L'accertamento meramente riproduttivo del PVC della Guardia di Finanza comporta l’annullamento dell’atto per difetto di motivazione

torniamo a parlare di motivazione per relationem e del caso specifico dell’avviso di accertamento che riproduce pedissequamente il PVC: è validamente motivato? La motivazione dell’avviso di accertamento riveste importanza primaria in ogni vertenza tributaria in quanto i contribuenti devono essere posti nelle condizioni di conoscere il perché dell’attività del Fisco e di potersi difendersi adeguatamente

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La motivazione dell’avviso di accertamento riveste importanza primaria in ogni vertenza tributaria, in quanto i contribuenti devono essere posti nelle condizioni di conoscere il perché dell’attività del fisco e di difendersi adeguatamente. Per tale ragione, la motivazione dev’essere reale e non meramente “virtuale” o apparente, né limitarsi a un acritico recepimento delle proposte formulate nel processo verbale di constatazione, che raccoglie le risultanze della verifica fiscale.

Secondo quanto ha affermato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 12794 del 21.06.2016, la mancanza di una valutazione autonoma da parte dell’ufficio rispetto alle risultanze della verifica della Guardia di Finanza comporta l’annullamento dell’atto di accertamento per difetto di motivazione. L’ufficio infatti è sempre tenuto ad espletare una funzione valutativa ed estimativa consistente nella qualificazione giuridica dei rapporti, atti o documenti, cioè dei fatti rilevati dall’organo investigativo.

In linea generale, è perfettamente coerente con il sistema di garanzie configurato dalle stesse norme sull’accertamento e dallo Statuto del contribuente che la vera e propria rettifica compiuta dall’ufficio, che smentisce la dichiarazione del contribuente con le relative conseguenze in termini di recuperi e sanzioni, sia logicamente e anche temporalmente distinta rispetto ai rilievi compiuti in sede di controllo “sul campo”, dei quali dovrebbe rappresentare uno sviluppo ragionato, e non la trasposizione pedissequa.

Motivazione nel diritto tributario

Nel diritto amministrativo la motivazione (consistente nella indicazione delle ragioni che stanno a base della scelta operata attraverso l’atto adottato) è richiesta nella generalità dei casi nei quali l’amministrazione eserciti il proprio potere. Rispetto al diritto amministrativo, l’ambito del diritto tributario si caratterizza per l’assenza di discrezionalità nella determinazione dell’imposta.

Infatti, “l’assenza, da parte degli uffici finanziari, di valutazioni dispositive di interessi economico sostanziali, differenzia la motivazione degli atti impositivi da quella degli atti espressione di discrezionalità amministrativa. L’ufficio fiscale non deve infatti spiegare come ha contemperato una pluralità di interessi contrattuali tra di loro, ma deve solo indicare le ragioni fattuali e giuridiche di un atto suscettibile di incidere unilateralmente nella sfera giuridica del destinatario, consentendo a questo di valutare se – e per quali motivi – proporre ricorso”1.

La motivazione dell’accertamento tributario, elemento necessario dell’atto, in funzione di tutela diritti costituzionalmente garantiti previsti dagli artt. 24 e 113 della Costituzione, assume una funzione di garanzia nei confronti del destinatario dell’atto, in ambito amministrativo, nel contraddittorio, e giurisdizionale.

La motivazione degli atti impositivi e, in particolare, degli atti di accertamento, contiene l’insieme delle argomentazioni su cui si fonda la pretesa dell’ufficio, al fine di rendere edotto il contribuente delle ragioni di fatto e di diritto su cui gli atti medesimi si fondano, informando inoltre il destinatario dell’atto sulle ragioni di un provvedimento autoritativo, suscettibile di incidere unilateralmente sui suoi interessi.

Norme di riferimento

Nel settore delle imposte sui redditi, l’obbligo di motivazione degli atti (previsto in via generale per i provvedimenti amministrativi in forza dell’art. 3 della L. 07.08.1990, n. 241) poggia sull’art. 42 del D.P.R. n. 600/1973, il quale stabilisce al primo comma che “gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d’ufficio sono portati a conoscenza dei contribuenti mediante la notificazione di avvisi sottoscritti dal capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato”.

Il secondo comma aggiunge che “l’avviso di accertamento deve recare l’indicazione dell’imponibile o degli imponibili accertati, delle aliquote applicate e delle imposte liquidate, al lordo e al netto delle detrazioni, delle ritenute di acconto e dei crediti d’imposta, e deve essere motivato in relazione ai presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno determinato e in relazione a quanto stabilito dalle disposizioni di cui ai precedenti articoli che sono state applicate, con distinto riferimento ai singoli redditi delle varie categorie e con la specifica indicazione dei fatti e delle circostanze che giustificano il ricorso a metodi induttivi o sintetici e delle ragioni del mancato riconoscimento di deduzioni e detrazioni. Se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale”.

