Contrasto alla ludopatia e gioco illecito

Il decreto Dignità introduce una nuova disciplina in tema di “Misure per il contrasto alla ludopatia”. Certo resta il fatto che la disciplina prevista potrebbe non essere sufficiente a contrastare anche gli effetti legati al gioco illecito. A tal proposito, la Corte di Cassazione ha scritto un’ulteriore pagina di condanna al fenomeno dei cosiddetti CTD, che svolgono, nella sostanza, attività di raccolta scommesse senza autorizzazione

Il decreto Dignità introduce una nuova disciplina in tema di “Misure per il contrasto alla ludopatia”. Certo resta il fatto che la disciplina prevista potrebbe non essere sufficiente a contrastare anche gli effetti legati al gioco illecito. A tal proposito, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30132 del 04/07/2018, ha scritto un’ulteriore pagina di condanna al fenomeno dei cosiddetti CTD, che svolgono, nella sostanza, attività di raccolta scommesse senza autorizzazione.

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Il cosiddetto decreto Dignità, approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 2 luglio, all’articolo 8, introduce una nuova disciplina in tema di “Misure per il contrasto alla ludopatia”.

Sotto la rubrica “Divieto di pubblicità giochi e scommesse”, il suddetto articolo, stabilisce, al comma 1, che:

  • “a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto è vietata qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro, comunque effettuata e su qualunque mezzo, incluse le manifestazioni sportive, culturali o artistiche, le trasmissioni televisive o radiofoniche, la stampa quotidiana e periodica, le pubblicazioni in genere, le affissioni ed internet”.
  • “Dal 1° gennaio 2019 il divieto di cui al presente comma si applica anche alle sponsorizzazioni di eventi, attività, manifestazioni programmi, prodotti o servizi e a tutte le altre forme di comunicazione di contenuto promozionale, comprese le citazioni visive ed acustiche e la sovraimpressione del nome, marchio, simboli, attività o prodotti la cui pubblicità, ai sensi del presente articolo, è vietata.”

La violazione dei suddetti divieti, come stabilisce il successivo comma 2 dello stesso articolo, comporta, a carico del committente, del proprietario del mezzo o del sito di diffusione o di destinazione e dell’organizzatore della manifestazione, evento o attività l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, che verrà irrogata dall’ Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, calcolata nella misura del 5% del valore della sponsorizzazione o della pubblicità e in ogni caso non inferiore, per ogni violazione, ad un importo minimo di € 50.000.

Viene, inoltre, fatto salvo quanto già previsto dall’articolo 7, comma 6 del D.L. n. 158/2012 (Legge Balduzzi), che, in materia di divieto di pubblicità del gioco d’azzardo nel corso di trasmissioni televisive o radiofoniche e di rappresentazioni teatrali o cinematografiche rivolte ai minori prevede l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da centomila a cinquecentomila euro.

Precisa, poi, il successivo comma 3, che i proventi delle sanzioni amministrative così comminate saranno devoluti ad un apposito capitolo dello stato di previsione della spesa del Ministero della Salute per essere destinati al Fondo per il contrasto al gioco d’azzardo patologico istituito ai sensi della Legge di stabilità 2016.

Vi sono infine due “clausole di salvaguardia” alle suddette prescrizioni:

  • la prima, contenuta nello stesso comma 1, esclude dal divieto le lotterie nazionali a estrazione differita (la Lotteria Italia) di cui all’articolo 21, comma 6, del D.L. n. 78/2009, convertito, con modificazioni, dalla L. 102/ 2009, ed i loghi sul gioco sicuro e responsabile dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli;
  • la seconda è contenuta nel 5° comma, che stabilisce che “ai contratti di pubblicità in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore del presente decreto resta applicabile la normativa vigente anteriormente alla medesima data.”

Nella relazione illustrativa che accompagna il Decreto, si precisa che la norma in esame pone il divieto della pubblicità di giochi o scommesse con vincite in denaro “in considerazione delle rilevanti dimensioni che tale pratica ha assunto nel nostro Paese, con conseguente aumento del rischio, soprattutto per i soggetti più vulnerabili, di una dipendenza socioeconomica con veri e propri effetti patologici, che si riflettono sul soggetto con gravi disagi per la persona, compromettendo l’equilibrio familiare, lavorativo e finanziario comportando un aumento dell’indebitamento e quindi con un più facile assoggettamento a prestiti usurari”.

