Lista Falciani: le opzioni per il Fisco dopo la Cassazione

l’ammissibilità della Lista Falciani come strumento di accertamento apre al Fisco alcune possibilità di recupero dell’evasione derivante dall’omessa dichiarazione di somme detenute dai contribuenti italiani in Paesi black-list

Con l’Ordinanza n. 8605 del 28 aprile 2015 la Corte di Cassazione ha definitivamente messo la parola fine sulla cosiddetta Lista Falciani, risolvendo in particolare l’annosa questione della utilizzabilità dei documenti in sede processual-tributaria.

Prima di vedere cosa ha detto la sentenza, è opportuno richiamare i termini della vicenda.

 

Nell’ambito dei canali di collaborazione informativa internazionale previsti dalla Direttiva n. 77/799/CEE del Consiglio del 19/12/1977 e dalla Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Francia, sono state acquisite, presso l’amministrazione fiscale francese, informazioni (la cosiddetta “lista Falciani”) riguardanti diversi contribuenti italiani, nei confronti dei quali sono state poi avviate attività accertative.

A fronte dei recuperi poi contestati ai contribuenti sulla base di tale documentazione, l’eccezione che veniva sollevata atteneva alla asserita inutilizzabilità della documentazione così reperita, in quanto viziata, ab origine, dal fatto che era stata sottratta da un dipendente infedele della banca (il Sig. Falciani appunto), grazie ad un atto illecito di pirateria informatica, o comunque di accesso abusivo al sistema informatico della banca presso cui erano custoditi i nomi di cittadini (anche) italiani, poi risultati detentori di capitali e disponibilità mai dichiarati ai fini fiscali.

Il problema si intrecciava del resto con il valore probatorio della cosiddetta documentazione digitale, laddove, al di là delle pronunce giurisprudenziali sarebbe senz’altro opportuna una regolamentazione normativa dei “nuovi” mezzi di prova digitali (come in sostanza anche la lista Falciani) e della documentazione extracontabile digitale in genere.

In particolare, con la sentenza n. 3388 del 12 febbraio 2010, Sez. tributaria, la Suprema Corte ha a tal proposito stabilito che le notizie e gli elementi desunti e legittimamente ricavati dall’esame dei supporti informatici e dai file elettronici che contengono dati contabili ed extra-contabili sono utilizzabili ai fini della determinazione e della rettifica del reddito.

La Corte di Cassazione è poi tornata sull’argomento con l’Ord. n. 5226 del 30 marzo 2012. Anche in questo caso la Corte di Cassazione ha riconosciuto l’utilizzabilità dei documenti informatici rinvenuti, data la loro attendibilità e le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza degli indizi ivi contenuti, utili per l’elaborazione di apposite presunzioni e per l’applicazione dell’accertamento analitico-induttivo.

Infatti, si legge nella pronuncia, “i documenti informatici (cosiddetti ‘files’), …, costituiscono, …, elemento probatorio, sia pure meramente presuntivo, utilmente valutabile, salva la verifica della loro attendibilità”.

Ne deriva che la documentazione extracontabile digitale, almeno ai fini tributari, non può essere ritenuta dal giudice un indizio irrilevante circa l’esistenza di operazioni non contabilizzate.

 

Come detto, sarebbe in ogni caso utile un intervento normativo che qualifichi meglio, sia ai fini tributari che penali, il concetto di documento digitale informatico.

La documentazione extracontabile digitale, benché, sia ontologicamente e giuridicamente equiparabile alla documentazione extracontabile analogica, appare infatti caratterizzata da profili di peculiare problematicità.

In particolare, appaiono delinearsi due distinte sottotematiche, strettamente interconnesse:

da un lato, appunto, il tema dell’acquisizione “irrituale” di tale documentazione;

dall’altro lato, appare evidente che l’acquisizione di documentazione extracontabile digitale richiede modalità procedurali di carattere tecnico, nonché conseguenti conoscenze di settore.

Procedere all’estrazione di file da supporti informatici è un’operazione non certo equiparabile, per complessità e natura, all’acquisizione di un documento analogico da parte dei funzionari del Fisco.

Dalla documentazione acquisita nel corso di una verifica fiscale ben possono emergere del resto anche risultanze penalmente rilevanti.

