Finanziamenti infruttiferi infragruppo ed antieconomicità legittimano accertamento

in un gruppo di società, nelle quali figurano soggetti legati da vincoli di parentela, lo strumento dei ‘finanziamenti infruttiferi dei soci’ (dei quali non viene data giustificazione nè remunerazione) maschera fatti di evasione fiscale – nell’opinione del Fisco e dei Giudici

Con sentenza depositata l’8 luglio 2007 la CTR del Lazio aveva rigettato l’appello dell’Amministrazione Finanziaria, affermando che l’accertamento, fondato essenzialmente sulla supposta esistenza di un gruppo di società, nelle quali figuravano soggetti legati da vincoli di parentela, che, tramite lo strumento dei “finanziamenti infruttiferi dei soci” (dei quali non era stata data alcuna giustificazione), mascheravano, ad avviso dell’Agenzia, l’evasione fiscale conseguente ai ricavi in nero dell’insieme delle attività turistico-alberghiere dello stesso gruppo, era illegittimo.

La CTR riteneva infatti che dette supposizioni non erano suffragate da elementi concreti e riscontri tali da giustificare, ex art. 39, c. 1, lett. d, dpr 600/73, l’impugnato accertamento induttivo.

 

Nello specifico i giudici di merito evidenziavano poi che, in ordine all’ipotesi della sussistenza di gruppo di società, non era stato provato che tra le stesse società esistessero rapporti di partecipazione incrociata (o sovraordinata), né commistioni di cariche sociali, né sedi o uffici in comune e che anzi le società gestivano le strutture in Regioni differenti e svolgevano attività parzialmente diverse, con partecipazioni dei soggetti avvinti da vincolo familiare, in certi casi, solo minoritarie.

In ordine poi ai riscontrati finanziamenti dei soci, ad avviso dei giudici di merito, era stato dimostrato, tramite il prospetto dei redditi dagli stessi soci dichiarati, che la loro capacità di spesa era tale da poter giustificare quanto rilevato dai verbalizzanti a titolo di finanziamento.

Avverso detta sentenza proponeva dunque ricorso per cassazione l’Agenzia, eccependo che, nonostante in appello fossero state evidenziate numerose circostanze ed elementi dai quali desumere che i finanziamenti infruttiferi dei soci costituissero in realtà ricavi in nero, la CTR si era limitata a confutare solo alcuni di essi (esistenza gruppo imprenditoriale e adeguatezza capacità economica dei soci finanziatori), senza procedere ad una valutazione comparativa tra gli elementi addotti dalla contribuente e quelli proposti dall’Ufficio e che comunque l’assunto della CTR circa l’inesistenza di un “gruppo” di società riconducibile alla medesima famiglia era palesemente smentito dalle contrarie risultanze del PVC.

In particolare, infatti, secondo l’Agenzia, a fronte della registrazione, tra le entrate di cassa di tutte le società del gruppo, di ingenti somme riconducibili a finanziamenti infruttiferi dei soci, con relativa restituzione effettuata in parte su c/c intestati ai soci e in parte in contanti, nonché della mancanza di prova dell’effettività degli apporti dei soci, gravava sul contribuente l’onere di indicare e provare la sussistenza di fatti idonei a giustificare l’antieconomicità del detto comportamento della contribuente.

 

I giudici di legittimità, con la sentenza n. 12764 del 19 giugno 2015 accoglievano dunque il ricorso, affermando che, con riferimento all’affermata carenza di prova in ordine alla sussistenza di un gruppo di società, riconducibile alla medesima famiglia, i predetti fatti (gestione, da parte del gruppo di società, di attività in parte diverse e in Regioni differenti; partecipazione solo minoritaria), addotti dalla CTR per respingere l’appello dell’Amministrazione, non potevano di per sé soli ritenersi logicamente incompatibili con i supposti “rapporti di partecipazione incrociata o sopraordinata” e con le supposte “commistioni tra le cariche sociali“, ben potendo sussistere detti rapporti e commistioni anche con partecipazione minoritaria e tra società svolgenti attività diverse ed in Regioni differenti.

E questo ancor più considerato che l’Ufficio aveva evidenziato nell’appello specifiche rilevanti circostanze e, in particolare che le due società (la seconda proprietaria delle strutture turistiche gestite dalla prima) facevano in realtà capo ad un unico gruppo imprenditoriale, operante nel settore turistico ed alberghiero e controllato dalla medesima famiglia.

