Cassa in rosso e ricavi in nero

la giurisprudenza tributaria ritiene che in presenza di cassa in rosso (cioè che assume valori contabili negativi) si possono legittimamente presumere ricavi in nero.

Con la sentenza n. 25289 del 25 ottobre 2017, la Corte di Cassazione ha confermato (richiamando la pronuncia n. 11988/2011) che

 

“In tema di accertamento induttivo del reddito d’impresa ai fini Irpeg e Iva, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, la sussistenza di un saldo negativo di cassa, implicando che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, oltre a costituire un’anomalia contabile, fa presumere l’esistenza di ricavi non contabilizzati in misura almeno pari al disavanzo”.

 

Osserva la Corte che nella sopra richiamata sentenza è stato evidenziato che

sentenza corte di cassazione“La dottrina ragionieristica e, con essa, la giurisprudenza di questa Corte hanno chiarito che, siccome la chiusura ‘in rosso’ di un conto di cassa significa, senza possibilità di dubbio, che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, non si può fare a meno di ravvisare, senza alcuna forzatura logica, l’esistenza di altri ricavi, non registrati, in misura almeno pari al disavanzo.

Si deve conseguentemente ritenere che una chiusura di cassa con segno negativo oltre a rappresentare, sotto il profilo formale, un’anomalia contabile, denota sostanzialmente l’omessa contabilizzazione di un’attività (almeno) equivalente al disavanzo (Cass. n. 27585/2008 e n. 24509/2009)”.

 

La Corte ha censurato la sentenza d’appello, perchè, pur riconoscendo sussistente, quantomeno sul piano della regolarità formale, l’anomalia concernente la tenuta della contabilità, considera poi ingiustificata la conclusione circa l’occultamento di ricavi ed, in contrasto col riparto degli oneri probatori regolato dal regime di presunzioni del D.P.R. n. 633, art. 54, comma 2, e del D.P.R. n. 600, art. 39, c. 2, poichè

“I verificatori si sono limitati alle incongruenze di cassa senza ulteriori accertamenti, e così l’Ufficio che si è limitato ad operare riportandosi semplicemente al p.v.c.”,

in tal modo sollevando la società contribuente da qualsivoglia onere della prova al riguardo.

Per i massimi giudici, un “conto cassa” rientra sicuramente tra le scritture contabili, ancorchè non obbligatorie, astrattamente idonee ad essere utilizzate dall’ufficio ai fini dell’accertamento, quale “documento relativo all’impresa””, il suo controllo, con esito negativo, può fondare un legittimo accertamento in rettifica (Cass. n. 6166/2001), ed è senza dubbio “legittima l’utilizzazione, da parte dell’erario, dei movimenti bancari” ai fini dell’ accertamento della base imponibile (Cass. n. 446/2013, nella specie, imposta sul valore aggiunto).

 

Breve nota

Già di recente, con la sentenza n. 11988 del 31 maggio 2011 (ud. del 15 marzo 2011), peraltro richiamata e riprodotta nella sentenza che si annota, la Corte aveva già avuto modo di affermare che la

“ chiusura ‘in rosso’ di un conto di cassa significa, senza possibilità di dubbio, che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati”, e pertanto “non si può fare a meno di ravvisare, senza alcuna forzatura logica, l’esistenza di altri ricavi, non registrati, in misura almeno pari al disavanzo. Si deve conseguentemente ritenere che una chiusura di cassa con segno negativo oltre a rappresentare, sotto il profilo formale, un’anomalia contabile, denota sostanzialmente l’omessa contabilizzazione di un’attività (almeno) equivalente al disavanzo (Cassazione civile, sez. trib., n. 27585 del 2008 e n. 24509 del 2009)”.

 

La Corte, quindi, censura la sentenza d’appello, poichè contiene

“un vizio logico quando, pur riconoscendo l’anomalia, considera ingiustificata la conclusione dell’occultamento di ricavi”.

Inoltre, la decisione dei giudici d’appello

“non rende conto delle ragioni addotte dal fisco nel processo verbale di verifica per accreditare la propria tesi (inattendibilità di magazzino, sommarietà e correzioni degli inventari, costi del venduto incongruenti, assenza di prestiti e/o conferimenti, etc.), limitandosi ad annotare che il saldo negativo si esaurirebbe ‘nell’ambito puramente finanziario della contabilità’, senza ulteriori specificazioni, necessarie per superare la presunzione ex actis di maggiori guadagni e i principi contabili di veridicità e chiarezza dei bilanci societari (artt. 2423 e 2424 c.c.)”.

 

Infine, in ordine al riparto degli oneri probatori regolato dal regime di presunzioni del D.P.R. n. 633, art. 54, comma 2, e del D.P.R. n. 600, art. 39, comma 2, la Corte cassa l’affermazione dei giudici d’appello secondo cui “l’ufficio avrebbe dovuto fornire prova per dimostrare il rapporto tra la movimentazione del conto cassa e gli ulteriori ricavi in stretta relazione accertati”.

Per le ragioni esposte, in accoglimento del ricorso e previa cassazione della sentenza impugnata, la causa viene rinviata ad altra sezione della commissione tributaria regionale competente, che dovrà rinnovare il giudizio uniformandosi ai principi sopra esposti e così in sintesi enunciati:

“In tema di accertamento induttivo del reddito d’impresa ai fini Irpeg e Iva, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, la sussistenza di un saldo negativo di cassa, implicando che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, oltre a costituire un’anomalia contabile, fa presumere l’esistenza di ricavi non contabilizzati in misura almeno pari al disavanzo”.

