Si possono recuperare a tassazione i redditi ritenuti provenienti da reato?
Il c.d. “pretium sceleris” si deve considerare come reddito imponibile e ciò pure se il contribuente sia stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate ed al risarcimento dei danni cagionati?
I proventi illeciti, qualora non sequestrati né confiscati, costituiscono, “per il soggetto che li ha conseguiti, reddito imponibile, facendo sorgere a suo carico i connessi obblighi contabili e obblighi dichiarativi”?
Il presente contributo risponde ai dubbi in tema di proventi da fatti illeciti, alla luce di recenti interventi del giudice di legittimità
Proventi da fatti illeciti: premessa
Il profitto deve essere identificato col vantaggio economico (es. risparmio d’ imposta conseguito dal contribuente a seguito della registrazione di fatture di acquisto per operazioni oggettivamente inesistenti)[1]ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone al “prodotto” e al “prezzo” del reato.
Il prodotto è il risultato empirico dell’illecito, cioè le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato; il prezzo va individuato nel compenso dato o promesso ad una determinata persona, come corrispettivo dell’esecuzione dell’illecito (Cassazione, sezioni unite, pronuncia 1811/1993).
Il prezzo è coincidente con quanto promesso ad un soggetto affinchè realizzi un reato; il prodotto è quanto derivato dal compimento dell’illecito; infine il profitto consiste nei guadagni o vantaggio economico, non esclusivamente patrimoniali, conseguenti al compimento del reato (ad es. il provento della vendita di un bene precedentemente rubato).
Il “prezzo del reato” è stato poi ulteriormente definito come un fattore che incide esclusivamente sui motivi che hanno spinto l’interessato a commettere il reato (Cassazione, sezioni unite, pronuncia 9149/1996).
Il profitto del reato come qualsiasi vantaggio patrimoniale derivante dall’imposta evasa, si concretizza sostanzialmente “in un risparmio economico da cui consegue, comunque, la effettiva sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, dei quali direttamente beneficia l’autore”[2].
Il “pretium sceleris” va considerato reddito imponibile
In tema di imposte sui redditi, l’art. 14, quarto comma, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, laddove stabilisce che nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, primo comma, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo, costituisce non soltanto interpretazione autentica della normativa con- tenuta nel d.P.R. n. 917 del 1986, ma anche criterio ermeneutico decisivo per giungere ad identica conclusione con riguardo alla previgente disciplina degli artt. 1 e 6 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, attesa la sostanziale identità della disciplina in ordine alla determinazione dei presupposti della tassazione. Ne consegue che il c.d. “pretium sceleris” si deve considerare come reddito imponibile (anche nel vigore del d.P.R. n. 597 del 1973), e ciò pure se il contribuente sia stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate ed al risarcimento dei danni cagionati (Corte di Cassazione ordinanza n. 27357 depositata il 24 ottobre 2019).
Profitto derivante dal delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti
Il profitto derivante dal delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti è costituito dal prezzo ottenuto per l’emissione delle fatture stesse, ossia dal compenso pattuito o riscosso per eseguire tale reato.
Il compenso può consistere nel denaro, come la maggior parte delle volte accade, ovvero in qualsiasi altra utilità, economicamente valutabile e immediatamente o indirettamente derivante dalla commissione del reato (Terza sezione della Corte di cassazione sentenza n. 270 del 9 gennaio 2018).
Proprio con riferimento al profitto personale del soggetto emittente, la Cassazione ha chiarito che tale profitto non coincide né con il valore complessivo delle fatture emesse per le operazioni inesistenti, né con il valore corrispondente al profitto conseguito dall’utilizzatore delle stesse fatture, “in quanto il regime derogatorio previsto dall’art. 9 D.Lgs. n. 74 del 2000 – escludendo la configurabilità del concorso reciproco tra chi emette le fatture per operazioni inesistenti e chi se ne avvale – impedisce l’applicazione in questo caso del principio solidaristico, valido nei soli casi di illecito plurisoggettivo” (cfr in tal senso Cassazione, 43952/2016, 30168/2015 e 42641/2013).
La Cassazione ha, dunque, concluso nel senso che il profitto del delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti “è costituito dal prezzo ottenuto per l’emissione delle fatture, cioè dal compenso pattuito o riscosso per eseguire il delitto, che può consistere tanto in un compenso in denaro, come per lo più accade, o in qualsiasi altra utilità, economicamente valutabile ed immediatamente o indirettamente derivante dalla commissione del reato” (sulla questione cfr anche Cassazione, 35459/2016).
Più precisamente ai fini della discipli