Interpello sui costi esteri e sulle CFC prima e dopo il Decreto Internazionalizzazione

Concorrono integralmente alla formazione del reddito imponibile gli utili provenienti, direttamente o indirettamente, da società residenti in Paesi o territori a regime fiscale privilegiato: ecco le regole per impostare l’interpello per il riconoscimento dei costi black list.

Contrasto all’elusione tramite Società Controllate Estere: aspetti generali 

paradiso fiscale azienda offshoreSpecifiche disposizioni di contrasto ai fenomeni elusivi tramite società controllate estere (Controlled Foreign Companies CFC) sono state messe a punto secondo uno schema imperniato sull’imputazione al soggetto controllante italiano dei redditi conseguiti dai soggetti controllati (in base a una nozione sostanziale, e non meramente formale, di controllo), ovvero delle società semplicemente collegate1, residenti negli Stati e territori inclusi nella «black list» di cui al D.M. 21.11.2001, pubblicata nella G.U. n. 273 del 23.11.2001 (artt. 167 e 168 del TUIR, quest’ultimo Abrogato con decorrenza 2015).

Per espresso disposto dell’art. 47, c. 4, del TUIR, concorrono integralmente alla formazione del reddito imponibile gli utili provenienti, direttamente o indirettamente, da società residenti in Paesi o territori a regime fiscale privilegiato, di cui al decreto ministeriale emanato ai sensi dell’art. 167, c. 4, del TUIR.

Esiste inoltra una normativa di contrasto al fenomeno dei «costi esteri» elusivi (art. 110, c. 10, TUIR) che prevedeva, nella sua versione storica, l’indeducibilità dei costi relativi a operazioni effettuate con partners residenti in Stati e territori a fiscalità agevolata, o caratterizzati dalla scarsa disponibilità a collaborare con l’amministrazione finanziaria italiana. L’individuazione degli Stati e territori in relazione ai quali operava il vincolo si fonda sui decreti ministeriali 21.11.2001, 23.1.2002 e 27.12.2002.

Per queste ipotesi, cui il legislatore associa comportamenti intesi, in sostanza, a delocalizzare basi imponibili in giurisdizioni fiscalmente più favorevoli senza adeguata giustificazione economica, e che prevedono ciascuna uno specifico interpello all’Agenzia delle Entrate, mediante il quale è possibile disapplicare i vincoli – si esamineranno di seguito gli effetti della riforma del 2015, che, in attuazione della legge delega n. 23/2014, ha ridisciplinato il settore con il D.Lgs. 14.9.2015, n. 147 (decreto internazionalizzazione).

Queste innovazioni normative devono essere poi coordinate, per quanto attiene all’interpello e alle relative conseguenze, con il D.Lgs. 24.9.2015, n. 156 [decreto interpelli e contenzioso] e con il D.Lgs. 24.9.2015, n. 158 [decreto sanzioni], anch’essi emanati in attuazione della delega fiscale.

 

CFC (Controlled Foreign Companies) e relativo interpello

In materia di CFC [controllate e, nella normativa antevigente, anche collegate estere2] è esperibile una particolare forma di interpello, la cui applicazione è stata resa possibile dalle norme regolamentari del D.M. 21.11.2001, n. 429.

Secondo il terzo comma dell’art. 5 del decreto attuativo, ai fini della risposta positiva rileva in particolare:

  • il fatto che l’impresa, la società o l’ente non residente svolge effettivamente un’attività commerciale, ai sensi dell’art. 2195 del c.c., come sua principale attività nello Stato o nel territorio con regime fiscale privilegiato nel quale ha sede, con una struttura organizzativa idonea allo svolgimento dell’attività stessa oppure alla sua autonoma preparazione e conclusione;

  • (ovvero) il fatto che i redditi conseguiti da tali soggetti sono prodotti in misura non inferiore al 75% in altri Stati o territori non black list, ed ivi sottoposti integralmente a tassazione ordinaria;

  • in caso di stabile organizzazione estera, il fatto che i redditi da questa prodotti siano integralmente sottoposti a tassazione ordinaria nello Stato o territorio in cui ha sede l’impresa, la società o l’ente partecipato.

