Le ipotesi di riforma del credito cooperativo: una Holding Spa per l’aspetto operativo, e la Federazione per l’aspetto giuridico e istituzionale

sta avanzando il progetto di riforma delle Banche di Credito Cooperativo: il progetto di riorganizzazione del mondo delle BCC tuttavia si può scontrare con le agevolazioni fiscali connesse allo status di banca cooperativa

 

La possibile riforma del credito cooperativo, già indicata in una proposta di modifica di alcuni articoli del Testo Unico bancario, che il governo aveva presentato e poi ritirato nei mesi scorsi, si basava su un sistema di fondo incentrato sulla costituzione di una Spa con licenza bancaria, il cui capitale fosse aperto ad investitori e alla quale sarebbe dovuto essere affidato il controllo delle bcc. Lo stesso schema sembra debba caratterizzare la riforma ancora in atto. L’obbligo di adesione ad una Spa capogruppo, che non ha natura cooperativa, né scopo mutualistico, rischia però di far perdere a tutte le banche aderenti le caratteristiche di cooperative a mutualità prevalente e dunque anche le agevolazioni fiscali a tale natura legate.

Il credito Cooperativo rappresenta infatti una galassia particolare nel panorama bancario italiano. Tali banche godono infatti di rilevanti agevolazioni fiscali. La normativa applicabile alla fattispecie in esame prevede in particolare che le bcc fruiscono dell’esenzione dal reddito d’impresa di una quota pari al 70% degli utili netti, destinata a riserva indivisibile e che non concorrono a formare il reddito imponibile le imposte sui redditi riferibili alle variazioni effettuate ai sensi del T.U.I.R., né la quota degli utili netti, pari al 3%, destinata a fondi mutualistici. Ne consegue che per tali tipi di Banche la quota assoggettata ad imposizione fiscale è pari al 27% degli utili netti annuali. L’agevolazione in parola, tuttavia, è subordinata al rispetto di requisiti “formali ” (indicazione delle clausole statutarie di cui all’art. 26 del D.Lgs. CPS 14/12/47, n. 1577 e cioè divieto di distribuzione dei dividendi e delle riserve e devoluzione in caso di scioglimento della società dell’intero patrimonio sociale) e “sostanziali” (le condizioni statutarie devono “in fatto” essere osservate). I “requisiti specifici” dell’operatività delle Banche di Credito cooperativo sono dunque fissati dal D.Lgs. 385/93 (Testo Unico Bancario), all’articolo 35 e consistono, essenzialmente, nel rispetto del principio del “localismo” e nel rispetto del principio della mutualità prevalente.

 

Fatta tale premessa, la domanda che si intende porre è in particolare la seguente: la costituzione di una Spa che controlli le Bcc potrebbe essere incompatibile con il suddetto fine mutualistico e dunque comportare l’esclusione delle stesse bcc dai benefìci fiscali? L’esclusione di una cooperativa dai benefìci accordati alla stregua dello scopo mutualistico deve senz’altro ritenersi consentita all’Amministrazione Finanziaria in presenza di elementi, anche solo presuntivi, che evidenzino lo svolgimento da parte della cooperativa medesima di un’attività speculativa esorbitante dal suddetto scopo. E tra queste presunzioni, come riconosciuto anche dalla Cassazione, con sentenza n. 13280 del 20 aprile 2005 (dep. il 20 giugno 2005), rientra anche la circostanza in cui la Banca di credito cooperativo faccia magari parte di “un gruppo imprenditoriale con intenti speculativi”. Anche perché senza questo filtro la differenza delle Banche di credito cooperativo rispetto alle banche SpA sarebbe praticamente annullata (tranne che sotto l’aspetto delle agevolazioni fiscali che consentirebbero dunque illeciti margini di competitività concorrenziale).

