazione relativa dall’aver effettuato operazioni imponibili senza addebitare l’imposta ed effettuare la rivalsa obbligatoria (art. 18 DPR 633/1972) con ciò procurandosi così un indebito vantaggio rappresentato dal credito IVA pari all’imposta afferente alle operazioni artatamente qualificate come non imponibili.
Tale rilievo legittima il recupero di imposta e l’irrogazione della sanzione per infedeltà della dichiarazione.
L’accertamento si fonda su una cessione di beni fatturati dal verificato(fornitore) come non imponibili (articolo 8, comma 2, Dpr 633/1972) sulla base di una dichiarazione in tal senso rilasciata dall’acquirente, rivelatasi poi non veritiera e fraudolenta.
Il recupero dell’Iva si fonda su un’utilizzazione strumentale da parte della cedente, stante l’assenza dei presupposti fissati dalla legge del sistema di non imponibilità previsto per le cessioni all’esportazione fondate sulla dichiarazione di intento resa dal cessionario che, nella fattispecie, è una mera società filtro (“cartiera”), creata al solo scopo di evitare il pagamento dell’imposta.
Gli elementi raccolti dai verificatori denunciano, in alcuni casi, un anomalo comportamento omissivo in capo alla verificata che mai si è «preoccupata» di usare né la diligenza professionale né la diligenza «minima» del buon padre di famiglia onde qualificare ed identificare esattamente gli operatori economici con cui ha operato ovvero denunciano che la verificata “non poteva non sapere”.
Secondo i verificatori gli emittenti le dichiarazioni di intento: non hanno mai effettuato esportazioni, non presentano dichiarazioni, non effettuano versamenti, non depositano i bilanci, sono sconosciuti presso le sedi legali dichiarate.
Sono quindi privi di strutture idonee allo svolgimento di attività commerciali e, nel caso specifico, anche solo di spazi idonei ad accogliere e stoccare gli ingenti quantitativi di merci vendute dalla verificata.
Secondo i verificatori sussistono elementi rivelatori della presumibile consapevolezza, e cioè che: le società cessionarie “esportatrici abituali” erano cartiere prive di strutture e personale; i pagamenti di tali società cartiere erano effettuati in contanti.
Se desideri approfondire…“Falsità della dichiarazione di intenti”
Responsabilità e difesa del fornitore secondo la giurisprudenza
In materia di Iva, la consapevolezza da parte del soggetto che opera una cessione di beni della falsità della dichiarazione d’intenti, emessa da una persona dichiaratasi esportatore abituale, legittima il recupero, in capo allo stesso cedente, dell’imposta evasa (Cassazione sentenza 23610 dell’11 novembre 2011).
Parlando di cessioni all’esportazione nei confronti di esportatori abituali, la