La distribuzione di utili in nero nelle società a ristretta base proprietaria

sempre più spesso, a fronte di accertamenti contro società di capitali a ristretta base proprietaria, il fisco contesta anche la distribuzione di utili in nero

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 21155 del 19/10/2015, ha deciso in ordine ad una sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania, con la quale era stato rigettato l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate in relazione ad un avviso di accertamento che aveva rideterminato, ai fini irpef, il reddito del contribuente, in applicazione della presunzione di utili extrabilancio distribuiti ai soci, in proporzione alla quota di partecipazione a società di capitali a ristretta base azionaria.

In particolare, il Giudice di appello aveva confermato l’illegittimità dell’accertamento perché non motivato e fondato su una presunzione semplice, senza alcun riferimento all’iter dell’accertamento nei confronti della società e alla specifica situazione professionale del contribuente.

Avverso la sentenza l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione.

Secondo la Suprema Corte il ricorso meritava accoglimento in relazione al quinto motivo avanzato dall’Amministrazione Finanziaria, con il quale l’Agenzia deduceva la violazione e falsa applicazione degli artt.2263 co.1, 2697 e 2729 c.c. e 67 d.p.r. n. 600/73, laddove la C.T.R. aveva rigettato l’appello, censurando la presunta distribuzione agli utili al socio.

Secondo la tesi dell’Amministrazione, infatti, la sola ristrettezza della compagine sociale era sufficiente a fondare la presunzione semplice della distribuzione di utili non contabilizzati, essendo ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale per cui, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, è legittima la presunzione di attribuzione “pro quota” ai soci, nel corso dello stesso esercizio annuale, degli utili extra bilancio prodotti da società di capitali a ristretta base azionaria.

Tale presunzione, fondata sul disposto dell’art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, determina infatti un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente (cfr. di recente e tra le tante Cass.n.8032 del 24/07/2013; id.n.24572 del 18/11/2014; id.n.25271 del 28/11/2014).

Nella specie, pertanto, la sentenza di secondo grado, nel ritenere che, in caso di società a ristretta base azionaria (circostanza non oggetto di contestazione), tale presunzione non fosse sufficiente, ponendo a carico dell’Ufficio, altresì, l’onere di specificare “l’iter di accertamento a carico della società” e di valutazione della “specifica situazione professionale del contribuente” si era discostata dai superiori principi.

L’Ordinanza in commento va a dire il vero vista nel giusto contesto di fatto.

Con la recente Ordinanza n. 14176 del 08.07.2015 la Corte di Cassazione, decidendo in merito ad un caso di accertamento di utili ritenuti presuntivamente distribuiti ai soci, a seguito dell’accertamento di maggiori ricavi a carico della società, in considerazione della ristretta base partecipativa, aveva infatti invece accolto il ricorso, in quel caso, del contribuente, specificando che, pur avendo la Corte ritenuto ammissibile numerose volte la presunzione di distribuzione ai soci degli utili non contabilizzati, ha però anche chiarito che, perché tale presunzione possa operare, occorre pur sempre che la “ristrettissima base sociale o familiare“, cioè il “fatto noto” alla base della presunzione, abbia costituito oggetto di uno specifico accertamento probatorio.

E dunque, solo una volta che sia stato stabilito che la titolarità delle azioni e l’organizzazione aziendale sono concentrate in una stretta cerchia personale o familiare, il giudice di merito non può escludere la distribuzione ai soci di utili non contabilizzati, limitandosi a prender atto della inapplicabilità dell’art. 5, D.P.R. n. 917/1986 (cfr. Cass. nn. 3254/2000 e 2390/2000).

Per tale motivo, probabilmente, per procedere cioè a tale accertamento di fatto, anche in questo caso la Corte ha rimesso la questione a sezione diversa della CTR, dato che è al giudice di merito che è istituzionalmente riservata la valutazione circa l’attitudine probatoria del “fatto noto“.

Per quanto riguarda la presunzione di distribuzione di utili non contabilizzati dalla società, si sottolinea del resto che, come più volte ribadito dalla Corte Suprema, nell’ipotesi di società di capitali a ristretta base sociale, deve ritenersi legittima la presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili, non ricorrendo il divieto di presunzione di secondo grado, in quanto il fatto noto non è costituito dalla sussistenza di maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci, che, in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale.

Tale conclusione si basa sulla considerazione della “complicità” che normalmente avvince i membri di una ristretta compagine sociale.

E’ dunque in questi casi legittimo presumere che le somme corrispondenti al risultato dell’esercizio economico sono entrate nella disponibilità dei soci.

In conclusione, nel giudizio avverso l’avviso di accertamento del socio di società di capitali a base familiare, con il quale si accerta il maggior reddito derivante dalla presunta distribuzione occulta degli utili extrabilancio, la ristretta base azionaria rende meramente consequenziale, rispetto all’accertamento societario, e quindi legittimo, l’accertamento a carico del socio che non abbia dato alcuna prova contraria circa la destinazione degli utili accertati alla società.

E’ dunque in questi casi, semmai, onere del contribuente provare che gli utili extracontabili accertati in capo alla società abbiano avuto una destinazione diversa dalla distribuzione ai soci, allegando fatti e circostanze che escludano la distribuzione di utili, ovvero attestino l’accantonamento od il reinvestimento degli stessi (ex multis Cass. n. 3972/2009).

La ristretta compagine sociale determina in sostanza, in tali casi, un’inversione dell’onere della prova a carico dello stesso socio.

E ciò in quanto lo scarso numero dei soci si converte nel dato qualitativo della maggiore conoscibilità degli affari societari e nell’onere per il socio di conoscere tali affari, potendo comunque, come detto, il socio fornire però la prova dei fatti impeditivi dell’attribuibilità (ex multis Cass. n. 26428/2010).

Se poi la posizione della società fosse in qualche modo già definita (per giudicato, acquiescenza, adesione…), sarebbe del tutto inutile concentrarsi sulla prova che la società non abbia in realtà realizzato i ricavi “in nero” contestati ed accertati in via definitiva, cercando così di rimettere in discussione gli argomenti attinenti i recuperi effettuati in capo alla società.

Così facendo, il socio ricorrente ometterebbe infatti di fornire la prova contraria che, sola, lo possa mandare esente da responsabilità.

Nella fattispecie, infatti, analogamente a quanto accade nell’ipotesi disciplinata dall’art. 5 del Tuir per le società di persone, al socio vengono imputati pro quota gli utili extrabilancio definiti in capo alla società, e pertanto l’accertamento emesso in capo a tale soggetto è una mera conseguenza dell’avviso di accertamento dell’ente, ed è unicamente l’accertamento societario che determina il quantum accertabile in capo al socio, salvo il caso in cui quest’ultimo possa fare valere proprie situazioni personali in grado di incidere sull’accertamento emesso a suo carico.

Gli elementi che consentono il recupero sono dunque in tali casi semplicemente costituiti dalla differenza tra l’accertato ed il dichiarato (somma da distribuire), il fatto che tale somma non è stata impiegata all’interno dell’impresa, il carattere ristretto della compagine sociale e infine la causa tipica del contratto di società (divisione degli utili derivanti dall’attività sociale).

Come dunque avviene anche nel caso delle società estinte, ai soci non sarà allora sufficiente dire di non aver ricevuto nulla (nel caso delle società estinte, dalla liquidazione della società), potendo l’Amministrazione far valere la prova critica dell’id quod plerumque accidit.

Starà poi al giudice valutare quale sia l’ipotesi più “verosimile”, motivando però in ordine a tale giudizio.

25 gennaio 2016

Giovambattista Palumbo