Il reato di occultamento delle scritture contabili

il delitto si perfeziona con l’occultamento o la distruzione anche parziale della contabilità, purché tali da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari e risulta punibile anche il tentativo; il reato di occultamento delle scritture contabili può rilevare anche se si tratta di fatture relative a costi smarriti a causa di eventi naturali

sherlockCon la sentenza n. 7686 del 19 gennaio 2017, la Corte di Cassazione penale ha confermato che il delitto di cui all’art. 10 del D.Lgs. n. 74/2000, “tutelando il bene giuridico della trasparenza fiscale, è integrato in tutti i casi in cui la distruzione o l’occultamento della documentazione contabile dell’impresa non consenta o renda difficoltosa la ricostruzione delle operazioni, rimanendo escluso solo quando il risultato economico delle stesse possa essere accertato in base ad altra documentazione conservata dall’imprenditore e senza necessità di reperire aliunde elementi di prova (Sez. 3, n. 20748 del 16/03/2016, Capobianco, Rv. 267028). In particolare, e di conseguenza la Corte non può non rilevare la manifesta infondatezza del motivo proposto dall’odierno ricorrente, è già stato rilevato che anche l’occultamento o la distruzione di fatture ricevute da terzi (cd. fatture passive) integra il reato di cui all’art. 10 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, trattandosi di documenti che, oltre a rappresentare costi sostenuti e a incidere sulla ricostruzione dei redditi del destinatario di essi, sono comunque dimostrativi dell’esistenza di introiti a carico del soggetto emittente (Sez. 3, n. 15236 del 16/01/2015, Chiarolla, Rv. 263050)”.

A questo proposito, osserva la Corte, “a norma incriminatrice non si limita a sanzionare l’occultamento di componenti contabili attive, dal momento che l’oggetto materiale del reato è dato genericamente dalle scritture contabili e dai documenti di cui è obbligatoria la conservazione … infatti, i rilievi della Corte di Appello, in ordine alle mancate contabilizzazioni dei ricavi derivanti dai lavori in cantieri, nei quali furono utilizzati i beni acquistati in forza delle fatture occultate, semmai confermano che la sparizione delle fatture passive ha reso maggiormente difficoltosa la ricostruzione del volume d’affari, dato l’utilizzo irregolare, sotto il profilo fiscale, di beni così acquistati senza la conservazione dell’idonea traccia contabile”.

La Corte, inoltre, non accoglie neanche il secondo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente sottolineava “l’insussistenza dell’elemento della volontaria distruzione e/o occultamento della documentazione contabile, dal momento che la documentazione era andata perduta a seguito dell’allagamento dei locali della sede della società, ed anche nei giorni successivi all’evento del 24 maggio 2009 la residua documentazione era andata smarrita per varie ragioni. Sì che le emergenze processuali deponevano nel senso dell’evento eccezionale e non prevedibile, cui fare risalire la mancata conservazione dei documenti di spesa”.

In proposito, infatti, entrambi i Giudici del merito, “hanno palesato insanabili perplessità in ordine all’effettiva coincidenza tra la documentazione fiscale di cui è giudizio con la generica “documentazione”, senza alcun riferimento alle fatture ed ai documenti di trasporto in questione, che sarebbe stata vista galleggiare all’interno del locale riempito d’acqua”.

Concludono i giudici sostenendo che “la pretesa giustificazione in merito alla sparizione della documentazione contabile, quindi, non ha trovato alcun solido riscontro né logico né fattuale”.