In effetti, in Italia i giocatori patologici sono in crescita, e dunque ogni misura che miri a contrastare il fenomeno deve essere guardata con favore.

Certo resta il fatto che la disciplina prevista potrebbe non essere del tutto efficace, non potendo, per esempio, fare molto contro il gioco illecito.

A tal proposito si evidenzia come la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30132 del 04/07/2018, abbia scritto un’ulteriore pagina di condanna al fenomeno dei cosiddetti CTD (centri di trasmissione dati), che svolgono, nella sostanza, attività di raccolta scommesse senza autorizzazione.

Nel caso di specie, il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Palermo, per quanto qui di interesse, aveva applicato la misura della custodia cautelare degli arresti domiciliari, in relazione al capo di imputazione con cui si contestava all’indagato e ad altri, tra cui anche il promotore del sodalizio, che operava attraverso varie società estere dirigendo e coordinando l’apertura di centri scommesse e le attività di connessione di fidi e di raccolta delle scommesse “da banco”, anche il reato di cui all’art. 416 cod. pen., per essersi associato, insieme ad altri indagati, allo scopo di commettere una pluralità di delitti connessi alla gestione illecita di imprese dedite all’utilizzo di piattaforme on line finalizzate al gioco, collocate su siti esteri, aggirando la normativa nazionale di settore, sia fiscale che anti-riciclaggio, e all’apertura di sale scommesse per la raccolta delle puntate al banco, così consumando più reati, quali quelli di esercizio abusivo di attività di gioco e scommesse (art. 4, L. n. 401 del 1989), truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, secondo comma, n. 1, cod. pen., in relazione alle artificiose rappresentazioni volte a non corrispondere all’Erario la tassa prescritta per l’esercizio di attività di giochi e scommesse), riciclaggio e reimpiego dei proventi di delitto (art. 648 ter cod. pen.).

In particolare l’indagato in considerazione, quale stabile e continuativo consulente fiscale, amministrativo e tributario dell’associazione, secondo l’accusa, si adoperava al fine di consentire ai suoi vertici le strategie e le scelte operative idonee ad aggirare fraudolentemente la normativa nazionale fiscale in materia di giochi e scommesse a distanza, nonché di agevolare le attività di intestazione fittizia, riciclaggio e reimpiego.

Con altro capo di imputazione si contestavano poi i reati di cui agli artt. 81, 110, 640, secondo comma, n. 1, cod. pen., perché, in concorso con altri, con artifizi e raggiri consistiti nel simulare un’attività di semplice supporto logistico ed informativo all’attività di raccolta on line delle scommesse, attraverso la creazione e la gestione di CTD, si traeva in inganno l’Agenzia delle Entrate e l’Erario nazionale, gestendo di fatto la raccolta “da banco” del gioco e delle scommesse, accettando direttamente la conclusione del relativo rapporto contrattuale e, quindi, procedendo alla raccolta della posta giocata dal cliente (o la sua promessa) per importi complessivi non quantificabili, ma pari a diversi milioni di euro.

Nonostante, quindi, il rapporto contrattuale fosse interamente concluso in Italia i soggetti oggetto di indagine non corrispondevano l’imposta unica sulle scommesse, stimabile in diverse centinaia di migliaia di euro, con conseguente ingiusto profitto a danno dello Stato.

Investito della richiesta di riesame dell’indagato, il Tribunale di Palermo – sezione per il riesame, sostituiva la misura della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari e confermava nel resto l’ordinanza applicativa.

Avverso tale ordinanza lo stesso proponeva ricorso per cassazione, affermando, per quanto qui di interesse, che, con riferimento al ruolo svolto, alla luce della contestazione del reato associativo, era stato documentato, per un verso, come l’indagato avesse dato precise indicazioni alle società clienti di procedere al pagamento dell’imposta unica (il cui ingente ammontare aveva determinato la revoca del mandato da parte di una delle società, che non aveva “gradito” la scelta legalitaria del proprio consulente contabile) ed evidenziando, per altro verso, l’impegno volto alla regolarizzazione dei centri scommesse (attraverso l’interlocuzione con l’Agenzia dei Monopoli, per la regolarizzazione e l’emersione di circa 835 centri scommesse).

