Assegno divorzile e giurisprudenza tributaria

l’assegno divorzile costituisce reddito assimilato ai redditi di lavoro dipendente per chi lo percepisce, e onere deducibile dal reddito complessivo di chi lo versa (nella misura stabilita dall’autorità giudiziaria); il versamento dell’assegno di mantenimento in favore dei figli, invece, non è sottoposto a tassazione in capo a chi lo percepisce e, chi lo versa non lo può dedurre. Le regole del TUIR sembrano semplici, ma…

La normativa fiscale sul cosiddetto assegno divorzile, e specificamente l’ art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (T.U.I.R.) prevede che la corresponsione periodica dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge – in conseguenza di separazione legale ed effettiva, di divorzio o di annullamento del matrimonio – costituisce reddito assimilato ai redditi di lavoro dipendente per chi lo percepisce, e onere deducibile dal reddito complessivo di chi lo versa (e nella misura stabilita dall’autorità giudiziaria); il versamento del mantenimento in favore dei figli, invece, non è sottoposto a tassazione in capo a chi lo percepisce e, chi lo versa non lo può dedurre.

L’art. 50, comma 1, lett. i), T.U.I.R., costituisce invece la disposizione che – individuando i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente – menziona espressamente tra gli oneri deducibili gli assegni periodici indicati dal citato art. 10, lett. c).

L’art. 52, comma 1, lett. c), precisa poi che a tali assegni, per quanto assimilati a quelli da lavoro dipendente, non si applicano le regole sulla determinazione del reddito da lavoro previste dall’art. 51 e che “si presumono percepiti, salvo prova contraria, nella misura e alle scadenze risultanti dai relativi titoli” (con la conseguenza che qualora il coniuge obbligato non versi l’assegno, il beneficiario è comunque tenuto a dichiararlo, salva la prova sull’infruttuoso tentativo di recupero), ossia dal verbale della separazione consensuale, dalle sentenze di separazione e divorzio, oltre che dagli eventuali decreti di modifica pronunciati a norma degli artt. 710 c.p.c. e 9 della Legge sul divorzio (Legge n. 898/1970).

Numerosi sono i documenti di prassi esternati in tale materia.

Tra i più recenti, la circolare dell’Agenzia delle entrate 4 aprile 2017, n. 7/E ha ammesso la deducibilità delle somme corrisposte in sostituzione dell’assegno di mantenimento per il pagamento delle rate di mutuo intestato all’ex coniuge nel caso in cui dalla sentenza di separazione risulti che l’altro coniuge non abbia rinunciato all’assegno di mantenimento.

Invece nella circolare dell’Agenzia delle entrate, 24 aprile 2015, n. 17/E (Risposta 4.1) si è indicata la deducibilità anche del c.d. contributo-casa ovvero delle somme corrisposte per il pagamento del canone di locazione e delle spese condominiali dell’alloggio del coniuge separato che siano disposti dal giudice, quantificabili e corrisposti periodicamente.

La giurisprudenza di legittimità, a riguardo della deducibilità o meno delle erogazioni di denaro a scadenza periodica poste a carico di un coniuge a favore dell’altro, tende a ricomprenderle tutte nel novero dell’assegno di mantenimento, senza che assuma rilievo la ragione o la destinazione ad una voce di spesa alla quale esse sono funzionali (ex plurimis: Cass. civ. n. 9148/2005); tuttavia è bene sottolineare che, a mente dell’ art. 3 del D.P.R. n. 42/1988, nei casi in cui la somma indicata nel provvedimento appare comprensiva anche della quota relativa al mantenimento dei figli, essa si considera – salva diversa indicazione – destinata a questi ultimi nella misura del 50% della somma, indipendentemente dal numero dei figli.

Dal punto di vista dei riflessi processuali, e soprattutto in tema di prova sulla corrispondenza delle somme al mantenimento della moglie e dei figli, è intervenuta di recente la Corte di Cassazione (sent. n. 23805 dell’11 ottobre 2017) stabilendo che – se è indiscussa la percezione delle somme – è onere della parte contribuente provare la diversa imputazione delle stesse (per il mantenimento dei figli, piuttosto che per il proprio), e non dell’Amministrazione, alla quale nessun difetto probatorio può essere imputato.