Il carattere obbligatorio dell’interpello CFC [nel contesto previgente rispetto alla riforma del 2015] è stato affermato al paragrafo 8.2 della circolare n. 23/E del 26.5.2011, ove veniva richiamata la valenza generale delle istruzioni fornite in materia di interpello nella già richiamata circolare n. 32/E del 2010.

In particolare per le CFC white3, la circolare n. 51/E ha precisato che il confronto tra la tassazione effettiva estera e quella virtuale interna deve considerare le sole imposte sui redditi, escludendo l’IRAP e fondandosi per quanto possibile sulle convenzioni internazionali.

In tale contesto, la richiesta di disapplicazione presentata dal soggetto controllante residente, che riveste carattere di obbligatorietà [circolare n. 51/E/2010; circolare 14.6.2010, n. 32/E], deve dimostrare che la società estera non è una «costruzione di puro artificio» intesa a conseguire indebiti vantaggi fiscali, secondo i criteri enucleati dalla giurisprudenza comunitaria (sentenza «Cadbury-Schweppes» del 12.9.2006 – causa C-196/04), e codificati dalla Commissione Europea (comunicazione COM(2007) 785 def del 10 dicembre 2007, riguardante «L’applicazione di misure antiabuso nel settore dell’imposizione diretta all’interno dell’UE e nei confronti dei Paesi terzi»).

 

Le novità sulle CFC 

L’art. 8 del D.Lgs. n. 147/2015 è intervenuto recando nuove disposizioni in materia di società controllate estere [CFC], contenute in particolare negli artt. 167 e 168 del TUIR4.

In sintesi, oltre ad allineare la disciplina della tassazione per trasparenza alle nuove modalità di individuazione dei Paesi e dei territori considerati a fiscalità privilegiata, le norme in commento sostituiscono l’obbligo di interpello all’amministrazione finanziaria, ai fini della disapplicazione della disciplina CFC in caso di partecipazioni in imprese estere controllate, con la facoltà di interpello preventivo; salvi i casi in cui la disciplina CFC sia stata applicata ovvero non lo sia stata per effetto dell’ottenimento di una risposta favorevole all’interpello, il socio residente controllante deve comunque segnalare nella dichiarazione dei redditi la detenzione di partecipazioni estere.

Come sopra già osservato, l’interpello CFC era fatto rientrare tra le varie forme di «interpello obbligatorio» enucleate dalla prassi interpretativa dell’Agenzia delle Entrate.

Si rammenta che taluni interpelli erano ritenuti obbligatori in quanto:

  • finalizzati all’ottenimento «di un parere favorevole all’accesso ad un regime derogatorio (in talune ipotesi anche agevolativo) rispetto a quello legale, normalmente applicabile»

  • resi necessari dall’esigenza «di consentire all’amministrazione finanziaria un monitoraggio preventivo in merito a particolari situazioni considerate dal legislatore potenzialmente elusive.

 

Per effetto delle innovazioni apportate nel 2015, con decorrenza dallo stesso periodo di imposta, per le CFC è ora possibile fornire le dimostrazioni normativamente richieste, analogamente a quanto accade per i costi esteri black list, alternativamente:

  • in sede di interpello preventivo;

  • in sede di controllo (verifica/contraddittorio con l’ufficio).

