Lo scudo fiscale è indizio di residenza in Italia? (il caso di un noto pilota ci introduce alla nuova Voluntary Disclosure)

la presentazione di una pratica di scudo fiscale può essere considerata un indizio di residenza in Italia da parte del contribuente? La Cassazione tratta il caso di un noto motociclista avente residenza in un paradiso fiscale e che ha presentato lo scudo fiscale in Italia

Voluntary DisclosureLa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19484 del 30.09.2016, ha chiarito alcuni importanti aspetti in tema di residenza fiscale.

Nel caso di specie, un noto pilota motociclistico aveva proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale, che aveva parzialmente accolto l’appello del contribuente contro la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale, che aveva a sua volta invece rigettato il suo ricorso avverso l’avviso di accertamento, con cui, in relazione all’anno d’imposta 2003, era stato recuperato a tassazione un maggior imponibile a titolo di IRPEF, IRAP, IVA, imposta sostitutiva, addizionali regionale e comunale, sanzioni ed interessi.

L’avviso di accertamento era fondato sulla ritenuta natura fittizia del trasferimento della residenza, operato dal pilota, nel 1993 dall’Italia nel Principato di Monaco; natura fittizia basata sulla presunzione di cui all’art. 2, c. 2-bis, del TUIR (ai sensi del quale sono considerati residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato, tra i quali è compreso il Principato di Monaco) e, soprattutto, sull’adesione del pilota alla regolarizzazione delle attività finanziarie detenute all’estero, ai sensi dell’art. 15 del d.l. n. 350 del 2001 (convertito dalla legge n. 409 del 2001) (c.d. scudo fiscale).

 

Il giudice d’appello aveva dunque ritenuto che:

a) l’avere il contribuente aderito allo scudo fiscale di cui al d.l. n. 350 del 2001 aveva comportato che egli si era autodichiarato fiscalmente residente in Italia per l’anno in contestazione, né era sufficiente l’iscrizione all’AIRE perché potesse essere considerato fiscalmente non residente;

b) la ratio legis dello scudo fiscale tendeva ad estendere il concetto di residenza in Italia, anche al fine di allargare la sfera di utilizzazione dell’istituto, e non sussisteva alcun interesse, per un cittadino straniero, a scudare capitali in Italia;

c) la differenza tra rimpatrio di capitali e regolarizzazione degli stessi, lungi dal comportare il venir meno, nel secondo caso, del presupposto della residenza in Italia, rilevava soltanto nel senso che con la procedura di rimpatrio i capitali potevano legittimamente circolare in Italia, mentre con la procedura di regolarizzazione il contribuente poteva conservare all’estero le attività oggetto di emersione;

Era invece considerata legittima, trattandosi di accertamento induttivo, la richiesta del contribuente di ricollegare ai maggiori ricavi l’incidenza dei maggiori costi emersi dagli stessi accertamenti compiuti, indipendentemente dalla prova che la parte avesse fornito, poiché altrimenti si sarebbe assoggettato illegittimamente ad imposta, come reddito d’impresa, il profitto lordo anziché quello netto.

Presentato ricorso davanti alla Suprema Corte, il contribuente eccepiva che il giudice d’appello, nell’affrontare il tema di fondo della controversia, concernente l’individuazione della residenza fiscale, aveva attribuito efficacia decisiva al fatto che egli aveva aderito allo scudo fiscale, con l’implicito effetto di rendere superfluo l’esame della documentazione probatoria esibita dal contribuente al fine di vincere la presunzione di cui all’art. 2, c. 2-bis, TUIR.