Secondo la Suprema Corte, il ricorso doveva essere rigettato.

Diversamente da questo sostenuto dal ricorrente, l’ordinanza aveva infatti già esaminato le deduzioni proposte con il riesame, osservando come non rilevasse in alcun modo che l’indagato si fosse attivato per il pagamento dell’imposta unica per i centri di scommesse e per la relativa regolarizzazione, posto che l’imposta unica sulle scommesse, della quale si contestava il mancato pagamento, era quella derivante dalle giocate “da banco”, in nero, e non quella derivante dalle giocate effettuate on line sui conti di gioco regolarmente aperti.

La sentenza rappresenta dunque l’occasione per fare il punto sul notevole contenzioso sorto in questi anni in tema di CTD.

La linea difensiva dei CTD, in tali contenziosi, ai fini tributari, è sempre consistita nel sostenere che la società si era limitata ad una mera raccolta di scommesse per un bookmaker estero (per lo più comunitari), operando quale mero “CTD”, laddove il potere di gestione era però unicamente incentrato sulla società estera, con la quale si concludevano i singoli contratti di scommessa, dovendosi escludere che di tale gestione facessero parte i CTD, che si limitano invece a trasmettere solo le proposte.

Il gestore delle scommesse sarebbe stato, in sostanza, la società estera, che sopportava il rischio del gioco, decideva il palinsesto, stabiliva e fissava le quote, decideva il monte premi e tutti gli altri aspetti della gestione delle scommesse.

L’Amministrazione finanziaria, per conto suo, ha invece sempre sostenuto che la disciplina di riferimento dispone chiaramente la tassabilità in capo a chi gestisce per conto terzi, anche se ubicati all’estero, scommesse di qualsiasi genere e l’obbligazione solidale al pagamento dell’imposta e delle relative sanzioni in capo al soggetto per conto del quale l’attività è esercitata.

Nel confermare le pretese impositive, i giudici tributari pronunciatisi sulla tematica hanno affermato, in via maggioritaria, che l’art. 3 del D.Lgs. 504/1998, così come interpretato dall’art. 1, comma 66 della legge 220/2010, stabilisce espressamente che l’imposta unica in questione deve gravare in capo al soggetto che gestisce in proprio o per conto terzi scommesse di qualsiasi genere, laddove il CTD deve considerarsi soggetto passivo dei tributo, svolgendo attività di gestione dei concorsi tramite autonoma organizzazione imprenditoriale e condividendo il rischio d’impresa (disponibilità dei locali, ricezione delle proposte e consegna dell’accettazione, incasso delle giocate e pagamento delle vincite).

L’attività di raccolta del gioco rientra dunque nel presupposto impositivo ed è assimilabile, in tutto e per tutto, alla “gestione per conto di terzi”, indipendentemente dalla mancanza di un potere di ingerenza nella determinazione delle condizioni della scommessa e dell’estraneità al contratto, che ha come parti lo scommettitore e la società estera per conto della quale si agisce e sulla quale grava una responsabilità di tipo solidale.

I CTD non si limitano, del resto, a trasmettere dati alla società estera, raccogliendo, invece, le scommesse ed i relativi pagamenti, previa comunicazione agli utenti degli eventi sui quali possono scommettere.

E ciò consente quindi di ritenere che essi gestiscano le scommesse.

L’art. 10, comma 8 del D.L. n. 98/2011 prevede, peraltro, in caso di scommesse non affluite al totalizzatore nazionale, ovvero di sottrazione di base imponibile all’imposta unica sulle scommesse, che l’Ufficio deve determinare l’imposta dovuta anche utilizzando elementi documentali comunque reperiti, pur se formati dal contribuente, da cui emerge l’ammontare delle giocate, restando pacifico che al volume delle scommesse così determinato si applica l’aliquota prevista dall’art. 3 del D.Lgs 504/1998 e fermo restando che rimane facoltà del contribuente provare l’erroneità del metodo accertativo dell’Ufficio.

