Fiscalità indiretta del TRUST: ancora una nuova Cassazione

E’ apparsa ancora una nuova sentenza della Cassazione in tema di fiscalità indiretta del trust che assume un particolare interesse, pur presentando dei passaggi poco chiari, in quanto emanata lo stesso giorno di altra sentenza. Vi è contiguità tra le due sentenze, pertanto andiamo a tratteggiarne i contenuti al fine di delineare il caso oggetto di analisi

E’ apparsa ancora una nuova sentenza della Cassazione in tema di fiscalità indiretta del trust che assume un particolare interesse, pur presentando dei passaggi poco chiari, in quanto è stata emanata dalla stessa Sezione (la quinta), e con lo stesso giorno di udienza, che ha emanato la sentenza 15469 che abbiamo già avuto modo di commentare, peraltro apprezzandone il contenuto in un precedente intervento[1].

Tale contiguità tra le sentenze offre lo spunto per usare quale ausilio interpretativo della n. 15.468 la coeva e più articolata sentenza 15.469.

Prima di approcciare pertanto il caso oggetto di analisi, è opportuno tratteggiare brevemente il contenuto della sentenza n. 15.469 già commentata.

 

La sentenza n. 15469/2018

La sentenza ha il chiaro pregio di evidenziare quello che appare l’Orientamento dei giudici, incasellando in un percorso coerente anche gli interventi pregressi.

Nel caso di specie, relativo ad un apporto in trust ante D.L. 262/2006, l’Ufficio pretendeva l’applicazione dell’imposta di registro proporzionale nella misura del 3%, in quanto ha inquadrato il trust tra gli altri atti a titolo oneroso.

La Commissione Tributaria Regionale del Lazio (Sez. Latina), dopo aver escluso l’assimilazione del Trust al Fondo patrimoniale, così come alla donazione, ha affermato che esso deve definirsi “un negozio giuridico a contenuto patrimoniale” per il quale tuttavia occorre valutarne la patrimonialità non ai sensi dell’art. 1321 c.c. “ma sotto il profilo del diritto tributario”.

La patrimonialità, sotto il profilo tributario, si declina nella “valenza economica e la sua idoneità a determinare accrescimento economico”.

Questa valenza economica, secondo la CTR, è da escludere nel Trust

“il quale determina un diverso assetto degli interessi e delle facoltà scaturenti da un diverso e peculiare statuto proprietario, i quali, per sè, non determinano alcuna conseguenza economica nella sfera delle parti contraenti, ma sono esclusivamente destinati a disciplinare la gestione della proprietà in maniera radicalmente diversa da quella propria della tradizionale figura romanistica…”.

La CTR statuisce, quindi, l’applicazione dell’imposta di registro in base alla categoria residuale disciplinata dall’art.11 della tariffa stessa allegata al D.P.R. n. 131 del 1986 e cioè l’imposta nella misura fissa.

Anche la Cassazione decide in senso favorevole al contribuente ripercorrendo la storia delle sentenze.

Innanzitutto viene smontata la tesi che il trust costituisca un atto a contenuto patrimoniale.

Infatti, si legge che “quanto, in primo luogo, alla qualificazione del Trust, recante la costituzione “di un vincolo di destinazione”, ha osservato questa Corte con sent. n. 21614/2016 che, pur volendo tenere presente che, ai sensi della L. n. 286 del 2006, art. 2, comma 47 (recante legge sulle successioni e donazioni), anche per “i vincoli di destinazione” è prevista un’imposta, è comunque da escludere che “il conferimento dei beni in trust dia luogo ad un reale trasferimento imponibile”, perchè contrario

“al programma negoziale di donazione indiretta per cui è stato predisposto e che prevede la temporanea preservazione del patrimonio a mezzo della sua segregazione fino al trasferimento vero e proprio a favore dei beneficiari” (così Cass. n. 21614/2016)”.

 

Viene, inoltre, segnalato un altro recente intervento (sent. n. 975/2018), sempre relativo ad una disposizione in trust ante reintroduzione dell’imposta di donazione, dove si afferma che l’art. 9 della tariffa

“rappresenta una clausola di chiusura finalizzata a disciplinare tutte le fattispecie fiscalmente rilevanti, diverse da quelle indicate nelle restanti disposizioni purché però onerose e in questo specifico senso aventi contenuto patrimoniale”.

