I termini di prescrizione dei rimborsi tributari

qual è il termine di prescrizione per chiedere un rimborso tributario? Partendo da un caso di giurisprudenza analizziamo quali sono le tempistiche che il contribuente deve rispettare per farsi rimborsare eventuali importi versati ma non dovuti, anche per interessi anatocistici

La Commissione Tributaria Regionale della Toscana, con la sentenza n. 1311/31/15 del 15 Luglio 2015, ha deciso in merito ad un contenzioso in tema di rimborsi e prescrizione.

I giudici di merito evidenziano in particolare che, una volta chiesto il rimborso ex art. 94 del TUIR, il Ministero delle Finanze, Direzione delle Entrate, a mezzo dell’attestazione datata 16/10/1999, (di cui all’art. 9 cc. 3 e 4 D.M. 31/7/1998) dava atto di aver ricevuto la dichiarazione trasmessa in via telematica, specificando nel corpo della seconda delle due ricevute inviate, che “l’Amministrazione Finanziaria provvederà ad eseguire sulla dichiarazione presentata i controlli previsti dalla normativa vigente “.

In data 7/9/2009 la società richiedeva all’Ufficio informazioni sullo stato della procedura di rimborso di detto credito IRPEG.

In data 28/1/2010 l’Amministrazione rispondeva, indicando i quadri dichiarati nel modello Unico ed affermava che la dichiarazione “Doveva intendersi omessa perché non è stata trasmessa né acquisita, né eventualmente integrata, nonostante fosse rilevabile dalla ricevuta restituita dal sistema informatico, la mancata presentazione dei quadri relativi ai redditi”, precisando altresì che “a seguito di tale incompleta trasmissione la dichiarazione non è sottoposta ad alcun tipo di controllo, né formale né sostanziale in quanto completamente sconosciuta all’Amministrazione Fiscale, e conseguentemente negando l’accoglimento dell’istanza di rimborso del credito IRPEG 1998 formulata con modello Unico 1999.

Il primo Giudice osservava quindi come la questione inerisse preliminarmente alla presentazione (effettuata per la prima volta nel sistema tributario italiano) in via telematica per l’anno 1998 con modello unico 1999 e rilevava che la denuncia era stata presentata, ma in maniera incompleta e di ciò, nell’attestazione di cui all’art. 9 D.M. 31/7/1998, era stata data notizia al contribuente, indicando anche i quadri mancanti e cioè quelli relativi alle imposte dirette e in particolare il quadro RX.

Tuttavia, osservava il primo Giudice, sulla base di quanto riconosciuto dalla giurisprudenza (ad es. Cass. S.T. n. 3718/2005) si ha il riconoscimento implicito del credito richiesto, qualora l’Amministrazione non abbia esperito i controlli nei termini, nonché l’esistenza di una eventuale prescrizione dal momento del suo consolidamento.

I giudici di merito sottolineavano poi che nella attestazione ai sensi dell’art. 9 comma 3 del D.M. 31/7/1998, inviata dal sistema telematico alla società in data 16/10/2009, si poteva comunque ravvisare un certa equivocità dal momento che in essa si indicavano i seguenti dati: “Principali elementi risultati dalla dichiarazione: – periodo di imposta 1/1/98-31/12/98; – quadri compilati: IQ, VA, VE, VF, VG, VE, VL, VU; – quadri dichiarati: RA, RB, RC, RD, RF, RG, RR, RX, ÌQ, VA, VE, VF, VG“.

II tutto seguito dalla affermazione che “l’Amministrazione Finanziaria provvederà ad eseguire sulla dichiarazione presentata i controlli previsti dalla normativa vigente“.

L’equivocità consisteva quindi nel fatto che non appariva totalmente chiara l’indicazione, nella sopra riportata attestazione, che esistevano dei quadri omessi, dal momento che si parlava di quadri “dichiarati” e di quadri “compilati“. Appariva in ogni caso incontrovertibile dalla attestazione che l’Amministrazione aveva considerato la dichiarazione come presentata, dichiarando di voler provvedere a sottoporla ai controlli di legge.

Non si parlava quindi né di omissione e neppure, in termini chiari, di incompletezza, ma solo di controllo.

D’altra parte proprio l’affermazione dell’Amministrazione che avrebbe sottoposto a verifica la dichiarazione presentata in via telematica poteva far sorgere nel contribuente il ragionevole affidamento sulla correttezza dell’attività svolta, affidamento consolidato dal fatto che, trascorso il periodo di tempo nel quale, ai sensi di legge, l’Ufficio poteva esercitare i controlli, niente gli era stato contestato.

A dire il vero, il fatto che, nel caso di specie, il credito non fosse stato controllato “nei termini di legge” da parte dell’Amministrazione era del tutto irrilevante.

Ai sensi dell’art. 2934 c.c., infatti, “ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge”.

Ai sensi dell’art. 2935 c.c.la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”.