     

Accertamento e sanzioni speciali

Secondo quanto stabilito dall’art. 8, c. 1, lett. f, del decreto internazionalizzazione, il comma 8-ter dell’articolo 167 del TUIR è stato integrato mediante l’inserimento dei seguenti nuovi commi:

  • comma 8-quater: prima di emanare l’avviso di accertamento, l’amministrazione finanziaria deve notificare all’interessato un apposito avviso con il quale gli viene concessa la possibilità di fornire, nel termine di 90 giorni [uguale al termine concesso in materia di costi esteri], le prove per la disapplicazione delle disposizioni del comma 1 o del comma 8-bis. Se l’amministrazione non ritiene idonee le prove addotte, deve darne specifica motivazione nell’avviso di accertamento. Se la disciplina CFC risulta applicabile e non è intervenuta risposta favorevole all’istanza di interpello eventualmente presentata, il socio residente controllante della CFC deve segnalare la detenzione di partecipazioni in imprese estere controllate nella dichiarazione dei redditi di cui al comma 1 e al comma 8-bis [in tale ultimo caso l’obbligo di segnalazione sussiste solo al ricorrere delle condizioni di cui alle lettere a) e b) del medesimo comma 8-bis, cioè tassazione inferiore al 50% di quella italiana e proventi costituiti per oltre il 50% da passive income];

  • comma 8-quinquies: le esimenti previste nel comma 5 e nel comma 8-ter non devono essere dimostrate in sede di controllo se il contribuente ha ottenuto risposta positiva a interpello, fermo restando il potere dell’amministrazione finanziaria di controllare la veridicità e completezza delle informazioni e degli elementi di prova forniti in tale sede.

 

A norma dell’art. 8, comma 2, del D.Lgs. internazionalizzazione, nell’art. 8 del D.Lgs. n. 471/1997 è stato anche inserito il seguente nuovo comma 3-quater:

«quando l’omissione o incompletezza riguarda la segnalazione prevista dall’articolo 167, comma 8-quater, terzo periodo, del testo unico sulle imposte sui redditi (…), si applica una sanzione amministrativa pari al dieci per cento del reddito conseguito dal soggetto estero partecipato e imputabile nel periodo d’imposta, anche solo teoricamente, al soggetto residente in proporzione alla partecipazione detenuta, con un minimo di 1.000 euro ed un massimo di 50.000 euro. La sanzione nella misura minima si applica anche nel caso in cui il reddito della controllata estera sia negativo».

Tale previsione, che assume carattere speciale, sostituisce una sanzione di tipo percentuale, commisurata al reddito, alla generale sanzione da 2.000 a 21.000 euro introdotta per tutti gli altri interpelli dal comma 3-ter del medesimo art. 8 del D.Lgs. n. 471/1997 per i casi di omissione e incompletezza delle informazioni dati da rendere in dichiarazione.

 

CFC: la tipologia di interpello

L’interpello CFC transita con la riforma del 2015 dall’alveo «ordinario» a quello «probatorio» di nuova istituzione; la relativa risposta deve essere resa dall’amministrazione finanziaria entro 120 giorni dalla presentazione dell’interpello.

Si rammenta che, secondo la nuova normativa applicabile con decorrenza primo gennaio 2016, la tipologia «probatoria» di interpello costituisce una categoria molto ampia, nel cui contesto sono riconducibili diverse tipologie di istanze già conosciute dall’ordinamento, e consiste in una richiesta all’amministrazione finalizzata a ottenere un parere sulla sussistenza delle condizioni o sulla idoneità degli elementi probatori offerti dal contribuente ai fini dell’adozione di un determinato regime fiscale.

La procedura consente la valutazione dei requisiti di accesso a determinati regimi fiscali, con formula molto ampia, anticipando l’attività che ordinariamente l’amministrazione svolge in sede di accertamento (con più vasti poteri di acquisizione di dati ed elementi di prova).

Secondo quanto osserva la relazione illustrativa, il riferimento all’accesso a un determinato regime fiscale va interpretato in senso ampio, come comprensivo dei casi in cui si tratti della non operatività di determinate limitazioni o regole speciali. Ecco quindi che talune tipologie di quesiti, che nel regime ante riforma rientravano tra gli interpelli «disapplicativi», vengono ora condotte al contesto «probatorio».