Il ricorrente, inoltre, premesso che, nella dichiarazione riservata, presentata ai sensi dell’art. 15 del citato d.l. n. 350 del 2001, non aveva dichiarato di essere residente in Italia, bensì nel Principato di Monaco, osservava, in sintesi, che:

a) i criteri per la determinazione della residenza fiscale in Italia sono esclusivamente quelli indicati nell’art. 2 del d.P.R. n. 917 del 1986, alla cui disciplina la presentazione della dichiarazione di condono costituiva elemento totalmente estraneo;

b) la regolarizzazione delle attività finanziarie detenute all’estero, di cui al menzionato art. 15, non presupponeva, contrariamente all’istituto del rimpatrio, previsto dal precedente art. 12 del medesimo d.l. n. 350/01, che il dichiarante fosse fiscalmente residente nel territorio dello Stato, come risultava dal raffronto del tenore letterale delle due disposizioni e da ragioni di tipo logico-sistematico;

c) ove pure, in ipotesi, la disciplina dettata dall’art. 15 fosse stata intesa come riferita ai soli soggetti residenti, la conseguenza della sua utilizzazione da parte di un non residente sarebbe stata soltanto l’inefficacia della stessa, senza alcuna implicazione in ordine alla determinazione della residenza fiscale;

d) solo nella circolare emanata nel 2009 in relazione all’art. 13-bis del d.l. n. 78 del 2009 (c.d. scudo fiscale ter), e non anche in quella adottata nel 2001, era prescritto che il soggetto interessato, ove rientrante tra quelli contemplati nel citato art. 2, c. 2-bis, del TUIR, dovesse manifestare il proprio status di residente italiano, “rinunciando pertanto alla possibilità di fornire la prova contraria” ivi prevista.

I motivi di ricorso, secondo la Cassazione, erano fondati.

Il decreto-legge 25 settembre 2001, n. 350 (convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 409), al Capo III rubricato «Emersione di attività detenute all’estero», disciplina infatti gli istituti del rimpatrio e della regolarizzazione.

E, per quanto qui rilevava, l’art. 12 («Rimpatrio») prevedeva, al comma 1, che «Nel periodo tra il 1 novembre 2001 e il 28 febbraio 2002 gli interessati fiscalmente residenti in Italia che rimpatriano, attraverso gli intermediari, denaro e altre attività finanziarie detenute almeno al 1 agosto 2001 fuori del territorio dello Stato, senza l’osservanza delle disposizioni di cui al decreto-legge n. 167 del 1990, possono conseguire gli effetti indicati nell’articolo 14 con il versamento di una somma pari al 2,5 per cento dell’importo dichiarato delle attività finanziarie medesime…»; mentre l’art. 15 («Regolarizzazione delle attività finanziarie detenute all’estero») disponeva, al comma 1, che «In conformità alle disposizioni del Trattato istitutivo della Comunità europea in materia di libera circolazione dei capitali, gli interessati che comunque detengono all’estero alla data di entrata in vigore del presente decreto attività finanziarie, possono conseguire gli effetti indicati nell’articolo 14, ad eccezione del comma 8, relativamente alle attività finanziarie mantenute all’estero e regolarizzate, con il versamento della somma indicata nell’articolo 12, comma 1…».

Le disposizioni di cui al Capo III del d.l. n. 350 del 2001 venivano poi estese, ai sensi dell’art. 6 del d.l. 24 dicembre 2002, n. 282 (convertito dalla legge 21 febbraio 2003, n. 27,), anche «alle operazioni di rimpatrio e regolarizzazione effettuate fino al 30 settembre 2003, relativamente ad attività detenute fuori dal territorio dello Stato alla data del 31 dicembre 2001».

Il thema decidendum non consisteva quindi nello stabilire se l’istituto della regolarizzazione delle attività finanziarie detenute all’estero, di cui al richiamato art. 15 del d.l. n. 350 del 2001, fosse riservato ai soggetti fiscalmente residenti in Italia, come previsto espressamente dall’art. 12 in ordine al rimpatrio, oppure fosse utilizzabile anche dai non residenti (o, comunque, dal ricorrente), bensì nel valutare la correttezza dell’attribuzione alla relativa dichiarazione dell’effetto di stabilire ex se, in veste di “autodenuncia“, e quindi in via automatica ed assorbente ogni altra valutazione probatoria, la residenza italiana del dichiarante.