Pertanto, andrebbe garantita sin dall’esercizio dei poteri di polizia tributaria, la messa in atto di quegli accorgimenti tecnici atti a garantire, anche in sede penale, la piena utilizzabilità delle evidenze digitali raccolte.

Sarebbe, dunque, necessario garantire, anche in via normativa, la correttezza del processo di acquisizione, anche in sede di verifica fiscale (in vista di un eventuale utilizzo in sede penale delle evidenze riscontrate).

 

Tornando dunque al problema specifico della utilizzabilità della lista Falciani, basata appunto sull’utilizzo di documentazione extracontabile digitale, acquisita attraverso un abusivo accesso informatico, c’è da evidenziare quanto segue.

Non esiste nell’ordinamento processuale tributario un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite e pertanto gli organi di controllo tributario possono utilizzare tutti i documenti dei quali siano venuti in possesso salvo la verifica della attendibilità, in considerazione della natura e del contenuto dei documenti stessi.

Tale principio esiste invece nel codice di procedura penale (si veda l’art. 191 c.p.p.) e L’inutilizzabilità è dunque categoria giuridica valida solo per il processo penale e la mancata previsione nel processo tributario non determina sospetti di incostituzionalità in ragione della particolare rilevanza degli interessi coinvolti nella giurisdizione penale, laddove, invece, vige il principio secondo cui è inutilizzabile la prova acquisita irritualmente.

Per questo motivo, nei processi penali che si sono instaurati sulla Lista Falciani, i contribuenti sono stati per lo più assolti, dato che, secondo i giudici penali, la documentazione in esame rappresentava in sostanza un corpo di reato e non era dunque utilizzabile a sostegno dell’accusa.

 

Stessa conclusione che era stata raggiunta anche in sede tributaria dai giudici di merito nella vicenda poi giunta all’esame della Suprema Corte ed ora risolta con la citata Ordinanza n. 8605 del 28 aprile 2015, la quale, esaminando il tema dell’utilizzabilità dei dati acquisiti dall’ufficio fiscale dalle autorità fiscali francesi in forza della dir.CEE 77/779, richiama la Corte di giustizia-Corte giust., Grande Sezione, 22 ottobre 2013, causa C-276/12, che ha riconosciuto che la direttiva 77/799 non tratta del diritto del contribuente di contestare l’esattezza dell’informazione trasmessa e non impone alcun obbligo particolare quanto al contenuto di quest’ultima, aggiungendo inoltre che spetta solo agli ordinamenti nazionali fissare le relative norme, spettando poi al giudice nazionale valutare il valore di tali prove.

Tanto premesso, la Corte esclude dunque che la mera acquisizione di informazioni mediante lo strumento di cooperazione comunitario abbia la capacità di “purgare” gli elementi acquisiti da eventuali illegittimità o vizi, non potendosi però nemmeno concludere che l’autorità fiscale interna avesse l’obbligo di controllare l’autenticità, provenienza e riferibilità della documentazione acquisita.

In altri termini, dice la Corte, “se non può sostenersi che le modalità di acquisizione mediante strumenti di cooperazione ai fini della lotta all’evasione possano ex se rendere legittima l’utilizzabilità della documentazione trasmessa, non può nemmeno affermarsi, come invece ha ritenuto la CTR, che detti strumenti imponessero all’autorità italiana un’attività di verifica circa provenienza e autenticità della documentazione trasmessa, anche considerando che secondo la Corte di Giustizia la dir.77/799 persegue l’ulteriore finalità di consentire il corretto accertamento delle imposte sul reddito e sul patrimonio nei vari Stati membri”.

Erronea era, quindi, l’affermazione della CTR secondo cui era onere dell’amministrazione comprovare l’autenticità e provenienza della documentazione, non potendosi in ogni caso ipotizzare un’invalidità della documentazione sulla base di elementi previsti dalla normativa interna in tema di rogatorie internazionali.

 

Passando poi all’esame della ritenuta inutilizzabilità degli elementi trasmessi dall’autorità fiscale francese correlata, secondo la CTR, al divieto nascente dall’art. 240 c.p.p., comma 2, la Corte, dopo aver ricordato la sua giurisprudenza orientata a mantenere una netta differenziazione fra processo penale e processo tributario, secondo un principio sancito non soltanto dalle norme sui reati tributari (D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 20) ma altresì desumibile dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p., evidenzia che l’art. 220 disp. att. c.p.p. impone sì l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale (come anche l’art. 191 in tema di inutilizzabilità), quando nel corso di attività ispettive emergano indizi di reato, ma soltanto ai fini della “applicazione della legge penale” (Cass. nn. 22984, 22985 e 22986 del 2010; Cass. N. 13121/2012)..