Infine, il terzo comma dell’articolo dispone che “l’accertamento è nullo se l’avviso non reca la sottoscrizione, le indicazioni, la motivazione di cui al presente articolo e ad esso non è allegata la documentazione di cui all’ultimo periodo del secondo comma”.

L’art. 56 del D. P. R. n. 633/1972, ai fini IVA, impone che nelle rettifiche analitiche delle dichiarazioni, di cui all’art. 54 del citato D.P.R. n. 633/1972, “devono essere indicati, specificatamente, a pena di nullità, gli errori, le omissioni e le false o inesatte indicazioni su cui è fondata la rettifica e i relativi elementi probatori. Per le omissioni e le inesattezze desunte in via presuntiva devono essere indicati i fatti certi che danno fondamento alla presunzione”.

Gli avvisi relativi ad accertamenti induttivi devono contenere, oltre all’imponibile determinato, l’aliquota e le detrazioni applicate, anche le ragioni per le quali sono state ritenute applicabili le norme che consentono l’induttivo.

Motivazione e prova

Secondo l’indirizzo della Cassazione (che si è pronunciata con sentenza n. 14200 del 27.10.2000), l’atto di accertamento/rettifica non deve indicare nella motivazione gli elementi probatori, essendo sufficiente che questi vengano forniti in sede processuale.

Occorre pertanto sicuramente argomentare (in fatto e in diritto) le condizioni e i presupposti in base ai quali è stato emanato l’atto di accertamento, mentre la dimostrazione delle “evidenze” a supporto della posizione dell’ufficio può essere demandata alla successiva fase giurisdizionale.

È evidente però che la fase del giudizio tributario, in una vertenza tra contribuenti e uffici, è meramente eventuale: se, quindi, il confronto tra le parti si svolge in sede amministrativa (come contraddittorio con l’ufficio) ambedue (contribuente e ufficio) non potranno ritenersi esonerati dal fornire gli elementi sui quali si fondano le rispettive posizioni.

La sentenza citata ha riaffermato un indirizzo che si era già consolidato in sede di legittimità, secondo il quale l’avviso di accertamento ha carattere di provocatio ad opponendum; esso quindi soddisfa l’obbligo della motivazione, ai sensi dell’art. 42 del D.P.R. 29.9.1973, n. 600, tutte le volte che il suo contenuto consenta al contribuente di conoscere la pretesa tributaria ad esso sottesa nei suoi elementi essenziali, e, quindi, di contestarne efficacemente l’an ed il quantum, e la censura deve ritenersi infondata quando il contribuente ha svolto le sue difese di merito contro gli elementi indicati nell’atto impositivo.

Come è noto, il giudizio tributario è costruito formalmente come giudizio di impugnazione dell’atto, ma tende all’accertamento sostanziale del rapporto, nel senso che l’atto è il veicolo di accesso al giudizio di merito, al quale si perviene per il tramite dell’impugnazione dell’atto, e nell’ambito del quale la motivazione risulta cruciale (proprio per accedere alla conoscenza della vicenda sostanziale).

Ciò è stato esplicitato dalla Corte Costituzionale (sentenza 27.7.94, n. 365): “il ricorso del contribuente, ancorché formalmente diretto all’atto impositivo, investe in realtà la sussistenza e l’entità dell’obbligazione tributaria, sicché la pronunzia del giudice consiste fondamentalmente nell’accertamento dell’obbligazione della stessa e, in via consequenziale della legittimità degli atti posti in essere dall’amministrazione finanziaria per provvedere alla riscossione coattiva delle imposte…”.

L’obbligo di motivazione non può essere assolutamente generico e deve possedere un contenuto minimo, consistente, oltre che nell’esposizione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche dell’accertamento, anche nell’indicazione delle risultanze istruttorie.

Motivazione per relationem

La motivazione è per relationem allorquando essa faccia rinvio a un altro atto, il quale (secondo le norme vigenti, integrate a seguito dell’avvento dello Statuto del contribuente dal D.Lgs. n. 32 del 26.01.2001) deve essere allegato all’atto principale, e con esso formalmente notificato al contribuente.

Sia la giurisprudenza che la dottrina sono concordi nel ritenere che la funzione di informazione della motivazione venga rispettata anche nel caso di motivazione per relationem, quando questa rinvia ad un precedente processo verbale di constatazione, se tale atto è in possesso del contribuente ed è idoneo ad illustrare le ragioni della rettifica, in quanto descrive chiaramente tutti i passaggi logici che conducono all’accertamento e consente, pertanto, l’esercizio del sindacato di legittimità (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 9.1.1973, n. 1).