Quindi, nel caso di specie, anche per la natura dei crediti vantati, il diritto poteva essere fatto valere già con la presentazione della dichiarazione.

La Corte Costituzionale (Sentenza n. 78 del 5 aprile 2012), ha del resto chiarito che “l‘art. 2935 cod. civ. stabilisce che La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. Si tratta di una norma di carattere generale, dalla quale si evince che presupposto della prescrizione è il mancato esercizio del diritto da parte del suo titolare…”.

Dato quindi che nel caso di specie “la possibilità legale di far valere il diritto” sussisteva già all’atto della richiesta di rimborso in dichiarazione, era allora, in realtà, dalla data di presentazione della stessa dichiarazione che il dies a quo doveva essere considerato.

Il contribuente, del resto, poteva optare tra la richiesta di rimborso dell’eccedenza risultante dalla dichiarazione annuale, oppure riportarlo nell’anno successivo.

Risultava dunque evidente come una tale opzione presupponesse già la possibilità legale di far valere il diritto; laddove l’espressione “far valere” non vuol dire certo, poi, che lo stesso diritto sia effettivamente spettante (in particolare nel caso di crediti tributari).

Né certo poteva invocare il contribuente una qualche interruzione del termine (già peraltro prescritto), magari richiamando la richiesta di documentazione.

Ai sensi dell’art. 2944 c.c., infatti, “la prescrizione è interrotta dal riconoscimento del diritto da parte di colui contro il quale il diritto stesso può essere fatto valere”.

E certo una tale richiesta non rappresentava alcun riconoscimento del diritto.

Come del resto anche ribadito dalla Suprema Corte (sentenza n. 23612 del 20 dicembre 2012) in un caso del tutto analogo in cui l’Agenzia aveva richiesto documentazione integrativa, tale richiesta non rappresentava certo un riconoscimento del debito, dato che l’atto con cui l’amministrazione invita il contribuente, che abbia presentato istanza di rimborso…, a produrre documentazione non costituisce riconoscimento del debito, ai sensi dell’art. 2944 cod. civ., e non interrompe, quindi, il decorso della prescrizione, per difetto del requisito dell’univocità – cfr. Cass. n. 18929/2011 e Cass. n. 12067/2004, la quale ultima ha pure precisato, in motivazione, che non può essere attribuita efficacia interruttiva alle semplici sollecitazioni che si limitino a contenere manifestazioni prive del carattere di intimazione e di espressa richiesta formale al debitore (ex plurimis Cass. 561/1995 – Cass. 612/1993)”.

Come recentemente concluso dalla Suprema Corte con la sentenza n. 7706 del 27 marzo 2013, in ogni caso, “In tema di imposte sui redditi, qualora il contribuente abbia evidenziato nella dichiarazione un credito di imposta, l’azione volta al relativo recupero è sottoposta all’ordinario termine di prescrizione decennale, sulla cui decorrenza non incidono né il limite temporale stabilito per il controllo formale o cartolare delle dichiarazioni e la liquidazione delle somme dovute, ai sensi dell’art. 36-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, né i limiti alla proponibilità della relativa eccezione, posti dall’art. 2, comma 58, della legge 24 dicembre 2003, n. 350: la prima disposizione è volta, infatti, ad imporre un obbligo dell’Amministrazione finanziaria, senza stabilire un limite all’esercizio dei diritti del contribuente, mentre la seconda contiene un mero invito rivolto agli uffici, non suscettibile di applicazione diretta da parte del giudice”.

La decisione della CTR in commento collide dunque con l’indirizzo della Suprema Corte e il testo dell’art. 58, c. 2, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, richiamato nella citata sentenza non può comunque valere nel caso in esame, dato che afferma che “l’Agenzia delle entrate provvede alla erogazione delle eccedenze di IRPEF ed IRPEG dovute in base alle dichiarazioni dei redditi presentate fino al 30 giugno 1997, senza far valere la eventuale prescrizione del diritto dei contribuenti e dunque nel caso di specie (dichiarazione presentata nel 1998) non valeva.

Perché del resto il legislatore del 2003 ha effettuato la scelta di limitare l’operatività della norma alle eccedenze riconducibili ai soli periodi d’imposta sino al 1996?

Perché il D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, introduce la regola del versamento unitario per le imposte dirette, per l’IVA, per i contributi dovuti all’INPS e per le altre somme spettanti allo Stato, alle Regioni e agli enti previdenziali, risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce presentate successivamente alla sua entrata in vigore nonché quella della compensazione tra crediti e debiti del contribuente relativi alle imposte e ai contributi del medesimo periodo d’imposta. Tale compensazione è destinata ad operare per la prima volta tra crediti e debiti emergenti dalle successive dichiarazioni, la prima delle quali è quella da presentare nel 1998, relativa al periodo d’imposta 1997.