 

La sentenza n. 15.469/2018 crea quindi una connessione e una continuità tra il periodo ante D.L. 262/2006 ed il periodo successivo.

I giudici sembrano quindi aver recepito quanto sostenuto da autorevole dottrina secondo cui, leggendo la Sentenza 975,

“sarebbe errato ritenere la sentenza 975/18 irrilevante perché riferita a un panorama normativo ora superato perché poco importa quale sia l’imposta applicabile (allora si parlava di registro, oggi si parla di donazione) in quanto ciò che rileva è se l’atto di dotazione abbia rilevanza patrimoniale, e cioè scateni un’imposta proporzionale o se si tratti di un mero momento transitorio in vista dell’attribuzione finale che il trustee compirà a favore dei beneficiari del trust all’esito del suo mandato”[2].

 

Ebbene, la Cassazione si schiera decisamente in quest’ultimo senso, quasi a far proprio il pensiero dell’Autore. Infatti, pur avendo ad oggetto un caso ante D.L. 262, si pone anche in un’ottica di imposta di donazione richiamando la sentenza n. 21.614/2016 e proponendo una sorta di continuità tra la disciplina ante e post.

Pertanto, sia che si tratti di imposta di registro che di imposta di donazione, l’essenza è che l’atto dispositivo di beni in trust non è un atto a contenuto patrimoniale per cui non sono mai dovute le imposte proporzionali.

Queste conclusioni, peraltro, valgono anche ai fini delle imposte ipocatastali.

Ma vi è di più. Le considerazioni della sentenza 15.469 permettono di rivalutare o di meglio interpretare anche una trilogia di sentenze della Cassazione del 18 dicembre 2015 che, riferendosi al periodo ante D.L. 262/2006 erano state all’epoca valorizzate soprattutto per il tema delle imposte ipocatastali che erano previste fisse nella fase iniziale del trust.

 

Si tratta dei seguenti interventi:

  • Sentenza n. 25478 del 18 dicembre 2015 (ud. 2 dicembre 2015) della Cassazione
  • Sentenza n. 25479 del 18 dicembre 2015 (ud. 3 novembre 2015) della Cassazione
  • Sentenza n. 25480 del 18 dicembre 2015 (ud. 2 dicembre 2015) della Cassazione

 

E’ illuminate il seguente passaggio contenuto in tutte e tre le sentenze: “E’ difatti errato affermare che l’atto istitutivo di un trust andrebbe annoverato nell’alveo degli atti a contenuto patrimoniale per il sol fatto che il consenso prestato riguarda un vincolo su beni muniti di valore economico.

Una tale affermazione contrasta sia con le caratteristiche tipiche del trust come istituto giuridico (…), sia e soprattutto con le caratteristiche del sistema impositivo di registro, in cui l’elemento essenziale cui connettere la nozione di prestazione “a contenuto patrimoniale”, ex art. 9 della tariffa, è l’onerosità”.

La terza sentenza usa qualche espressione leggermente differente ma il contenuto è esattamente identico.

Il quadretto che ne esce è pertanto di grande coerenza. Gli unici interventi che si allontanano un po’ con le ossa rotte sono le ordinanze di inizio 2015 e, in parte la più recente sentenza n. 13.626/2018.

Dopo questa premessa, approcciamo la sentenza n. 15.468 che, ricordiamo, è stata emanata dalla stessa sezione e con udienza nello stesso giorno della 15.469.

 

 

Il nuovo intervento della Cassazione

sentenza corte di cassazioneLa sentenza Cassazione n. 15468 del 13 giugno 2018 (udienza 3 maggio 2018) ha ad oggetto il caso di un contribuente che ha ricevuto un avviso di liquidazione da parte dell’Agenzia delle Entrate in data 4/06/2008, in cui si chiedeva l’applicazione dell’imposta di registro proporzionale in luogo di quella fissa, in relazione alla disposizione in un trust di scopo, di alcuni beni.

Dalle prime righe della sentenza non è dato capire se il caso ha ad oggetto un atto dispositivo anteriore all’entrata in vigore del D.L. 262/2006, dove l’Agenzia delle Entrate pretendeva l’imposta di registro proporzionale oppure, successivo a tale data, dove la tesi dell’imposta di registro proporzionale  è stata dismessa dall’Agenzia stessa a favore della tesi espressa con C.M. 48/E/2007 secondo cui, alla luce delle novità normative introdotte, il prelievo della fase iniziale è quello relativo all’imposta di donazione.