 

Ancor prima la Cassazione (sentenza n. 24509 del 20 novembre 2009, ud. del 13 ottobre 2009) aveva respinto la censura relativa alla conferma da parte della C.T.R. dell’accertamento eseguito dall’Ufficio con metodo analitico induttivo con il quale è stato identificato l’importo dei ricavi non contabilizzati sulla base della cifra corrispondente al saldo negativo espresso nel conto cassa al 02.01.1994, senza, peraltro che fossero computati i costi relativi alla ricostruzione del reddito, ribadendo il medesimo principio: la sussistenza di un saldo negativo di cassa, implicando che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, oltre a costituire un’anomalia contabile, fa presumere l’esistenza di ricavi non contabilizzati in misura almeno pari al disavanzo.

Sempre la Suprema Corte (sentenza 20 novembre 2008, n. 27585) ha affermato che la cassa rossa è un elemento sintomatico delle gravi anomalie di una contabilità e che:

“in effetti, poiché la chiusura in rosso di un conto di cassa significa, senza possibilità di dubbio, che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degl’introiti registrati, non si può fare a meno di ravvisare, senza alcuna forzatura logica, l’esistenza di altri ricavi, non registrati, in misura almeno pari al disavanzo. Si deve conseguentemente ritenere che una chiusura di cassa con segno negativo oltre a rappresentare, sotto il profilo formale, un’anomalia contabile, denota sostanzialmente l’omessa contabilizzazione di un’attività (almeno) equivalente al disavanzo”.

 

Ed ancora, con la sentenza n. 17004 del 5 ottobre 2012 (ud 4 luglio 2011) la Corte di Cassazione ha confermato che la cassa in rosso è spia di nero.

Come rilevato dai giudici di secondo grado

“il conto cassa non può essere negativo, semplicemente perchè in tale conto confluisce soltanto il denaro liquido”, di talchè “il conto cassa può assurgere ad una dimensione innaturale … soltanto in ipotesi che si sia incassato denaro contante, sia stata omessa la scrittura relativa di entrata in cassa dello stesso DARE e, successivamente, si sia fatto uscire dalla stessa con apposita scrittura in AVERE per una sua utilizzazione”.

 

Il Collegio ritiene, quindi, di dover dare continuità al principio:

“In tema di accertamento induttivo del reddito d’impresa ai fini Irpeg e Iva, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, la sussistenza di un saldo negativo di cassa, implicando che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, oltre a costituire un’anomalia contabile, fa presumere l’esistenza di ricavi non contabilizzati in misura almeno pari al disavanzo (Sez.5, nn. 11998 del 2011, 27585 del 2008, 24509 del 2009).

 

Prosegue la sentenza affermando che

“la dottrina ragionieristica e, con essa, la giurisprudenza di questa Corte hanno chiarito che, siccome la chiusura ‘in rosso’ di un conto di cassa significa, senza possibilità di dubbio, che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degl’introiti registrati, non si può fare a meno di ravvisare, senza alcuna forzatura logica, l’esistenza di altri ricavi, non registrati. Si deve conseguentemente ritenere che una chiusura di cassa con segno negativo oltre a rappresentare, sotto il profilo formale, un’anomalia contabile, denota sostanzialmente l’omessa contabilizzazione di attività (almeno equivalente al disavanzo).

Di talchè, atteso il riparto degli oneri probatori regolato dal regime di presunzioni del D.P.R. n. 633, art. 54, comma 2, e del D.P.R. n. 600, art. 39, comma 2, l’Ufficio non era tenuto fornire prova ulteriore per dimostrare il rapporto tra la movimentazione del conto cassa e gli ulteriori ricavi accertati.

Com’è noto, in questi casi, l’onere della prova s’inverte dovendo la società contribuente offrire prove contrarie merce la dimostrazione di ulteriori componenti positive del reddito (es. a titolo di prestiti e/o conferimenti, corrispondenti al suddetto saldo di cassa e di provenienza diversa rispetto ai ricavi contabilizzati), ovvero dimostrare errori di scritturazione e/o problemi d’impostazione contabile”.

 

E da ultimo, con l’ordinanza n. 4713 del 25 febbraio 2013 la Corte di Cassazione ha legittimato l’accertamento presuntivo dell’ufficio, in presenza di una cassa negativa, che determina maggiori ricavi non contabilizzati.

La cassa in rosso rappresenta una spia di omessa contabilizzazione di ricavi equivalente al disavanzo.

Resta fermo, per il contribuente, di dimostrare motivazioni diverse della ricostruzione operata dall’ufficio (per es. mancata rilevazione contabile di versamenti).

Che la cassa sia in rosso continua ad essere un mistero anche per i ragioneri, atteso che appare impossibile che dal conto cassa sia uscito più denaro di quanto ne sia entrato. Al più il saldo può essere in parità.

E’ quindi legittimo presumere che il saldo negativo sia stato determinato dalla mancata contabilizzazione di ricavi, cosa peraltro non infrequente nelle attività rivolte nei confronti di consumatori finali, salvo eventuali errori di registrazione contabili (per esempio, registrazione di un pagamento di un fornitore nel conto cassa anziché nel conto banca; registrazione cronologica prima delle uscite e successivamente delle entrate1), che spetta comunque al contribuente provare e documentare.

 

15 novembre 2017

Gianfranco Antico

 

1 Cfr. F.DEZZANI – L.DEZZANI, Cassa negativa uguale ricavi non contabilizzati. Ipotesi alternative?, in IlFisco n. 31/ 2010, pag. 4935.