 

L’interpello sui costi esteri black list

Per le imprese che intrattengono rapporti con soggetti non residenti, risulta relativamente facile il comportamento consistente nell’acquisizione – fittizia o sovrafatturata – di beni e servizi provenienti da giurisdizioni fiscalmente più «vantaggiose», con il risultato di ridurre le basi imponibili in Italia ai fini delle imposte sui redditi.

Per contrastare tali ipotesi è stata introdotta in Italia una normativa di contrasto al fenomeno dei «costi esteri» elusivi, che prevede la possibilità di interpello e limita la propria operatività al novero degli Stati e territori black list, secondo l’elenco ministeriale.

La normativa richiamata – art. 110, comma 10, TUIR – prevedeva, nella sua versione storica, l’indeducibilità dei costi relativi a operazioni effettuate con partners [fornitori] residenti in Stati e territori a fiscalità agevolata, o caratterizzati dalla scarsa disponibilità a collaborare con l’amministrazione finanziaria italiana.

Tale deduzione è però ammessa per le operazioni intercorse con imprese residenti o localizzate in Stati dell’Unione europea o dello Spazio economico europeo inclusi nella lista di cui al citato decreto.

L’individuazione degli Stati e territori in relazione ai quali operava il vincolo si fonda sui decreti ministeriali 21.11.2001, 23.1.2002 e 27.12.2002.

Ai sensi del comma 11 del predetto art. 110 del TUIR, il vincolo alla deducibilità dei costi non risulta applicabile se le imprese residenti in Italia forniscono la prova che le imprese estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione.

Inoltre, le spese e gli altri componenti negativi in tal modo deducibili devono essere separatamente indicati nella dichiarazione dei redditi.

La prova richiesta poteva essere fornita, alternativamente:

  • in sede di controllo fiscale, dimostrando nel contraddittorio che le imprese estere non sono finalizzate alla sottrazione di risorse all’erario italiano;

  • in via preventiva, ottenendo una risposta positiva da parte dell’Agenzia delle Entrate a una specifica istanza di interpello nelle forme di cui al sopra menzionato art. 21, L. n. 413/1991 (ossia seguendo la procedura indicata dal D.M. 13.6.1997, n. 195 ).

Secondo il dodicesimo comma dell’art. 110 [immodificato], le norme in materia di costi esteri black list non trovano applicazione in caso di soggetti non residenti cui risultino applicabili le disposizioni sulle CFC.

Per effetto del comma 12-bis del medesimo art. 110, «le disposizioni dei commi 10 e 11 si applicano anche alle prestazioni di servizi rese dai professionisti domiciliati in Stati o territori non appartenenti all’Unione europea aventi regimi fiscali privilegiati» [tale previsione è stata inserita dall’art. 6, primo comma, del D.L. n. 262/2006, convertito dalla L. n. 286/2006].

La ricorrenza dei requisiti prescritti dalla norma, in presenza dei quali non dovrebbe applicarsi la regola dell’indeducibilità dei costi, può consistere nella dimostrazione – in sede di interpello – dei seguenti presupposti (in via alternativa):

  • effettivo esercizio dell’attività [come propria attività principale] nello Stato o territorio estero da parte dell’impresa estera fornitrice;

  • concreta esecuzione delle operazioni e loro rispondenza a un effettivo interesse economico.

 

Le novità del 2015: Decreto Internazionalizzazione e Costi Black List

L’art. 5 del decreto internazionalizzazione ha innovato in più punti la disciplina relativa ai costi «black list».

Secondo le nuove disposizioni normative, viene consentita la deduzione dall’imponibile delle spese e degli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse con imprese localizzate in Stati o territori aventi regimi fiscali privilegiati, individuati in ragione della mancanza di un adeguato scambio di informazioni con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, entro il limite del valore normale dei beni e dei servizi acquistati in base a operazioni che hanno avuto concreta esecuzione.