La CTP di Caserta, con decisione dell’11/06/2009 accoglieva l’istanza del contribuente ma l’Agenzia impugnava in Regionale sostenendo che ai sensi dell’art. 2 D.L. 262/2006 “l’atto, in quanto recante un vincolo di destinazione, doveva essere sottoposto all’imposta dell’8% (secondo il comma 48 di detta legge) sulla base imponibile”[3].

Da questa successiva indicazione emerge che la casistica ha ad oggetto un atto dispositivo avvenuto successivamente all’entrata in vigore D.L. 262/2006 durante la vigenza dell’imposta di donazione.

Anche la CTR Campania rigettava l’appello dell’Ufficio dando ragione al contribuente in quanto la creazione di un “vincolo di destinazione”, come ha luogo con il trust, non realizza, almeno con riferimento al momento della costituzione del trust, alcun incremento patrimoniale connesso al trasferimento di ricchezza, essendo certo che “la costituzione di un trust di scopo, con segregazione di beni, non determina normalmente la prospettiva certa, sul piano giuridico, di un futuro arricchimento patrimoniale”[4].

La sentenza prosegue evidenziando che “in conclusione, affermare la tassazione all’atto della segregazione dei beni, in caso di trust ….Significherebbe allora una sostanziale violazione del principio di capacità contributiva, perché il momento giuridico della costituzione del vincolo non coincide con nessuna manifestazione di ricchezza, attuale o futura”.

La tesi della CTR risulta assolutamente condivisibile in quanto, di norma, il trust di scopo non prevede la figura di particolari beneficiari. Volendo far un esempio, ipotizzando che un soggetto istituisca un trust di scopo per la ricerca contro il cancro disponendovi liquidità, e prevedendo che il trustee usi questa liquidità per attribuirla a degli enti di ricerca, il mancato effetto donatorio appare palese in quanto, a differenza del trust familiare donatorio, dove alla fine i beni giungono ai beneficiari, l’ente di ricerca non riceve un ammontare di denaro quale mera elargizione donativa bensì lo riceve a fronte di un’attività di ricerca. Il trust di scopo pagherà l’ente non per arricchirlo ma perché questo impieghi il denaro per portare avanti il progetto: vi è una correspettività del rapporto.

Ovviamente quella proposta come esempio è la situazione classica, addirittura scolastica, del trust di scopo. Non possiamo escludere al di là del nomen iuris utilizzato dal contribuente, che possa esistere un trust qualificato come trust di scopo che eroga delle liberalità a dei soggetti senza alcuna prestazione corrispettiva. Non possiamo esprimere alcun giudizio in relazione al trust oggetto della sentenza in quanto non è a nostra disposizione l’atto istitutivo.

Peraltro si ricorda che la Ris. n. 278/E del 4 ottobre 2007 ha qualificato come trust di scopo un trust costituito a favore di un soggetto disabile  incapace di intendere e di volere,  per  assicurarne  “l’assistenza  necessaria  vita natural durante”, in modo che “in nessun caso dovrà trascorrere  la  propria vita in Istituti di Assistenza per  invalidi”,  come  previsto  dall’art.  3 dell’atto istitutivo.

La risoluzione evidenzia, inoltre, come ai sensi del medesimo art. 3 dell’atto istitutivo,  il soggetto diversamente abile sia nominato  dal  disponente  “beneficiario  dei  beni  del  trust”. 

A  tale proposito,  tuttavia,  l’Agenzia osserva “che  il  soggetto   disabile   non   può correttamente qualificarsi in senso giuridico come  “beneficiario  dei  beni del trust” in questione, quanto piuttosto dell’assistenza in cui risiede  lo scopo della costituzione del trust.

Di conseguenza, a differenza  di  quanto affermato dall’istante, nella fattispecie in esame il trust non si configura come un trust  con  “beneficiario”  individuato,  ma  come  un  trust  senza beneficiari individuati.