Si scorge in questa conclusione un criterio implicitamente riconducibile al principio di vicinanza alla prova; a riguardo, va ricordato che la regola dell’onere della prova, sostanzialmente basata sul brocardo onus probandi incubit ei qui dicit, è presente nel nostro ordinamento ed è, in via generale, rappresentata dalla regola scandita dall’art. 2697 c.c., che entra in gioco – in realtà – soltanto nel momento della decisione, ed opera in modo oggettivo in funzione della verifica finale, operata dal giudice, circa l’esistenza o non esistenza di prove che dimostrino i fatti giuridicamente rilevanti.

Questa circostanza si esprime comunemente dicendo che la regola dell’onere della prova è essenzialmente una regola di giudizio, in quanto la sua funzione è di rendere sempre possibile la decisione del giudice, anche in assenza di sufficienti prove dei fatti, evitando così pronunce di non liquet; in pratica l’art. 2697 c.c. finisce con il dettare una disciplina secondo la quale l’onere di rappresentare gli accadimenti che concretizzano una fattispecie astratta di legge grava sulla parte che, dalla applicazione della norma sostanziale, possa ricavare effetti per sé favorevoli; tuttavia, la determinazione dell’onere finisce poi così per essere posta all’esame del giudice che la applica sulla base di criteri che completano e qualificano la fattispecie legale adeguandola al caso concreto, quali l’apparenza, l’interesse, la normalità, il carattere negativo del fatto da dimostrare.

Si tratta, in altre parole, di un principio, in virtù del quale i carichi probatori vanno ripartiti tenuto conto della maggiore o minore difficoltà che le parti incontrano nel fornire la relativa prova ed è , indubbio, che nel caso affrontato dalla sentenza n. 23805/2017 perché essa, in conclusione, ha affidato l’onere della prova il soggetto che è indubbiamente più vicino alla stessa, potendo egli offrire la copia del provvedimento giudiziale di interesse alla causa.

Tornando però all’assetto normativo richiamato nella parte inziale del presente scritto, deve riferirsi che esso ha superato il vaglio della Corte costituzionale; tale organo – con la decisione n. 373/2008 – ha, infatti, affermato che non è irragionevole, ed è quindi immune da vizio di incostituzionalità, la scelta del legislatore di ammettere la deducibilità dal reddito dell’erogante del solo assegno periodico alimentare e non anche di quello corrisposto al coniuge separato o divorziato per il mantenimento dei figli, sia per la diversità di funzione e di contenuto fra i due obblighi, sia perché l’assegno alimentare trova applicazione solo in via residuale allorquando quello di mantenimento non è operante, anche nell’ipotesi in cui la condanna agli alimenti sia in fatto successiva a quella riguardante il mantenimento.

Sempre la Consulta, con l’ordinanza n.113 del 29 marzo 2007, dichiarava manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 del T.U.I.R. nella parte in cui non prevede la deducibilità dal reddito complessivo, ai fini dell’IRPEF, dell’assegno divorzile corrisposto al coniuge in unica soluzione (cfr. Cass. civ. n. 16462/2002), questione alla quale risulta connessa la tassazione dell’assegno in capo al percipiente (cfr. Cass. civ. n. 23659/2006).

Tale responso segnava così una linea di continuità con l’ord. 6 dicembre 2001, n. 383.del 2001, ove si argomentava che le “due forme di adempimento, cioè quella periodica e quella una tantum, le quali pur avendo entrambe la funzione di regolare i rapporti patrimoniali derivanti dallo scioglimento o dalla cessazione del vincolo matrimoniale, appaiono sotto vari profili diverse, e tali sono state considerate dal legislatore nella disciplina dettata in materia”.

 

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11 dicembre 2017
Antonino Russo

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