D’altra parte se è vero che il fenomeno cooperativo ha rilevanza costituzionale, è anche vero che l’art. 45 Cost. si riferisce alle attività di «cooperazione» con «carattere di mutualità» svolte «senza fini di speculazione privata» per riconoscere la loro funzione sociale, precisando che «la legge ne promuove e favorisce l’incremento» dovendo al tempo stesso provvedere agli «opportuni controlli». Laddove dunque tali opportuni controlli evidenzino l’assenza di quel doveroso carattere di mutualità, viene meno anche il riconoscimento della rilevanza della funzione sociale e quindi la spettanza delle correlate agevolazioni fiscali.

 

Tornando dunque alle proposte di modifica del sistema e ai suoi possibili effetti fiscali, nelle citate prospettive si vorrebbe in sostanza strutturare, anche formalmente, il credito cooperativo con due “teste”: una Holding Spa, per l’aspetto operativo e la Federazione, per l’aspetto giuridico e istituzionale. In sostanza la Federazione detterebbe le direttive generali, analizzando la normativa di settore (come una sorta di consulente), mentre la capogruppo, tramite le sue società operative, le tramuterebbe in strategia operativa. In tale struttura di Gruppo, la Holding risulterebbe essere la capogruppo operativa e la federazione la capogruppo associativa.

 

Essendo a capo di un gruppo bancario, la Holding avrebbe dunque la funzione di individuare le strategie e realizzare una politica concreta di programmazione e di controllo delle attività delle società partecipate, e, nella sua qualità di Capogruppo del Gruppo bancario, ai sensi dell’art. 61 del D. Lgs. n. 385/93, emanerebbe, nell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, disposizioni alle componenti il Gruppo per l’esecuzione delle istruzioni impartite dalla Banca d’Italia nell’interesse della stabilità dello stesso Gruppo. La Holding eserciterebbe quindi così direzione e coordinamento anche nei confronti delle Banche di credito cooperativo. La struttura societaria appena descritta potrebbe del resto mettere a rischio anche il rispetto del criterio del localismo, che invece deve caratterizzare in ogni caso il credito cooperativo. Ora, se in linea di principio nulla osta a che sussista nel nostro ordinamento un gruppo cooperativo (pur con tutti i limiti e i presupposti disposti dalla relativa normativa), forti dubbi sussistono invece in ordine alla compatibilità di un gruppo bancario cooperativo con i principi di mutualità e localismo, che invece devono caratterizzare le singole Banche di credito cooperativo, che eventualmente ne facciano parte, ai fini della persistenza delle agevolazioni fiscali. Nell’ambito della propria autonomia contrattuale è comunque plausibile e legittimo che le Banche di credito cooperativo possano dotarsi di una struttura (per motivi di compatibilità con il diritto bancario dotata di personalità giuridica) cui deleghino il potere di direzione e coordinamento delle proprie attività. Non pare, dunque, in questo senso, che sussistano vincoli legislativi o regolamentari all’istituzione di gruppi paritetici tra banche cooperative (pur se una loro specifica regolamentazione potrebbe risultare utile sia ai fini processuali che a quelli di vigilanza). Ciò che in questa sede si vuole evidenziare è però che il modello del gruppo bancario cooperativo (ed in particolare la persistenza delle relative agevolazioni fiscali), per essere legittimo, dovrebbe concretamente differenziarsi da quello del gruppo bancario verticale ordinario, non ammettendo ipotesi di eterodirezione. Nulla di strano del resto, in termini puramente economici, se l’aggregazione tra più imprese bancarie spesso risulta la strada ottimale per lo svolgimento in misura più efficiente di queste attività.

