Impresa familiare: i familiari non sono soci

in tema di imposte sui redditi d’impresa, l’esborso che il titolare dell’impresa familiare effettua in favore del congiunto a titolo di liquidazione per la cessazione del rapporto partecipativo non è deducibile dal reddito d’impresa in quanto non inerente

La recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 6721 del 15 marzo 2017) ha affermato che in tema di imposte sui redditi d’impresa, l’esborso che il titolare dell’impresa familiare effettua in favore del congiunto a titolo di liquidazione per la cessazione del rapporto partecipativo non è deducibile dal reddito d’impresa, non trattandosi di un costo da cui derivi un pur potenziale ricavo e mancando quindi il requisito dell’inerenza.

 

La questione oggetto di pronuncia della Corte di Cassazione

Il titolare di una farmacia, in regime d’impresa familiare, adiva la Commissione tributaria provinciale per l’annullamento dell’avviso di accertamento, con il quale l’ufficio recuperava a tassazione quanto versato per la liquidazione a due familiari collaboratori, facendo leva sulla natura individuale dell’impresa familiare e sul carattere interno dell’imputazione reddituale pro quota, negando l’inerenza delle spettanze di liquidazione dei partecipanti.

La sentenza favorevole alla parte veniva impugnata dall’ufficio, appello che veniva respinto dalla CTR.

La Corte dà inizio al suo assunto prendendo atto che “l’impresa di cui all’art. 230-bis c.c. appartiene individualmente al titolare, sicché il diritto dei familiari alla liquidazione della partecipazione è soltanto un diritto di credito rapportato a una quota di beni, utili ed incrementi (Cass. 15 aprile 2004, n. 7223, Rv. 572099)”.

La liquidazione alla cessazione del rapporto con l’impresa familiare consolida il diritto di credito del partecipante alla quota di beni, utili ed incrementi (Cass. 6 settembre 2016, n. 17639, Rv. 640823)”.

Resta fermo che “Questo credito interno al rapporto personale di natura familiare non è deducibile dal reddito d’impresa, giacché difetta il requisito dell’inerenza, non trattandosi di un costo da cui derivi un pur potenziale ricavo”.

Né “sussiste il paventato rischio della doppia imposizione, giacché la liquidazione corrisposta al familiare – indeducibile per quanto ora detto – non è però tassabile ai sensi dell’art. 5, comma 4, d.P.R. n. 917 del 1986, quest’ultimo concernendo la diversa fattispecie dei «redditi delle imprese familiari»”.

L’IMPRESA FAMILIARE

L’impresa familiare, introdotta nel nostro ordinamento dalla L. 19 maggio 1975, n. 151, è disciplinata, dal punto di vista civilistico, dall’art. 230-bis c.c., secondo cui sussiste l’impresa familiare nel momento in cui, nelle forme dovute, collaborino all’attività d’impresa del titolare i suoi familiari (coniuge, parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo).

Tale forma di impresa resta ditta individuale e non collettiva, anche se gestita con la collaborazione dei familiari.

E, quindi, è imprenditore unicamente il titolare dell’impresa, il quale la esercita assumendo in proprio diritti ed obbligazioni, oltre la piena responsabilità verso i terzi, tant’è che il fallimento dell’imprenditore non coinvolge i familiari e le eventuali perdite sono imputate esclusivamente al titolare dell’impresa (R.M. n. 176/E del 28 aprile 2008). La stessa risoluzione chiarisce che la liquidazione al coniuge del diritto di partecipazione all’impresa familiare afferisce alla sfera personale dei soggetti del rapporto in questione e non è riconducibile a nessuna delle categorie reddituali previste dal TUIR; l’importo attribuito non va pertanto assoggettato ad IRPEF in capo al soggetto percipiente. La somma in questione non rileva come componente negativo e non è deducibile dal reddito d’impresa, non ricorrendo il requisito dell’inerenza previsto dall’art. 109, c. 5 del TUIR, che si configura per le spese riferite ad attività da cui derivano proventi che concorrono a formare il reddito.

