Gli effetti del giudicato vincolano il curatore

sono tanti i dubbi che assillano i professionisti che assumono l’incarico di curatore in merito alla gestione del contenzioso fiscale: ricordiamo che il giudicato rappresenta un vincolo ineludibile per il curatore. Il caso analizzato parte da un contenzioso di una procedura fallimentare, che si era già conclusa con concordato fallimentare

giudiceLa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8557 del 29.4.2016, ha chiarito quali sono, anche dopo la fine dell’incarico, i possibili effetti del giudicato nei confronti del curatore.

Nel caso di specie la controversia concerneva l’impugnazione di un’ingiunzione fiscale, con la quale il Comune, in relazione alla definitività di atti d’accertamento per omessa dichiarazione ICI e omesso pagamento della relativa tassa, intimava l’adempimento del dovuto al curatore di una procedura fallimentare, che si era già conclusa con concordato fallimentare.

L’intimato si difendeva evidenziando come il Comune avrebbe dovuto in realtà rivolgere le proprie pretese fiscali al legale rappresentante della società tornata in bonis e non al curatore, che, già al momento della notifica degli originari atti d’accertamento, era cessato dalla carica.

La Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il ricorso.

Il Comune proponeva allora appello, evidenziando come gli atti d’accertamento non erano stati impugnati nei termini e pertanto il successivo ruolo poteva essere impugnato solo per vizi propri, senza possibilità di far valere censure relative all’atto prodromico e, quindi, afferenti la pretesa impositiva.

Nel merito, il Comune evidenziava comunque l’insussistenza del difetto di legittimazione passiva, in quanto il curatore, pur se decaduto dalla carica in data anteriore alla notifica dell’avviso d’accertamento, conservava le proprie responsabilità fiscali per il periodo d’imposta nel quale rivestiva detta carica, ai sensi dell’art. 10 c. 6 del dlgs. n. 504 del 1992 (lasciando così intendere che l’omessa dichiarazione a cui gli avvisi facevano riferimento riguardava periodi di imposta ricadenti nel periodo di fallimento).

La CTR rigettava l’appello, confermando la sentenza di primo grado.

Il Comune soccombente ricorreva infine davanti alla Corte di Cassazione, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 19 c. 3 e 21 c. 1 del d.lgs. n. 546/92, in quanto i giudici d’appello avevano erroneamente ritenuto che la mancata impugnazione, nei termini di legge, dell’avviso d’accertamento presupposto all’ingiunzione, non fosse preclusivo all’introduzione delle questioni di merito afferenti lo stesso avviso d’accertamento in sede d’impugnazione del successivo atto di riscossione, che, invece, attesa la definitività dell’atto presupposto, poteva essere impugnato solo per vizi propri.

Il motivo, secondo i giudici di legittimità, era fondato, in quanto l’indagine sulla corretta individuazione del soggetto passivo della pretesa impositiva era in effetti un tema afferente al merito della stessa, dal punto di vista della sua eventuale nullità (assoluta) per errata individuazione del soggetto.

L’ente impositore, del resto, nella vicenda all’esame della Corte, aveva inteso indirizzare la propria pretesa proprio al soggetto intimato, che aveva ricevuto l’atto senza impugnarlo nei termini, consentendo, con ciò, che il merito dell’atto impositivo si cristallizzasse nei suoi confronti con la forza propria del giudicato, senza che, in virtù del principio di ordine processuale del ne bis in idem, posto a tutela della certezza dei rapporti giuridici (oltre che di economia processuale), la questione potesse più essere messa in discussione in sede d’impugnazione del successivo atto di riscossione, impugnabile, ex art. 19 d.lgs. n. 546/92, solo per vizi propri, nella specie non dedotti.

Pertanto, il giudicato formatosi sul merito della pretesa impositiva (che copre il dedotto e il deducibile), non poteva più essere messo in discussione da nessun altro giudice e faceva stato nelle controversie connesse e/o dipendenti, quali anche quelle introdotte contro il successivo atto della riscossione, non essendo consentita l’impugnazione per motivi che avrebbero dovuto essere proposti contro l’atto prodromico, se non eludendo surrettiziamente il termine per ricorrere contro tale ultimo atto (cfr. Cass. nn. 7476/2002 e 12194/2008).

Nella vicenda, conclusivamente, i giudici d’appello, ad avviso della Suprema Corte, avevano violato l’art. 19 c. 3 e 21 c. 1 del d.lgs. n. 546/92, in quanto l’ingiunzione poteva essere impugnata solo per vizi propri, essendo divenuto definitivo il previo atto d’accertamento, per decorrenza del termine decadenziale d’impugnazione.

Al di là della specifica decisione, di natura prevalentemente processuale, la questione merita qualche approfondimento.