Breve nota

Se con la sentenza n.1 9016 del 9 maggio 2016 la Corte di Cassazione ha ritenuto che la mancata detenzione delle fatture di acquisto ed il contemporaneo rinvenimento delle fatture presso il fornitore, configura il reato di occultamento o distruzione di scritture contabili di cui all’art.10, del D.Lgs. n. 74/20001 (osserva la Suprema Corte che “correttamente la Corte d’appello ha argomentato la condotta del reato di distruzione o occultamento dei documenti contabili con riferimento alle ‘fatture passive’ di vendita, emesse dalla società V. e rivenute in sede di accertamento fiscale, documenti che, oltre ad essere dimostrativi di un reddito in capo all’emittente, incidono sulla ricostruzione dei redditi del destinatario delle stesse, in quanto rappresentative di costi sostenuti, sicché è integrata anche la previsione del dolo specifico, atteso che quest’ultimo consiste testualmente nel fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto o di consentire l’evasione a terzi ( Sez. 3, n. 15236 del 16/01/2015, Chiarella, Rv. 263050). Anche con riferimento al dolo specifico la corte ha dato rilievo alla circostanza che il ricorrente gestiva società inattive, prive di sede legale, prive di documentazione contabile, costituite al solo scopo di ricevere merce da immettere sul mercato a costo concorrenziale, grazie all’evasione delle imposte; così che era dimostrato, sulla base delle stesse argomentazioni, anche l’evento dell’impossibile ricostruzione del volume degli affari stante l’assenza della documentazione contabile2), con la sentenza n. 20265 del 15 maggio 2014, la Corte di Cassazione ha ritenuto sussistente il reato di occultamento delle scritture contabili, ex art.10 del D.Lgs.n.74/2000, anche in assenza di una impossibilità assoluta di ricostruire il volume d’affari o dei redditi3.

Nel mezzo di queste pronunce la Corte si è ancora espressa con la sentenza n. 33504 del 30 agosto 2012 (ud. 12 aprile 2012), con cui ha affermato che l’occultamento e la distruzione delle scritture contabili costituisce un antefatto che non necessariamente deve ricorrere per la commissione del reato di cui all’art. 4, del D.Lgs. n. 74 del 20004, con la sentenza n. 20741 del 14 maggio 2013 (ud. 3 aprile 2013), con cui la Corte di Cassazione ha ritenuto responsabile il contribuente, quale titolare dell’omonima ditta, del reato di cui all’art.10, del D.Lgs. n. 74 del 2000, condividendo le considerazioni svolte dal secondo giudice circa l’inverosimiglianza delle giustificazioni addotte in ordine al mancato rinvenimento delle scritture contabili (né ha dato peso alle doglianze di parte, secondo cui, nel caso di specie non era emersa in alcun modo la volontà di occultare o distruggere le scritture contabili5), e con la sentenza n. 11537 dell’11 marzo 2014, dove la Corte di Cassazione ha ritenuto responsabile il contribuente del reato di occultamento di documenti contabili, non accogliendo la tesi difensiva tesa a dimostrare che le scritture contabili erano andate perse a seguito dell’allagamento del luogo in cui erano conservate.

Come è noto, l’art. 10 del D.Lgs.n.74/2000 prevede che, se il fatto non costituisce più grave reato, è punito chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non permettere la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari.

Fattispecie di reato che (cfr. circolare n. 154/E del 4 agosto 2000), è posta a garanzia di un corretto esercizio dell’attività accertatrice dell’Amministrazione finanziaria. La stessa circolare precisa che “l’occultamento e la distruzione dei registri e documenti contabili costituiscono due differenti modalità di esecuzione del reato. La prima (occultamento) consiste nel tenere nascosta la contabilità, per cui la fattispecie criminosa non può ritenersi integrata qualora – ad esempio – il contribuente abbia affidato a terzi la tenuta della propria contabilità; la distruzione, invece, consiste nell’eliminazione o soppressione materiale delle scritture contabili o dei documenti ovvero nel disfacimento degli stessi, così da impedirne la semplice lettura”.

Il delitto si perfeziona con l’occultamento o la distruzione anche parziale della contabilità, purché tali da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari e risulta punibile anche il tentativo (non operando l’esclusione di cui all’art. 6), nell’ipotesi in cui, nonostante l’occultamento o la distruzione dei documenti contabili, l’Amministrazione finanziaria riesca ugualmente a ricostruire analiticamente il reddito o il volume d’affari sulla scorta di altri elementi.