Nessun dubbio, infine, secondo la giurisprudenza di riferimento, in ordine al fatto che il contratto ex art. 1336 c.c., tra il ricevitore e lo scommettitore, si conclude in Italia e non all’estero, anche considerato che la ricevuta di pagamento, rilasciata al giocatore dal ricevitore, è titolo al portatore per riscuotere l’eventuale vincita.

E’ noto del resto che è vietata ogni forma di intermediazione nella raccolta delle scommesse, laddove, anzi, l’intermediazione nella raccolta delle scommesse può integrare il reato di esercizio abusivo di scommesse.

Il cosiddetto “Decreto Balduzzi”, dispone inoltre che “Fatte salve le sanzioni previste nei confronti di chiunque eserciti illecitamente attività di offerta di giochi con vincita in denaro, è vietata la messa a disposizione, presso qualsiasi pubblico esercizio, di apparecchiature che, attraverso la connessione telematica, consentono ai clienti di giocare sulle piattaforme di gioco messe a disposizione dai concessionari on line, da soggetti autorizzati all’esercizio dei giochi a distanza, ovvero da soggetti privi di qualsiasi titolo concessorio o autorizzatorio rilasciato dalle competenti autorità”.

Insomma, che l’attività di intermediazione finalizzata a consentire la raccolta di scommesse sia illegale è indubbio.

E in tale fattispecie, come confermato anche dalla sentenza in commento, rientra anche quella (formalmente) svolta dai CTD (Centri trasmissione dati), ovvero agenzie presso cui i clienti effettuano le giocate, che l’operatore, in virtù di un contratto con la società madre estera, poi registra sul server di una società straniera priva di concessione in Italia, ma autorizzata nel paese ove la stessa ha sede legale. 

Tali CTD, che raccolgono le giocate e pagano le vincite, effettuando poi le compensazioni degli importi con la società madre, operano infatti in assenza dell’autorizzazione di AAMS ed in assenza della licenza amministrativa di cui all’art. 88 TULPS, che non potrebbe mai essere concessa proprio perché il soggetto è privo di concessione.

Con la L. 23-12-2014  n. 190 (Legge di stabilità 2015), Art. 1 commi 643, 644 e 645, si era allora cercato di porre almeno in parte rimedio al problema, stabilendo, tra le altre cose che, in attesa del riordino della materia dei giochi pubblici, in attuazione di quanto previsto nella legge delega (poi però su tale punto non attuata), a decorrere dal 1° gennaio 2015, ai soggetti che comunque offrivano scommesse con vincite in denaro in Italia, per conto proprio ovvero di soggetti terzi, anche esteri, senza essere collegati al totalizzatore nazionale dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, fosse consentito di regolarizzare la propria posizione.

Tuttavia tale regolarizzazione non ha poi sortito i risultati sperati, avendovi aderito circa 2200 punti di gioco su un totale di più di 7000.

A completamento della descrizione della fattispecie, bisogna comunque evidenziare come la Corte Costituzionale, con sentenza del febbraio 2018, ha recentemente però dichiarato legittima la tassazione dei CTD solo dal 2011 in poi, affermando “l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto legislativo 23 dicembre 1998, n. 504 (Riordino dell’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse) e dell’art. 1, comma 66, lettera b), della legge 13 dicembre 2010, n. 220, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2011)», nella parte in cui prevedono che – nelle annualità d’imposta precedenti al 2011 – siano assoggettate all’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse le ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione”.    

La Corte Costituzionale, in sostanza, accoglie in parte le tesi dei ricorrenti, ponendo un netto distinguo: il pagamento del prelievo sulla raccolta non può essere chiesto ai CTD – in via retroattiva – per gli anni antecedenti il 2011, ovvero prima che la norma della Stabilità entrasse in vigore; mentre è invece legittimo richiederne il pagamento per la raccolta effettuata negli anni successivi.

E difatti la Consulta ha dichiarato “non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3 del d.lgs. n. 504 del 1998 e dell’art. 1, comma 66, lettera b), della legge n. 220 del 2010, nella parte in cui prevedono che – nelle annualità d’imposta successive al 2011 – siano assoggettate all’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse le ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Rieti”.