Il curatore fallimentare viene nominato, come noto, in sede di sentenza dichiarativa di fallimento. A seguito dell’accettazione, cura dunque il patrimonio fallimentare e ogni altra operazione connessa alla procedura.

Dalla sentenza dichiarativa di fallimento il fallito è privato dell’amministrazione e della disponibilità dei beni.

Come evidenziato dalla Risoluzione 18/2007, dopo la dichiarazione di fallimento, il fallito perde dunque ogni potere di amministrazione del patrimonio.

Riguardo al periodo anteriore al fallimento, del resto, l’organo amministrativo dell’impresa fallita dovrebbe consegnare al curatore una situazione contabile, comprendente le operazioni che si sono verificate dall’inizio del periodo autonomo d’imposta.

E anche in mancanza di detta situazione contabile, il curatore è comunque tenuto a predisporla autonomamente sulla base dei dati e delle informazioni in suo possesso.

Quanto poi alla presentazione della dichiarazione dei redditi è il curatore che deve provvedere a presentare la dichiarazione dei redditi per il periodo 1/1 – data del fallimento, e per il “maxi-periodo” fallimentare.

Anche nel caso della dichiarazione relativa all’anno precedente, del resto, anche se ciò non trova espresso fondamento nella normativa, secondo parte della giurisprudenza, in caso di fallimento, responsabile della presentazione della dichiarazione dei redditi, è comunque il curatore, legando evidentemente tale obbligo alla sua responsabilità per “ogni altra operazione connessa alla procedura”.

A ben vedere, secondo altra giurisprudenza della stessa Suprema Corte, nel caso di periodo d’imposta precedente il fallimento, l’obbligo di presentare le denunce incombe invece sull’imprenditore, spettando al curatore presentare le dichiarazioni solo per il periodo successivo alla sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza; tanto più che, in materia di fallimento, “la soggettività passiva nel rapporto tributario permane nei confronti del fallito, il quale, dopo la dichiarazione di fallimento, perde solo la disponibilità dei suoi beni, nonché la capacità processuale e quella di amministrare il suo patrimonio” (Cassazione, Sez. Penale, 299/1995).

Tornando più specificatamente alla questione di cui alla sentenza in esame (mancata impugnazione di avvisi di accertamento e conseguenti atti riscossori) il curatore inoltre, nel caso in cui riceva un accertamento (in costanza di incarico), potrebbe anche consapevolmente decidere di non presentare ricorso per motivi di economicità della procedura fallimentare.

In tali casi, a dimostrazione della sussistenza della legittimazione passiva del curatore, soltanto in via del tutto eccezionale e nell’inerzia dell’organo che fisiologicamente avrebbe il potere di farlo (il curatore fallimentare appunto), al fallito sarebbe concessa la possibilità, di contestare in giudizio un atto relativo a “rettifiche” tributarie.

Limite essenziale, conditio sine qua non, per l’esercizio del potere di azione da parte dell’ex rappresentante legale, è dunque in tali casi rappresentata dalla effettiva sussistenza dell’inerzia del curatore.

Più nello specifico, ove l’inerzia sia derivata non da una mera omissione di atti, ma da una precisa scelta discrezionale di non porre in essere attività processuali, ad esempio perché in un’ottica di analisi di costi/benefici sia stato ritenuto di non voler provvedere a contestare in giudizio un determinato atto, anche in questo caso nessuna legittimazione “ultrattiva” potrebbe essere concessa al fallito, non sussistendo, come dice anche la Corte Suprema, “… alcuna inerzia, ma solo l’adesione ad una scelta di convenienza in ordine alla prevedibile mancanza di risultati utili della contestazione della pretesa tributaria” (Cass. civ., sent. n. 3667 del 28 aprile 1997).

Nel caso di specie, però, essendo nel frattempo il fallito tornato in bonis ed essendo già terminato l’incarico del curatore al momento della notifica dell’avviso, il soggetto già fallito aveva ripreso la propria capacità processuale (e dunque anche la legittimazione attiva e passiva), con possibilità di impugnazione dell’atto (laddove lo stesso atto però gli fosse stato notificato), anche solo per dire che la responsabilità della mancata dichiarazione non era da lui dipesa.

Il curatore, per conto suo, se avesse impugnato l’originario avviso, avrebbe potuto eccepire, nel caso in cui l’omessa dichiarazione non attenesse a periodi di imposta ricadenti nel suo mandato, il difetto di legittimazione passiva.

Ma, come concluso dalla Corte, non avendolo fatto, sulla questione si era formato giudicato e le conseguenze riscossorie, tranne appunto la contestazione in ordine ad eventuali vizi propri degli atti di riscossione, non potevano essere più rimesse in discussione con argomenti attinenti al merito della vicenda.

10 ottobre 2016

Giovambattista Palumbo