È un radicale mutamento nella disciplina dei rapporti di debito-credito tra contribuente e Amministrazione finanziaria: le richieste di rimborso erano quindi destinate a ridursi in maniera significativa, potendo il contribuente compensare immediatamente le eccedenze per alcuni tributi con i debiti per altri.

Da qui l’esigenza del legislatore, come spesso avviene in occasione di modifiche radicali, che venissero definiti i rapporti pregressi con riguardo ai rimborsi emergenti dalle dichiarazioni relative ai periodi d’imposta sino al 1996.

Si sottolinea infine come la richiesta in ordine al rimborso anche degli interessi (anche anatocistici) sia in questi casi ancor più difficile, essendo nel caso degli interessi il termine di prescrizione di 5 anni.

In particolare, come anche in questo caso riconosciuto in via consolidata dalla Suprema Corte (vedi per tutte la sentenza n. 2945 del 9.2.2007), “l’obbligazione del fisco per gli interessi scaturenti dal tardivo adempimento del credito da rimborso, vantato dal contribuente integra infatti una obbligazione autonoma rispetto a quella riguardante il capitale onde le vicende dell’una sono autonome e distinte rispetto a quelle dell’altra in particolare per quanto riguarda la prescrizione così che la prescrizione del credito per i detti interessi resta sganciata dalla prescrizione fissata per il credito di imposta ed è perfino insensibile alle vicende interruttive riguardanti esclusivamente quest’ultima” (Cfr. Cass. 6 agosto 2004, n. 15222 nonché la Cass. n. 66 del 3 gennaio 2005).

Come peraltro espressamente stabilisce l’art. 2948 c.c. “si prescrivono in cinque anni:

1) le annualità delle rendite perpetue o vitalizie;

1-bis) il capitale nominale dei titoli di Stato emessi al portatore;

2) le annualità delle pensioni alimentari;

3) le pigioni delle case, i fitti dei beni rustici e ogni altro corrispettivo di locazioni;

4) gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi;

5) le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro”.

E come ancora ribadito anche dalla Suprema Corte con la Sent. n. 20600 del 7 ottobre 2011La prescrizione estingue il diritto e, nel caso di interessi dovuti su obbligazioni pecuniarie (qual è il debito tributario), non vi è ragione di disapplicare – in difetto di norme speciali derogatorie – la regola generale secondo cui gli interessi su somme di denaro si acquistano giorno per giorno, in ragione della durata del diritto (art. 821 c.c., comma 3). La previsione del saggio di interesse in ragione di anno (D.P.R. n. 602 del 1973, art. 9) non immuta la regola predetta dovendo escludersi, tanto che il credito accessorio insorga soltanto al compimento di ciascuna annualità, quanto (come sembra sostenere la ricorrente) che il diritto di credito per interessi possa considerarsi unitario, insorgendo alla scadenza del termine previsto per il pagamento del debito principale (per capitale) ed incidendo l’elemento della durata di quest’ultimo (dalla scadenza all’effettivo pagamento) solo sull’incremento economico della prestazione accessoria”.

Quanto poi agli interessi anatocistici, a parte il fatto che non potrebbe riconoscersi la produzione di alcun interesse anatocistico se si estingue quella che ne è la fonte precipua, ossia gli interessi moratori, come più volte affermato dalla Corte di Cassazione la disciplina concernente gli interessi anatocistici è comunque inapplicabile in materia tributaria, ove prevalgono le disposizioni speciali che regolano compiutamente gli effetti della mora debendi: “Il carattere di specialità della normativa fiscale” ad avviso dei giudici di legittimità, “comporta, in ogni caso, la prevalenza di questa sullo ius commune in quanto in base ai normali criteri che presiedono il rapporto tra disposizione speciale e disposizione generale, le norme che espressamente e compiutamente stabiliscono per le obbligazioni d’imposta gli effetti della mora debendi prevalgono sull’articolo 1283 del codice civile, come sulle altre disposizioni previste dal codice civile in tema di adempimento delle obbligazioni pecuniarie.

E, dunque, “gli interessi sui crediti verso lo Stato, derivanti da rimborsi di tributi, sono assoggettati in considerazione della specialità della materia fiscale ad una disciplina diversa da quella adottata in campo civilistico, con la conseguenza che tale specifica normativa assorbe e sostituisce la seconda, sicché agli interessi nella misura fissa dalla stessa fissata non sono cumulabili gli interessi legali determinati dall’ordinaria normativa codicistica.

E del resto, il D.L. n. 223 del 2006, art. 37, c. 50, convertito con L. n. 248 del 2006, ha poi espressamente escluso la possibilità di riconoscere interessi anatocistici per il caso di rimborso di tributi. La norma citata dispone infatti che “gli interessi previsti per il rimborso di tributi non producono in nessun caso interessi ai sensi dell’art. 1283 c.c.“.

24 febbraio 2016

Giovambattista Palumbo