Il citato art.  3  dell’atto  istitutivo,  infatti, prevede che

“Quando il trust avrà esaurito il  suo  scopo,  il  settlor,  sevivente, darà disposizioni al trustee per l’assegnazione dei  beni  residui; nel  caso  che  il  settlor   sia   deceduto   ovvero,   se   vivente,   sia nell’impossibilità di darle … il trustee dovrà disporre dei  beni  residui in favore dei parenti del settlor e del di lui coniuge”.

La tesi dell’Agenzia in realtà non convince in quanto non appare idoneo qualificare come trust di scopo un trust che pare avere un beneficiario vitalizio (il soggetto disabile da assistere) e dei beneficiari del residuo.

Nell’interpello dell’Agenzia delle entrate n. 954-909/2016 pubblicato ne il sole 24 ore del 29 marzo 2017 è stato affrontato un nuovo caso di trust a tutela di un disabile.

Il contribuente ha correttamente affermato che “il trust si qualifica come “non commerciale” ai sensi dell’articolo 73, comma 1, lettera e), del TUIR ed, inoltre, non può essere considerato un trust “di scopo ” (“purpose trust”) in quanto tale qualificazione sarebbe incompatibile con la legislazione estera prescelta (legge inglese) per l’istituzione e la regolamentazione dello stesso”.

L’Agenzia, pur richiamando il precedente intervento di prassi citato, non afferma più che il trust è di scopo.

Ed, infatti, si legge che “Al riguardo, si osserva che il soggetto disabile non può correttamente qualificarsi in senso giuridico come beneficiario dei beni del trust in questione quanto, piuttosto, dell’assistenza in cui risiede lo scopo “esclusivo” della costituzione del trust stesso.

Ne consegue che il trust in esame rientra tra la categoria dei trust “opachi” i cui redditi prodotti sono tassati direttamente in capo al trust (cfr., al riguardo, risoluzione 4 ottobre 2007, n. 278/E)”.

Proseguiamo ad ogni buon conto nella nostra analisi.

Contro la decisione della CTR Campania, l’Agenzia delle Entrate presenta ricorso per Cassazione.

L’Agenzia propone la classica tesi secondo cui la disposizione di beni in un trust di scopo è soggetta all’imposta di donazione nella misura dell’8% ossia con l’aliquota residuale più elevata.

Viene poi evidenziato come la non debenza dell’imposta non possa discendere dal fatto che il trust non sia un soggetto giuridico in quanto, già l’ordinamento tributario considera soggetto passivo di imposta anche altre entità di fatto come la stabile organizzazione.

I giudici evidenziamo come “sull’annosa questione dell’assoggettabilità del trust all’imposta fissa o proporzionale sul trasferimento” vi sono già stati altri precedenti[5]. In particolare la stessa Sezione tributaria è quella che ha diramato la sentenza 21614/2016 la quale, in relazione all’espressione ‘’vincoli di destinazione’’ contenuta nel co. 49 art. 2 D.L. 262/2006, ha statuito che “il presupposto dell’imposta rimane quello stabilito dall’art. 1 D.Lgs. n. 346/1990 e cioè il trasferimento di beni o diritti per successione a causa di morte o per donazioni o altra liberalità tra vivi.”

La sentenza 21614 ha escluso la presenza di un reale trasferimento di beni in quanto impossibile perché del tutto contrario al programma negoziale di donazione indiretta per cui è stato predisposto che prevede invece, la temporanea preservazione del patrimonio attraverso la segregazione dello stesso, fino al trasferimento dello stesso a favore dei beneficiari. Pertanto, l’imposta sulle successioni non trova applicazione in quanto manca il presupposto impositivo della liberalità.

Le osservazioni e la ricostruzione del contenuto della 21614/2016 appare assolutamente conforme all’interpretazione che anche in altre occasioni abbiamo dato, di quell’intervento giurisprudenziale, che peraltro viene considerato una svolta rispetto alle vecchie ordinanze.

In sostanza, il fatto che non sia dovuta l’imposta di donazione nella fase iniziale del trust discende dalla circostanza che manca appunto il presupposto impositivo della liberalità in quanto, generalmente, l’effettivo arricchimento interverrà solamente nella successiva fase del passaggio di beni dal trustee ai beneficiari.