In particolare, accade che gli uffici dell’Agenzia delle Entrate emettano avvisi di accertamento motivati per relationem al processo verbale di constatazione, utilizzando l’atto istruttorio “prodromico” (appunto, il pvc) per il perfezionamento dell’atto amministrativo esterno (l’avviso di accertamento).

Tra i riferimenti giurisprudenziali in materia, può essere richiamata la sentenza della Cassazione n. 11994 dell’8.8.2003 (depositata il 18.11.2002): “in tema di avviso di accertamento, la motivazione per relationem non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’ufficio degli elementi acquisiti dalla Guardia di Finanza, ma è idonea (se i documenti richiamati siano allegati o conosciuti dal contribuente) ad indicare le ragioni di fatto e di diritto della pretesa impositiva: condividendo le argomentazioni e conclusioni della Guardia di Finanza, l’ufficio realizza semplicemente una economia di scrittura, tale da non arrecare alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio con il contribuente ed ai diritti di difesa di quest’ultimo”.

Sempre secondo la Cassazione (sentenza n. 2268 del 06.02.2004) l’avviso di accertamento, ancorché motivato per relationem deve comunque porre il contribuente nella condizione di predisporre una adeguata difesa. Il criterio guida è che tale tipo di motivazione non deve porre il contribuente in una posizione più sfavorevole rispetto a chi riceva un avviso di accertamento motivato sul riscontro di atti ispettivi che hanno interessato direttamente il contribuente.

Già con la circolare n. 150 dell’1 agosto 2000, l’amministrazione riteneva che ragioni di opportunità, pur in assenza di previsioni di nullità, imponessero agli uffici finanziari di allegare agli atti di accertamento e di irrogazione delle sanzioni copia degli atti richiamati nelle motivazioni, ancorché gli stessi fossero già stati notificati al contribuente. A seguito delle cennate modifiche normative (intervenute con D.Lgs. n. 32/2001), la circolare n. 77/E del 03.08.2001 ha ritenuto che, qualora i pvc o gli altri atti procedimentali richiamati nella motivazione siano stati preventivamente notificati o comunicati al contribuente, gli uffici non hanno l’obbligo di allegare gli stessi agli avvisi di accertamento.

A quanto detto può aggiungersi che il processo verbale di constatazione rappresenta giocoforza una prima “fotografia” della situazione riscontrata dall’organo verificatore, che in quella sede può anche non approfondire particolarmente l’analisi. Il successivo “vaglio critico” dell’ufficio serve appunto a consentire un’applicazione delle norme fiscali più coerente e ponderata (ad esempio, riconoscendo la deducibilità fiscale di componenti di costo disconosciute dai verificatori).

Vertenza

La sentenza della Corte di Cassazione del 2016 sorge da un contenzioso di merito che aveva condotto all’annullamento, nel giudizio di appello, di un avviso di rettifica IVA relativa al periodo di imposta 1997, che l’amministrazione finanziaria aveva emesso nei confronti di una società sulla scorta delle risultanze di un pvc redatto dalla G.d.F., da cui era emersa l’omessa annotazione di corrispettivi nelle scritture contabili.

I giudici della CTR avevano sostenuto che l’Agenzia delle Entrate aveva acriticamente recepito il pvc della Guardia di Finanza e, ritenendo di non dover svolgere alcuna indagine sui fatti emergenti da quel verbale, aveva sostanzialmente violato le disposizioni di cui agli artt. 63, 51, 52 e 56 del D.P.R. n. 633 del 1972, che richiedono all’amministrazione finanziaria di svolgere l’attività accertativa, essendo quella della polizia tributaria attività di natura meramente collaborativa con la prima, e di indicare specificatamente gli elementi probatori negli atti impositivi che emette.

In questo passaggio si coglie un’impostazione “organicistica” della funzione di PT, che in realtà può essere assunta sia dalla G.d.F. che dall’Agenzia delle Entrate; non muta però la sostanza, riconducibile alla natura dell’atto di PT come una raccolta di elementi e una formalizzazione di proposte, e non come provvedimento definitivo (e autoritativo) recante una pretesa da parte della PA.

La CTR aveva altresì sostenuto che l’ufficio aveva illegittimamente ignorato l’istanza presentata dalla contribuente ai sensi del D.Lgs. n. 218/1997, art. 6 (ai fini dell’accertamento con adesione), impedendole così, oltre che di espone le proprie ragioni e fornire elementi probatori di segno contrario, anche di usufruire dei vantaggi economici derivanti dall’esito positivo della procedura di adesione.