Con riferimento, poi, ai finanziamenti infruttiferi dei soci, ritenuti dall’Ufficio ricavi in nero, la CTR, come visto, si era limitata a sostenere che era stato dimostrato, tramite il prospetto dei redditi, che la capacità di spesa dei soci era tale da poter giustificare quanto rilevato dai verbalizzanti a titolo di finanziamento.

Tale argomentazione, però, secondo la Corte, “appare assolutamente insufficiente, non potendosi di per sé desumere l’effettività di un finanziamento infruttifero solo dalla affermata capacità di spesa (e quindi da un fatto solo potenzialmente idoneo allo stesso), non bastando la asserita disponibilità di liquidità a dimostrare l’effettività del finanziamento; tanto, in specie, considerando che, a fronte del fatto che tra le entrate di cassa di tutte le società del gruppo erano registrate ingenti somme riconducibili a “finanziamenti infruttiferi dei soci”, non era stata individuata alcuna prova concreta dell’effettività degli apporti e della provenienza delle somme versate”.

L’antieconomicità della gestione dell’azienda, unitamente alla rilevata esistenza di finanziamenti infruttiferi effettuati dai soci e dalla mancanza di utili distribuiti agli stessi soci, è dunque evidente sintomo di sottofatturazione ed evasione fiscale.

 

La rilevanza dell’antieconomicità nella gestione dell’impresa, ai fini della legittima contestazione di maggiori redditi da parte dell’Amministrazione Finanziaria, è stata peraltro più volte riconosciuta dalla Corte Suprema, la quale, per esempio, con l’Ordinanza n. 12395 del 20 maggio 2010, ha stabilito che “In tema di accertamento induttivo dei redditi d’impresa, consentito dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d) sulla base del controllo delle scritture e delle registrazioni contabili, l’atto di rettifica, qualora l’ufficio abbia sufficientemente motivato, sia specificando gli indici di inattendibilità dei dati relativi ad alcune poste di bilancio, sia dimostrando la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, è assistito da presunzione di legittimità circa l’operato degli accertatori, nel senso che null’altro l’ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse, senza che sia sufficiente invocare l’apparente regolarità delle annotazioni contabili”.

La vera natura dei finanziamenti, considerati infruttiferi per mere esigenze di gruppo, era dunque quella di restituzione di ricavi in nero.

L’esigenza è infatti in questi casi quella di pervenire al prelievo d’imposta in base al principio del substance over form, da effettuarsi anche sulla base del comportamento complessivo.

L’art. 62 sexies del D.L. 331/93, stabilisce del resto che “gli accertamenti di cui all’art. 39, comma 1, lett. d) del Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, e 54 del Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni, possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta…”, consentendo, pertanto, all’Amministrazione Finanziaria di effettuare un accertamento del reddito, basato su presunzioni semplici, purché gravi precise e concordanti, anche in presenza di una contabilità formalmente regolare, potendo la contabilità essere considerata complessivamente inattendibile in quanto configgente con regole fondamentali di ragionevolezza, come appunto anche quelle in tema di scarsa redditività dell’impresa.

La sostanziale coincidenza tra finanziamenti ed omessi ricavi può fare dunque senz’altro presumere che i soci medesimi abbiano effettuato finanziamenti con ricavi in nero.

Atteso infatti che lo scopo di una società di capitali è sempre la produzione di utili e quindi di reddito e considerato che la legge non conferisce rilevanza ad una eventuale volontà orientata in senso diverso, i maggiori elementi positivi (ricavi) afferenti le operazioni economiche non idonee sin dall’origine a realizzare detta finalità non possono che essere ripresi a tassazione.

 

Sarà allora compito del contribuente dimostrare l’inconsistenza dell’impianto logico e giuridico dell’Erario e questo non come conseguenza di un’inversione dell’onere della prova, ma come adempimento dell’onere della prova di ciascuna delle parti in processo ex art. 2697 c.c..

Tutta la questione, in sostanza, si sposta sul piano prettamente probatorio, laddove, del resto, la Corte di Cassazione in varie occasioni ha già avuto modo di attribuire una forte valenza probatoria al riscontro del carattere “antieconomico” del comportamento del contribuente, affermando che l’effettuazione di un’operazione imprenditoriale, che contrasti con i criteri di economicità “costituisce di per sé stessa un elemento indiziario estremamente grave e preciso“, in grado di legittimare l’accertamento in rettifica dell’Ufficio (cfr. Corte Cass., Sez. trib., n. 3980 del 22 maggio 2002).

 

30 luglio 2015

Giovambattista Palumbo