Nelle motivazioni della sentenza si legge che il presupposto oggettivo per l’applicazione dell’imposta unica sulle scommesse è definito dall’art. 1 del d.lgs. n. 504 del 1998, secondo il quale essa «è dovuta per i concorsi pronostici e le scommesse di qualunque tipo, relativi a qualunque evento, anche se svolto all’estero». 

Il tenore letterale di tale disposizione, ed in particolare l’inclusione dei soggetti che esercitino tale attività «anche in concessione», autorizzava a ritenere che, già nella sua originaria versione, precedente alla disposizione interpretativa del 2010, l’art. 3 in esame rivolgesse la pretesa impositiva anche nei confronti degli stessi soggetti operanti al di fuori del sistema concessorio.

La Corte Costituzionale ha quindi evidenziato come “con la disposizione interpretativa dell’art. 1, comma 66, lettera b), della legge n. 220 del 2010, il legislatore ha dunque esplicitato una possibile variante di senso della disposizione interpretata, ribadendo, da un lato, che l’imposta è dovuta anche nel caso di scommesse raccolte al di fuori del sistema concessorio e stabilendo, altresì, che il generale concetto di “gestione” include anche l’attività svolta “per conto di terzi”, compresi i bookmaker con sede all’estero e privi di concessione. L’equiparazione, ai fini tributari, del “gestore per conto terzi” (il titolare di ricevitoria) al “gestore per conto proprio” (il bookmaker) non risulta irragionevole. Infatti, le differenze tra il contributo rispettivamente prestato dalla ricevitoria e dal bookmaker alla complessiva attività di raccolta delle scommesse non escludono affatto – ed anzi presuppongono – che entrambi i soggetti partecipino, sia pure su piani diversi e secondo differenti modalità operative, allo svolgimento di quell’attività di «organizzazione ed esercizio» delle scommesse sottoposta ad imposizione”.

Infine, in riferimento al denunciato difetto di congruità e proporzione dell’intervento legislativo rispetto alle finalità perseguite, per la Corte “non è ravvisabile alcuna irragionevolezza nell’assoggettamento ad imposta del ricevitore operante per bookmaker sfornito di concessione, con conseguente parificazione dello stesso ricevitore al bookmaker concessionario”.

La Consulta rileva poi che, come è già stato rilevato dalla giurisprudenza tributaria consolidatasi sul punto, tale scelta legislativa risponde ad un’esigenza di effettività del principio di lealtà fiscale nel settore del gioco, allo scopo di evitare l’irragionevole esenzione per gli operatori posti al di fuori del sistema concessorio, i quali finirebbero per essere favoriti per il solo fatto di non avere ottenuto la necessaria concessione, ovvero di operare per conto di chi ne sia privo.

Quanto alla denunciata violazione del principio della capacità contributiva, “la scelta di assoggettare all’imposta i titolari delle ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione tiene conto della circostanza che il rapporto tra il titolare della ricevitoria che agisce per conto di terzi ed il bookmaker è disciplinato da un contratto dal quale sono regolate le stesse commissioni dovute al titolare della ricevitoria per il servizio prestato. Attraverso la regolazione negoziale delle commissioni, il titolare della ricevitoria ha la possibilità di trasferire il carico tributario sul bookmaker per conto del quale opera. D’altra parte, le commissioni a lui dovute rappresentano un elemento di costo che necessariamente entra far parte delle valutazioni economiche dello stesso bookmaker, il quale ne terrà conto nella determinazione delle quote e, quindi, dell’importo che lo scommettitore deve corrispondere per la scommessa. Con riferimento ai rapporti successivi al 2011, ossia alla data di entrata in vigore della disposizione interpretativa dell’art. 1, comma 66, lettera b), non sussiste, pertanto, la denunciata impossibilità di traslazione dell’imposta da parte del titolare della ricevitoria”.

Insomma, una questione molto complicata, ma anche molto rilevante, sia da un punto di vista giuridico che sociale.

Giovambattista Palumbo

10 agosto 2018