Tale ultima tesi, secondo i giudici di legittimità, non era condivisibile.

I criteri per la determinazione della residenza nel territorio dello Stato sono infatti indicati nell’art. 2 del d.P.R. n. 917 del 1986, il quale individua, a tal fine, al comma 2, tre presupposti, in via alternativa: il primo, formale, rappresentato dall’iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente per la maggior parte del periodo d’imposta; e gli altri due, di fatto, costituiti dal domicilio o dalla residenza nello Stato ai sensi del codice civile (sempre per lo stesso arco temporale minimo).

Il comma 2-bis, poi, che qui specificamente interessava, stabiliva (nel testo vigente ratione temporis) che «si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato», individuati con decreto del Ministro delle finanze del 4 maggio 1999 (c.d. paesi black list).

La residenza in Italia del ricorrente, iscritto all’AIRE e residente nel Principato di Monaco (paese inserito nell’elenco di cui al predetto d.m.), andava, quindi, accertata alla stregua della disposizione ora indicata, la quale, come visto, prevedeva una presunzione relativa di residenza in Italia (e cioè di fittizietà della residenza monegasca), che poteva però essere vinta dall’interessato fornendo la prova contraria.

Nell’applicazione di tale disciplina, si rivelava dunque errato attribuire, come invece aveva fatto il giudice a quo, alla dichiarazione riservata presentata ai fini della regolarizzazione, natura decisiva di “autodichiarazione“, o “autodenuncia“, della propria residenza italiana (e ciò sulla base della considerazione che i destinatari e potenziali beneficiari dell’istituto sono soltanto i soggetti residenti), con l’effetto di rendere in radice superfluo l’esame degli elementi probatori addotti dal contribuente al fine di superare la menzionata presunzione.

Tale qualificazione giuridica, dotata della predetta efficacia dirimente e preclusiva, non aveva quindi fondamento normativo; e l’avere inteso regolarizzare e non rimpatriare alcune attività detenute all’estero non determinava, per ciò solo, in assenza di una chiara previsione (o di specifica e idonea dichiarazione), l’effetto della acquisizione, da parte del dichiarante, della residenza in Italia, né quello di privarlo, per una sorta di implicita rinuncia, del diritto alla prova contraria, convertendo la presunzione in certezza.

In definitiva, il comportamento in esame non poteva avere, di per sé, tali automatiche e drastiche conseguenze, potendo solo essere oggetto di valutazione nell’ambito del complesso degli elementi probatori acquisiti in giudizio ai fini di cui al citato art. 2, c. 2-bis, del TUIR.

Si ricorda comunque, in conclusione, che ai sensi dell’art. 2 del Tuir gli elementi che determinano la residenza fiscale di un soggetto persona fisica sono i seguenti:

– un elemento temporale, quale la maggior parte del periodo d’imposta;

– alcuni elementi tra loro alternativi, ovvero:

a) l’iscrizione anagrafica;

b) il domicilio (ossia la sede principale degli affari e interessi ex art. 43, c. 1 c.c.);

c) la residenza (ossia la dimora abituale ex art. 43, c. 2, c.c.).

Per quanto riguarda il presupposto temporale, la Circolare 304/E del 2/12/1997 precisa che “con tale requisito il legislatore ha inteso, in effetti, richiedere la sussistenza di un legame effettivo e non provvisorio del soggetto con il territorio dello Stato, tale da legittimare il concorso alle spese pubbliche in ottemperanza ai doveri di solidarietà di cui all’articolo 2 della Costituzione“.

Quanto agli altri requisiti bisogna evidenziare che l’iscrizione all’Anagrafe dei residenti rappresenta una presunzione assoluta ai fini della prova della residenza fiscale in Italia. Contro di essa quindi non è ammessa prova contraria.

La sua sussistenza, quindi, non potrà essere contestata.

Invece la cancellazione dall’anagrafe dei residenti e l’iscrizione nell’anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), come anche visto dalla sentenza in commento, non costituisce elemento per escludere tout court il domicilio o la residenza nello Stato, ma rappresenta solo una presunzione legale relativa (superabile quindi con prova contraria) a favore del contribuente.