Per le Entrate, inoltre, il fatto che la norma preveda l’espressione salvo che il fatto costituisca più grave reato, “esclude in particolare, il concorso fra il delitto in argomento e quello di bancarotta fraudolenta documentale, statuendo la prevalenza di quest’ultimo”.

21 marzo 2017

Gianfranco Antico

1 Nel corso della verifica fiscale effettuata nei confronti della società V. venivano rivenute fatture di vendita di prodotti alimentari alla società C., unitamente ad altra documentazione che ne attestava il rapporto intercorso. I successivi accertamenti svolti presso la società utilizzatrice del ricorrente davano esito negativo quanto all’esibizione della documentazione fiscale – le società erano prive di struttura e non avevano mai presentato dichiarazioni fiscali.

2 La Corte, richiamando il proprio orientamento, ha affermato che “condotta idonea ad integrare il reato di cui all’art. 10 del d.lgs n. 74 del 2000, non sarebbe solamente quella volta alla evasione delle imposte dirette o sul valore aggiunto consistente nell’occultare o distruggere le scritture contabili ovvero la documentazione la cui tenuta è obbligatoria, ma anche la condotta di chi, al medesimo fine, si limiti ad omettere la tenuta della documentazione contabile, essendo sufficiente per l’integrazione del reato de quo, anche la sola impossibilità relativa ovvero una semplice difficoltà di ricostruzione del volume degli affari e dei redditi, derivante, appunto da detta omissione (Sez. 3, n. 3 n. 28656 del 14 luglio 2009, Pacifico, Rv 244583; Sez. 3, n. 3057 del 14/11/2007 Lanteri, Rv. 238614). A tale orientamento se ne contrappone un altro, più recente, secondo il quale la condotta del reato richiede un comportamento attivo e commissivo di distruzione o occultamento dei documenti contabili la cui istituzione e tenuta è obbligatoria per legge (Sez. 3, n. 11643 del 20/03/2015, Sez. 3 n. 11643 del 15/10/2014; Sez. 3, n. 38224 del 28 ottobre 2010). Tale orientamento è pienamente condivisibile perché fondato sulla chiara lettera della legge e sulla ratio della norma già ricollegata, da questa Corte, alla tutela del bene giuridico rappresentato dall’interesse statale alla trasparenza fiscale del contribuente (Sez. 3, n. 3057 del 14/11/2007, Lanteri, Rv. 238613”. La disposizione di cui all’art. 10 d.lgs 74 del 2000 prevede, quindi, “una doppia alternativa condotta riferita ai documenti contabili (la distruzione e l’occultamento totale o parziale), un dolo specifico di evasione propria o di terzi e un evento costitutivo, rappresentato dalla sopravvenuta impossibilità di ricostruire, mediante i documenti i redditi o il volume degli affari al fine dell’imposta sul valore aggiunto. È evidente che si tratta di un reato a condotta vincolata commissiva con un evento di danno, rappresentato dalla perdita della funzione descrittiva della documentazione contabile. Ne consegue che la condotta del reato de quo non può sostanziarsi in un mero comportamento omissivo ossia il non avere tenuto le scritture in modo tale che sia stato obbiettivamente più difficoltosa – ancorché non impossibile – la ricostruzione ex aliunde ai fini fiscali della situazione contabile, ma richiede, per l’integrazione della fattispecie penale un quid pluris a contenuto commissivo consistente nell’occultamento ovvero nella distruzione di tali scritture”.