E quindi, “…non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale comporta, di per sè, la inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso ed esclusi, ovviamente, i casi in cui viene in discussione la tutela dei diritti fondamentali di rango costituzionale (quali l’inviolabilità della libertà personale, del domicilio, ecc.) – cfr.Cass. n. 24923/11 -. Tale prospettiva si collega al principio per cui nell’ordinamento tributario non si rinviene una disposizione analoga a quella contenuta all’art. 191 c.p.p., a norma del quale “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate“.

E peraltro non poteva in alcun modo porsi in discussione la legittimità dell’attività posta in essere dall’Amministrazione fiscale interna su impulso di quella francese in forza della dir.79/799/CEE, correttamente utilizzata nel caso di specie, anche in relazione a quanto sopra esposto.

E del resto, tanto il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, che l’art. 41, comma 2, e il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55, comma 1, prendono esplicitamente in considerazione l’utilizzo di elementi “comunque” acquisiti, e perciò anche nell’esercizio di attività istruttorie attuate con modalità diverse da quelle indicate nel D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 33 e nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, individuando, quindi, un principio generale di non tipicità della prova, che consente l’utilizzabilità – in linea di massima- di qualsiasi elemento che il giudice correttamente qualifichi come possibile punto di appoggio per dimostrare l’esistenza un fatto rilevante e non direttamente conosciuto.

Né, conclude la Corte, “l’utilizzazione, nel procedimento amministrativo volto all’accertamento di violazioni di natura fiscale, dei documenti provenienti dalla lista determina una lesione di diritti costituzionalmente garantiti del contribuente”, laddove peraltro “i valori collegati al diritto alla riservatezza e al dovere di riserbo sui dati bancari sono sicuramente recessivi di fronte a quelli riferibili al dovere inderogabile imposto ad ogni contribuente dall’art. 53 Cost.”.

E quindi, secondo i giudici di legittimità, l’esigenza primaria rappresentata dall’art. 53 Cost., che si sostanzia nei doveri inderogabili di solidarietà, primo fra tutti quello di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva, alla quale si associa in modo altrettanto cogente l’obiettivo di realizzare una decisa “lotta” ai paradisi fiscali illecitamente costituiti all’estero, giustifica l’utilizzabilità delle prove acquisite dall’amministrazione, trovando comunque copertura nel quadro normativo sopra menzionato.

Né, infine, “appare profilabile la lesione dell’art. 24 Cost. se si accede all’idea che il contenuto della lista costituisce semplice indizio nel processo tributario ed il giudicante di merito è tenuto a prenderlo in considerazione, pro o contro il fisco, nel quadro delle complessive acquisizioni processuali, con piena facoltà d’intervento delle difese – cfr.Cass. n. 16874/2009”.

Specificando poi il concetto già sopra esposto in tema di valore probatorio della documentazione digitale, la Corte evidenzia che, quanto al carattere indiziario degli elementi originariamente raccolti dalle autorità francesi, la CTR aveva omesso di considerare che “anche un solo indizio può risultare già di per sè idoneo a giustificare la pretesa fiscale, essendo ormai ferma la giurisprudenza di questa Corte nel ritenere che in materia tributaria, è sufficiente, quale prova presuntiva, un unico indizio, preciso e grave (ancorchè l’art. 2729 c.c. si esprima al plurale) e la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza del fatto da dimostrare derivi come conseguenza del fatto noto alla stregua di canoni di ragionevolezza e probabilità”.

 

L’Amministrazione Finanziaria italiana ha dunque legittimamente acquisito e legittimamente utilizzato inequivocabile documentazione trasmessagli dall’Amministrazione Finanziaria francese sulla base di apposite direttive comunitarie e tale documentazione era sufficiente, anche da un punto di vista probatorio, alla dimostrazione della contestata evasione fiscale.

E questo, al di là della Lista Falciani, non può che suonare come un monito (neppure tanto implicito) a sostegno della voluntary disclosure.

 

8 maggio 2015

Giovambattista Palumbo