 

La strada dell’aggregazione in questo particolare settore presenta, tuttavia, diversi aspetti frenanti, infatti le Banche di credito cooperativo (aspetto questo fondamentale) devono rimanere radicate nel territorio, mentre la dimensione di gruppo potrebbe rendere meno stretto il legame con il territorio. L’intensità dell’azione di direzione della capogruppo, del resto, nel caso di specie, per essere legittima, non dovrebbe riguardare aspetti strategici e gestionali. Nella costruzione del gruppo bancario, quindi, le Banche di credito cooperativo dovrebbero comunque mantenere un’ampia autonomia nella gestione operativa e strategica. Solo in tal maniera potrebbe essere possibile combinare (legittimamente) le economie di scala derivanti dallo svolgimento comune di talune attività con l’esigenza di non veder ridotto il grado di radicamento nel territorio. D’altra parte il regime dell’impresa cooperativa è sempre stato contrassegnato dalla inconciliabilità tra le regole cooperative e l’eterodirezione. Essenzialmente per questo motivo, prima della riforma societaria, il gruppo cooperativo coincideva sostanzialmente con i caratteri del consorzio, che peraltro si caratterizza per la tendenziale assenza di direzione da parte della capogruppo. Anzi, proprio le caratteristiche dell’esperienza consortile fanno pensare ad una sorta di gruppo rovesciato, in cui la (pseudo) capogruppo rappresenta uno strumento di servizio alle imprese partecipanti e subisce le loro scelte di coordinamento, piuttosto che esserne l’artefice. Solo un modello del genere dunque risulta compatibile con i presupposti della mutualità. Il rapporto di coordinamento/direzione della Capogruppo, laddove del gruppo facciano parte anche imprese cooperative, deve infatti comunque essere tale da non pregiudicare o soverchiare gli interessi delle medesime cooperative (e quindi anche dei rispettivi soci e creditori). Il “non pregiudizio” alle condizioni di scambio mutualistico rappresenta quindi un limite di legittimità al contenuto dei poteri di eterodirezione. Ma vi è di più, lo scambio mutualistico, laddove si parli di gruppo bancario cooperativo, dovrebbe rappresentare anche un vincolo in positivo: lo scopo mutualistico quindi dovrebbe rappresentare, anche in positivo, la finalità del gruppo stesso e non solo delle imprese (cooperative) aderenti. Come è stato affermato già a proposito delle società cooperative consortili, parrebbe appropriata l’espressione di “mutualità di secondo grado“. Ma nel caso di specie la mutualità di primo grado (quella che ci interessa) rischia di perdersi nel fine di lucro del secondo grado (la holding e il fine di gruppo). Insomma, la scelta di costituire un gruppo bancario cooperativo, se in teoria non illegittima, risulta compromettere lo scopo mutualistico e quindi comporta il venir meno delle agevolazioni fiscali, che invece alla realizzazione di tale scopo sono connesse. E in caso contrario il regime fiscale delle società cooperative italiane potrebbe anche integrare una fattispecie di aiuto di Stato. Tali agevolazioni, infatti, laddove la Banca di credito cooperativo agisca come una banca tout court, indifferente al vantaggio per i soci e al consolidamento del rapporto con la comunità locale e proiettata invece al fine di lucro, non come strumento per il fine mutualistico, ma come fine a se stesso, comporterebbero un illecito vantaggio competitivo in violazione del principio di concorrenza.

 

Allo stato attuale dell’organizzazione di sistema, del resto, le banche di credito cooperativo sono normativamente tenute al massimo di concorrenzialità non solo esterna (e cioè nei confronti delle altre banche) ma anche interna (nei confronti delle consorelle). E del resto la Commissione Europea ha già evidenziato in questi anni che è necessario valutare se il particolare status di cui gode il credito cooperativo sia ancora oggi giustificato dall’effettivo soddisfacimento dei bisogni cooperativi dei soci, o se invece non rappresenti un semplice paravento di aiuto di stato (sotto forma di agevolazioni fiscali) ad un settore che svolge in tutto e per tutto attività bancaria assimilabile alle società di lucro. E la questione non è certo da prendere sotto gamba se solo si riflette in ordine al fatto che il credito cooperativo, da solo, rappresenta quasi il 30% della raccolta complessiva nazionale.

 

10 luglio 2015

Giovambattista Palumbo