Si osserva al riguardo che, anche al di fuori dell’adesione, il contraddittorio tra contribuente e fisco dovrebbe venire comunque rispettato dall’amministrazione, perché espressione di un principio accolto in seno all’UE (art. 41 della c.d. Carta di Nizza), riconosciuto come direttamente applicabile anche in Italia in primo luogo in ambito IVA. Se la rettifica ha a oggetto tale imposta comunitaria, il previo contraddittorio endoprocedimentale è infatti obbligatorio, come è stato posto in evidenza dalla sentenza Cass. SS.UU. 09.12.2015 n. 24823, a pena di nullità dell’atto impositivo.

La ricorrente Agenzia delle Entrate aveva sostenuto che in realtà la motivazione per relationem, con rinvio all’atto “prodromico” rispetto all’accertamento, era stata più volte avvalorata dalla stessa Cassazione, senza che in capo all’ufficio venisse a configurarsi alcun onere di verifica dei fatti accertati dalla polizia tributaria.

Non si discute la m. per relationem

Il motivo proposto dalla ricorrente è stato dichiarato inammissibile dalla Suprema Corte perché, secondo i giudici di legittimità, esso non coglieva la ratio decidendi della sentenza impugnata.

Infatti la CTR, nel ritenere fondate le contestazioni della società appellante relativamente all’acritico recepimento da parte dell’amministrazione finanziaria del pvc, senza compiere attività tese all’acquisizione di un autonomo convincimento basato su prove certe, aveva sostenuto che incombe sull’ufficio l’attività di accertamento. Ma in ciò non aveva affatto negato la validità della motivazione per relationem (come sosteneva la ricorrente), né aveva configurato la necessità di un’ulteriore attività istruttoria da parte dell’ufficio, rimarcando solamente “la necessità che questi provveda ad espletare una funzione valutativa ed estimativa consistente nella qualificazione giuridica dei rapporti, atti o documenti, cioè dei fatti rilevati dall’organo investigativo, escludendo che ciò possa essere integrato dal rinvio acritico ad un verbale della G. di F.”.

La censura non si poneva quindi in linea con il decisum.

Ciò affermato, la Corte ha ritenuto assorbito il secondo motivo di ricorso per cassazione, riguardante le affermazioni della CTR, secondo la quale l’amministrazione finanziaria avrebbe dovuto dare seguito all’istanza di accertamento con adesione presentata dalla società.

Considerazioni di sintesi

Come si è visto sopra, la motivazione costituisce il nucleo fondante di qualsiasi attività di accertamento, a partire da casistiche relativamente semplici fino alle ipotesi più complesse. In ogni caso, la pretesa del fisco che si spinge a mettere in discussione il comportamento del contribuente (reso manifesto dalla dichiarazione), con effetti spesso pesanti per imposte richieste e sanzioni, non può fondarsi su approssimazioni e riprese immotivate.

Un po’ complesso può essere in verità il relazionarsi tra uffici e Guardia di Finanza, dato che il Corpo e l’amministrazione “civile” non costituiscono un tutto unico senza soluzione di continuità, ma due realtà autonome che per coordinarsi hanno bisogno di tempi e modi adeguati (in considerazione anche delle differente e complessa organizzazione di uffici e reparti). Ciò però non dovrebbe compromettere in alcun modo i diritti dei contribuenti, trattandosi di problematiche intrinseche al funzionamento della PA.

In questa prospettiva rappresenta certamente una criticità che l’organo verificatore (nel caso in cui la verifica sia compiuta, evidentemente, dalla G.d.F. e non dagli uffici) non faccia parte della stessa organizzazione dalla quale dipende l’attività di accertamento. Ma ciò a maggior ragione deve indurre l’amministrazione a vagliare criticamente, ad approfondire, argomentare e sviluppare le informazioni e gli elementi di prova raccolti dai verificatori.

Questo perché, a prescindere dai casi in cui i contribuenti, magari per un calcolo di “convenienza relativa”, scelgono di chiudere la possibile vertenza approfittando delle nuove forme di ravvedimento operoso (in caso di controllo in essere, con la riduzione delle sanzioni a 1/5), l’accertamento è sempre la sede nella quale si pongono i tasselli che servono al dialogo e al contrasto con la PA in ordine alle contestazioni formulate. In definitiva: se al contribuente non vengono forniti adeguati motivi circa la fondatezza della pretesa, come potrà fare il contribuente stesso a difendersi, controargomentando e producendo le proprie “buone ragioni”?

15 dicembre 2016

Fabio Carrirolo

1 R. Lupi, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, III edizione, pag. 94.