La recente sentenza 15468/2018 tuttavia, va oltre laddove precisa che “a tale conclusione può farsi eccezione, ove si provi che il disponente ha trasferito al trustee i beni ed i relativi diritti pervenendo al reale arricchimento del beneficiario”.

Questo passaggio, estremamente stringato, e che forse avrebbe meritato qualche parola esplicativa aggiuntiva, ad avviso di chi scrive non può che esser interpretato nel seguente modo.

Il problema non è connesso, come pareva evidenziare la sentenza n. 13626/2018 al fatto che vi sia un trust autodichiarato o con un trustee distinto dal disponente, quanto piuttosto alla valutazione circa il fatto che il trasferimento dei beni e dei diritti al trustee comporti il reale arricchimento del beneficiario. Tale reale arricchimento deve assolutamente essere escluso qualora il beneficiario sia titolare di una mera aspettativa sul fondo in trust, ossia quando la sua posizione può dirsi contingent.

Diversamente, se il beneficiario fosse titolare di una posizione vested, per cui può già pretendere i beni dal trustee, di fatto la disposizione in trust dal disponente al trustee potrebbe già esser vista come un effettivo arricchimento del beneficiario.

Oppure, si potrebbe ritenere che i giudici vogliono valutare non tanto se i beneficiari sono diventati vested, quanto piuttosto se gli stessi hanno concretamente ricevuto una parte del fondo in trust.

Alla luce di questo i giudici stabiliscono quindi che occorre rinviare alla CTR della Campania perché esamini “se tale trasferimento si è attuato”.

Ci si deve tuttavia porre il seguente quesito. Ma non stavamo parlando di un trust di scopo?

 

Che senso ha parlare di beneficiari?

E’ stato giustamente osservato:

“quando si parla di reale arricchimento del beneficiario, a chi si riferisce il collegio giudicante? Se il trust è un trust di scopo, come la stessa Agenzia ha riconosciuto, in capo a chi si manifesterebbe il beneficio economico che si pretende di tassare?”[6].

La risposta probabilmente risiede nelle osservazioni fatte in precedenza, dove abbiamo rilevato che l’Agenzia ha qualificato come un trust di scopo anche il trust per disabile.

Pertanto, chi scrive interpreta il passaggio nel senso che si deve verificare se è stato attuato o meno il trasferimento che ha comportato un reale arricchimento del beneficiario.

Secondo una impostazione alternativa, si potrebbe dare un’altra interpretazione alla frase[7] un po’ nebulosa. Si potrebbe, infatti, ritenere che l’imposta di donazione scatta se il trust non è autodichiarato, ossia se il trustee è diverso dal disponente.

Tale interpretazione potrebbe essere compatibile con la lettera della norma e risulterebbe in linea con la sentenza n. 13.626/2018[8].

Riteniamo, tuttavia, di dare risposta negativa in quanto questa interpretazione parrebbe poco coerente con il testo della sentenza e con la coeva sentenza n. 15.469/2018 che in alcun modo ammette una simile interpretazione.

 

Ennio Vial

3 luglio 2018

 

NOTE

[1] Scosse di assestamento sulle imposte dirette del trust di Ennio Vial, ne il Commercialista Telematico del 20 giugno 2018.

[2] Senza tassazione l’atto di dotazione relativo ai trust di Angelo Busani, in Quotidiano del Fisco del 18 Gennaio 2018.

[3] Nel testo della sentenza non sono citati gli estremi della CTP. Da una ricerca desumiamo che dovrebbe trattarsi della Sentenza n. 481 dell’ 11 giugno 2009 (ud 16 aprile 2009)della Commiss. Trib. Prov., Caserta, Sez. XV.

[4] CTR Napoli n. 169/2001 depositata il 16.5.2011.

[5] Viene citata anche la Cassazione n. 25.478/2015.

[6] Il trust di scopo sconta l’imposta di donazione all’8% di Sergio Pellegrino in ecnews del 26 giugno 2018.

[7] Ricordiamola. “Naturalmente a tale conclusione può farsi eccezione, ove si provi che il disponente ha trasferito al trustee i beni ed i relativi diritti pervenendo al reale arricchimento del beneficiario”.

[8] Per un commento della sentenza in oggetto si rinvia a “Un nuovo orientamento della Cassazione sulla fiscalità indiretta del trust” di Ennio Vial in commercialista telematico del 5 giugno 2018.