Tanto detto in merito al requisito dell’iscrizione all’Anagrafe, per quanto riguarda invece l’altro requisito (alternativo) della residenza, questa, secondo la definizione che se ne dà nel codice civile, corrisponde al luogo in cui la persona ha la propria dimora abituale, ai fini della cui sussistenza assumono grande importanza sia l’elemento (oggettivo) della stabile permanenza, che quello (soggettivo) della volontà del soggetto di rimanere in un dato luogo.

La residenza, quindi, non viene meno per una più o meno prolungata assenza, specie se occasionata da motivi contingenti (viaggi di studio o di lavoro, ecc.), semprechè comunque la persona vi conservi l’abitazione e vi ritorni quando possibile.

Per quanto riguarda infine il domicilio, esso è definito come il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi.

Il concetto è ribadito dalla Circolare n. 304/E del 2 dicembre 1997, che specifica che “la giurisprudenza prevalente sostiene che il domicilio è un rapporto giuridico con il centro dei propri affari e prescinde dalla presenza effettiva in un luogo. Esso consiste dunque principalmente in una situazione giuridica che, prescindendo dalla presenza fisica di un soggetto, è caratterizzata dall’elemento soggettivo, cioè dalla volontà di stabilire e conservare in quel luogo la sede principale dei propri affari ed interessi”.

La valutazione da effettuare in questi casi è dunque spiccatamente di fatto, intendendo, così continua la circ. 304/E, “la locuzione “affari ed interessi” in senso ampio, cioè comprensivo non solo di rapporti di natura patrimoniale ed economica ma anche morali, sociali e familiari; sicchè la determinazione di domicilio va desunta alla stregua di tutti gli elementi di fatto che, direttamente o indirettamente, attestino la presenza in un certo luogo di tale complesso di rapporti ed il carattere principale che esso ha nella vita della persona”.

Dunque, l’art 2, c. 2, del Tuir contiene una nozione di residenza fiscale più ampia di quella civilistica, comprendendo sia le persone che per la maggior parte dell’anno sono rimaste iscritte all’anagrafe dei comuni italiani (obbligatoria ai sensi dell’art. 2 L. 1228/1954, ma ad oggi senza sanzione), sia quelle che hanno dimorato abitualmente in Italia, sia infine quelle che hanno comunque mantenuto nel territorio nazionale il proprio domicilio, inteso, come detto, come sede principale degli affari ed interessi (economici e personali).

L’Amministrazione Finanziaria, peraltro, vista l’alternatività di tali presupposti, potrà contestare la fittizietà del trasferimento all’estero, dimostrando la sussistenza anche soltanto di uno di questi elementi.

In tale contesto, proprio al fine di agevolare l’azione di contrasto dell’Amministrazione Finanziaria, l’art. 10 della L. n. 448 del 1998 ha infine provveduto ad integrare (e rafforzare) i criteri fissati dall’art. 2 del DPR n. 917 del 1986, introducendo il citato comma 2 bis.

Per quanto riguarda in particolare la prova contraria che il contribuente può offrire, come anche evidenziato nella Circolare n. 140/99, questa potrà consistere:

  • nella dimostrazione della sussistenza della dimora abituale nel paese fiscalmente privilegiato (sia personale che dell’eventuale nucleo familiare);

  • l’iscrizione ed effettiva frequenza dei figli presso istituti scolastici o di formazione del paese estero;

  • lo svolgimento di un rapporto di lavoro continuativo, ovvero l’esercizio stabile di un’attività economica nel Pese estero;

  • la stipula di contratti di acquisto e locazione di immobili residenziali nel paese estero;

  • le fatture o ricevute di erogazione di servizi di gas, telefono, luce etc. pagate nel paese estero;

  • la movimentazione di somme di denaro nel paese estero;

  • l’iscrizione a liste elettorali nel paese estero.

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15 giugno 2017

Giovambattista Palumbo