Ai fini reddituali (art. 5, cc. 4 e 5, del T.U. n. 917/86) i redditi delle imprese familiari di cui all’art. 230-bis c.c., limitatamente al 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili.

Se per l’impresa familiare il reddito oggetto di dichiarazione può essere attribuito (in misura non superiore al 49%) ai collaboratori, ne discende che l’eventuale maggior reddito accertato nei confronti dell’impresa familiare da parte dei verificatori, è imputabile esclusivamente ed integralmente al suo titolare.

Come rilevato dalla circolare n. 6/84 “l’imputazione proporzionale in questione va effettuata sul reddito della impresa familiare risultante dalla dichiarazione dell’imprenditore. Ne discende che l’imputazione stessa può essere fatta soltanto sul reddito dichiarato e non sul maggior reddito accertato né sul reddito accertato dall’Ufficio in caso di omessa dichiarazione del titolare, i quali vanno perciò attribuiti esclusivamente al titolare dell’impresa e non possono, quindi, essere imputati pro quota agli altri familiari aventi diritto alla partecipazione agli utili dell’impresa. Come ulteriore conseguenza si ha che le sanzioni amministrative e penali che si rendano applicabili in dipendenza della mancata presentazione della dichiarazione o dell’accertamento del maggior reddito d’impresa vanno irrogate nei soli confronti del titolare dell’impresa, quale unico agente cui va ricondotto l’evento omissivo assunto ad elemento costitutivo delle fattispecie sanzionatorie e previste dalla vigente normativa fiscale”.

Pertanto, qualora venga rilevato un maggior reddito questo viene imputato, in sede di accertamento, al 100%, all’imprenditore, senza imputare nulla ai collaboratori (in senso confermativo C.M. n. 23/2006 e R.M. n. 78/2015).

La stessa Corte di Cassazione (Ord. n. 17010/2013) ha affermato che “i familiari collaboratori non sono contitolari dell’impresa familiare, ed i redditi loro imputati sono reddito di puro lavoro, non assimilabili a quello di impresa, tanto che – a prescindere dalla natura, subordinata, autonoma o comparata, del detto lavoro – essi sono esclusi dall’ILOR, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 599, art.1, comma 2, lett. a), come emendato dalla sentenza della Corte Costituzionale n.42 del 1980 (V. pure Cass. Sentenza n. 4714 del 17/04/1992)”.

Sempre la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10777 dell’8 maggio 2013 (ud. 14 marzo 2013), ha attribuito al titolare dell’impresa familiare l’onere del versamento dell’Irap in quanto detta imposta colpisce il valore della produzione dell’impresa e la presenza dei partecipanti integra quel quid pluris atto a produrre ricchezza ulteriore. Sono esenti, invece, dal versamento del tributo i familiari/collaboratori.

E ancora di recente, con la sentenza n.2472 del 10 febbraio 2017, che trae origine da un avviso di accertamento a seguito di verifica fiscale eseguita dalla Guardia di finanza nei confronti di un’impresa familiare, la Corte, pur precludendo ab origine, nel caso in questione, la valutazione sull’asserita riconducibilità alla norma dei maggiori ricavi emersi in via di accertamento, per l’assenza delle condizioni previste, precisa che resta fermo, in ogni caso, “che i familiari collaboratori non sono contitolari dell’impresa familiare, ed i redditi loro imputati sono reddito di puro lavoro, non assimilabili a quello di impresa. La natura individuale dell’impresa familiare e la rilevanza della posizione degli altri familiari – che prestano la loro collaborazione e il loro apporto sul piano lavorativo – esclusivamente nei rapporti interni esclude, peraltro, che sia configurabile una ipotesi di litisconsorzio necessario (v. in tal senso, Cass. n. 874 del 2005, Rv. 579071). Ne’, comunque, è mutuabile la configurazione propria delle società, la cui disciplina – come precisato da Sez. U, n. 23676 del 2014 non può essere applicata, per incompatibilità, all’esercizio dell’impresa familiare”.

13 aprile 2017

Gianfranco Antico