È stata quindi eliminata la condizione che subordinava la deducibilità di tali costi al fatto che l’impresa estera svolgesse prevalentemente una attività commerciale effettiva.

È stato altresì chiarito che l’indeducibilità delle spese riguarda anche le prestazioni di servizi rese dai professionisti domiciliati in Stati o territori coi quali non vi è adeguato scambio di informazioni e che sono elencati in apposito decreto ministeriale.

Secondo la versione dell’art. 110, comma 11, vigente a decorrere dal 7.10.2015, le disposizioni di cui al comma 10 – cioè la deduzione entro i soli limiti del valore normale – non si applicano quando le imprese residenti in Italia forniscano la prova che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione.

Le spese e gli altri componenti negativi deducibili ai sensi del primo periodo del citato comma 11 e ai sensi del comma 10 devono essere oggetto di separata indicazione nella dichiarazione dei redditi.

Con soluzione analoga a quanto è stato previsto in materia di antiabuso [art. 10-bis, comma 6, L. n. 212/2000, introdotto dal D.Lgs. 5.8.2015, n. 128], anche per i costi esteri la norma concede ai contribuenti la possibilità di controdedurre alle tesi dell’amministrazione: in questo caso i giorni concessi sono 90 – e non 60 come nell’antiabuso -, e le dimostrazioni da fornire riguardano la prova:

  • dell’effettivo interesse economico delle spese;

  • della loro concreta esecuzione.

La scomparsa dell’ulteriore esimente prevista in precedenza, ossia dell’effettiva esistenza del soggetto e dell’attività economica nello Stato o territorio estero, si spiega considerando che tale dimostrazione non è di per sé idonea a escludere il carattere fittizio o gonfiato dei costi.

Se l’amministrazione non ritiene idonee le prove addotte dai contribuenti, è tenuta a darne specifica motivazione nell’avviso di accertamento.

Per la produzione delle prove, analogamente a quanto accade per le CFC, il contribuente ha la facoltà [non l’obbligo] di interpellare l’amministrazione ai sensi dell’articolo 11, comma 1, lettera b), dello Statuto del contribuente [interpello probatorio].

Nel caso in cui non sia stato proposto interpello, se si verificano omissioni o inesattezze nel rendere la prescritta comunicazione nella dichiarazione dei redditi, come per le CFC risulta applicabile una sanzione amministrativa speciale rispettivamente pari al 10% dei dividendi e delle plusvalenze e al 10% del reddito imputabile dal soggetto estero, con un minimo di 1000 e un massimo di 50.000 euro.

 

6 novembre 2015

Fabio Carrirolo

 

1 Le società estere «black list» semplicemente collegate – e non controllate – non sono più assoggettate alla disciplina CFC, come verrà illustrato nell’articolo.

2 L’art. 168 del TUIR, e con esso l’estensione della disciplina CFC alle società collegate situate in Stati e territori esteri «black list», è stato abrogato con decorrenza 2015 dall’art. 8, comma 3, del D.Lgs. internazionalizzazione n. 147/2015.

3 A causa della prevalenza di «passive income», cioè di redditi non prodotti da una vera e propria attività, ma discendenti da situazioni «contrattuali» intercorrenti tra il soggetto controllante e la CFC, la normativa CFC diviene applicabile anche con riferimento a partecipazioni in società residenti in Stati o territori non black list (c.d. CFC white). In questi casi, per la dimostrazione della «prima esimente» (art. 167, c. 5, lett. a, TUIR) è necessaria la dimostrazione dell’attività effettiva «nel mercato» estero di riferimento.

4 L’art. 168 del TUIR, e con esso l’estensione della disciplina CFC alle società collegate situate in Stati e territori esteri «black list», è stato abrogato con decorrenza 2015 dall’art. 8, c. 3, del D.Lgs. internazionalizzazione n. 147/2015.