3 Per giurisprudenza costante della Corte Suprema, “il delitto di distruzione od occultamento di scritture contabili o documenti obbligatori, non richiede, per la sua integrazione, che si verifichi in concreto una impossibilità assoluta di ricostruire il volume d’affari o dei redditi, essendo sufficiente anche una impossibilità relativa, non esclusa quando a tale ricostruzione si possa pervenire ‘aliunde’ (cfr. ex plurimis sez. 3, n. 39711 del 4.6.2009, Acerbis, rv. 244619)”. Per la Corte, “in tema di reati tributari, l’impossibilità di ricostruire il reddito od il volume d’affari derivante dalla distruzione o dall’occultamento di documenti contabili non deve essere intesa in senso assoluto e sussiste anche quando è necessario procedere all’acquisizione presso terzi della documentazione mancante (sez. 3, n. 36624 del 18.7.2012, Pmt in proc. Pratesi, rv. 253365)”. Né può essere considerata una valida esimente della responsabilità dell’imputato, la circostanza addotta che l’imputato sarebbe stato un semplice prestanome. “Come rilevato dalla giurisprudenza di questa Corte l’amministratore di una società risponde del reato omissivo contestatogli quale diretto destinatario degli obblighi di legge, anche se questi sia mero prestanome di altri soggetti che abbiano agito quali amministratori di fatto, atteso che la semplice accettazione della carica attribuisce allo stesso doveri di vigilanza e controllo, il cui mancato rispetto comporta responsabilità penale o a titolo di dolo generico, per la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, o a titolo di dolo eventuale per la semplice accettazione del rischio che questi si verifichino, (così questa sez. 3, n. 22919 del 6.4.2006, Furini, rv. 234474, pronuncia nella quale, in applicazione di tale principio la Corte ha affermato la responsabilità dell’amministratore per omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali). Peraltro in materia di bancarotta, con un principio che, mutatis mutandis può essere applicato anche al caso e al reato in esame, è stato costantemente affermato che risponde del reato di bancarotta l’amministratore che, ancorché estraneo alla gestione dell’azienda, esclusivamente riconducibile all’amministratore di fatto, abbia omesso, anche per colpa, di esercitare il controllo sulla regolare tenuta dei libri e delle scritture contabili. Ciò in quanto l’accettazione della carica di amministratore, anche quando si tratti di mero prestanome, comporta l’assunzione dei doveri di vigilanza e di controllo di cui all’art. 2932 cod. civ. (cfr. ex plurimis sez. 5, n. 31885 del 23.6.2009, Mazzara e altro, rv. 244497)”.

4 Infatti, la Corte di Cassazione ha ritenuto manifestamente infondato il motivo con cui si lamenta che la Corte d’appello non avrebbe considerato la mancanza di prova della fittizietà degli elementi passivi esposti in dichiarazione, in assenza di scritture contabili dalle quali desumere tale fittizietà. “E’ sufficiente richiamare, sul punto, l’interpretazione data da questa Corte al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, secondo cui, nell’accertamento dei reati tributari e, in particolare, ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele, il giudice può fare ricorso legittimamente ai verbali di constatazione redatti dalla Guardia di finanza per la determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa e può fare altresì ricorso all’accertamento induttivo dell’imponibile, secondo il disposto del D.P.R. 29 marzo 1973, n. 600, art. 39, quando non sia stata tenuta o sia stata tenuta irregolarmente la contabilità imposta dalla legge (Cassazione penale, sez. 3, 9 febbraio 2011, n. 28053; sez. 3, 18 dicembre 2007, n. 5786)”. E tale principio è stato, nel caso in esame, correttamente applicato dai giudici di primo e secondo grado, i quali hanno osservato che “nella dichiarazione Iva erano stati indicati elementi che non hanno trovato alcun riscontro nelle scritture contabili ed amministrative; scritture che, secondo la ricostruzione dell’imputato, erano andate smarrite, senza, tuttavia alcuna verosimile indicazione delle modalità di tale smarrimento e in assenza di denuncia sul punto”.

5 Per la Corte, i giudici del riesame, attraverso un percorso argomentativo coerente e del tutto immune da vizi logici hanno già risposto “alle critiche che oggi vengono riproposte circa la valenza del CD rom rinvenuto (considerato – condividendo le argomentazioni del primo giudice – un documento e una fonte diversa da quella la cui tenuta è imposta dalla legge), circa la finalità di evasione fiscale perseguita dall’imputato, circa l’inapplicabilità della prescrizione (attesa la natura permanente del reato) e circa l’impossibilità di concedere benefici”.