Transfer pricing: scambio di beni e servizi tra società correlate per diminuire la pressione fiscale

il transfer pricing è quella tecnica mediante la quale, nell’ambito di un rapporto tra società correlate, è posto in essere il tentativo di trasferire gli utili da un Paese ad alta pressione fiscale a un altro con regime fiscale più tenue, attraverso lo scambio di beni e servizi al di fuori delle normali pratiche commerciali, alterando il valore normale delle cessioni dei beni o delle prestazioni di servizi effettuate o ricevute: il contrasto a tale fenomeno va effettuato anlizzando le situazioni caso per caso

 

Aspetti generali

Il transfer pricing (TP) è quella tecnica mediante la quale, nell’ambito di un rapporto tra società «correlate», è posto in essere il tentativo di trasferire gli utili da un paese ad alta pressione fiscale a un altro con regime fiscale più tenue, attraverso lo scambio di beni e servizi al di fuori delle normali pratiche commerciali, alterando il valore normale delle cessioni dei beni o delle prestazioni di servizi effettuate o ricevute.

L’ordinamento tributario italiano contrasta tale pratica mediante l’art. 110, settimo comma, del TUIR, il quale dispone che «i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva aumento del reddito; la stessa disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali “procedure amichevoli” previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi. La presente disposizione si applica anche per i beni ceduti e i servizi prestati da società non residenti nel territorio dello Stato per conto delle quali l’impresa esplica attività di vendita e collocamento di materie prime o merci o di fabbricazione o lavorazione di prodotti».

Il comma 281 dell’art. 1 della L. 27.12.2013, n. 147 (legge di stabilità 2014) ha esteso al comparto IRAP le norme in tema di TP, con una disposizione che (pur non essendo esplicitamente qualificata come tale) ha l’apparenza di una norma di interpretazione autentica.

Afferma infatti il comma 281 che la disciplina in materia di prezzi di trasferimento «deve intendersi applicabile alla determinazione del valore della produzione netta ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive anche per i periodi d’imposta successivi a quello in corso alla data del 31 dicembre 2007».

La contestazione del TP richiede tuttavia in capo all’amministrazione finanziaria la capacità di dimostrare puntualmente, con riferimento al caso specifico, l’insufficienza o incongruità delle motivazioni addotte dalle parti private per giustificare i prezzi differenti rispetto a quelli normali di mercato. Questo in estrema sintesi il senso della sentenza n. 27296 del 23.12.2014 della Corte di Cassazione.

 

Il criterio del valore normale

Il valore normale – criterio centrale per poter attribuire alle transazioni il valore ritenuto congruo ai fini del TP – si presenta come un sistema per la determinazione dei corrispettivi fondato sulla «registrazione» dei valori consueti delle transazioni che avvengono in normali condizioni di mercato, tra soggetti indipendenti. Tale concetto non sembra differenziarsi molto, a livello generale, in ragione del settore impositivo (IVA o imposte sui redditi).

Nel settore delle imposte sui redditi, la nozione di valore normale si ricava dall’art. 9, terzo comma, del TUIR, ove è affermato che si tratta – salvo quanto stabilito nel quarto comma per azioni, obbligazioni e altri titoli – del prezzo o del corrispettivo «mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi». È altresì stabilito che «per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso. Per i beni e i servizi soggetti a disciplina dei prezzi si fa riferimento ai provvedimenti in vigore».

Relativamente all’IVA, invece, l’art. 14, terzo comma, del D.P.R. 633/1972, dispone che «per valore normale dei beni e dei servizi si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per beni o servizi della stessa specie o similari in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui è stata effettuata l’operazione o nel tempo e nel luogo più prossimi». Il quarto comma dell’articolo stabilisce – in termini del tutto analoghi a quanto previsto per le imposte sui redditi – che «per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe dell’impresa che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini della Camera di commercio più vicina, alle tariffe professionali e ai listini di borsa».

 

Perché il TP?

La normativa in materia di transfer pricing, di cui al sopra richiamato art. 110, decimo comma, del TUIR, ha secondo la Corte di Cassazione – sentenza n. 11949 del 13.7.2012 – «la finalità di consentire all’amministrazione finanziaria un controllo dei corrispettivi applicati alle operazioni commerciali e/o finanziarie intercorse tra società collegate e/o controllate residenti in nazioni diverse, al fine di evitare che vi siano aggiustamenti artificiali di tali prezzi, determinati dallo scopo di ottimizzare il carico fiscale di gruppo, ad esempio canalizzando il reddito verso le società dislocate in aree o giurisdizioni caratterizzate da una fiscalità più mite».

In tale prospettiva assume un ruolo centrale l’art. 110, settimo comma, del TUIR, a norma del quale i componenti reddituali che hanno comportato il trasferimento di base imponibile verso le società «consociate» estere vengono valutati d’ufficio secondo il criterio del valore normale (ex art. 9 del TUIR), ignorando gli importi riportati nelle fatture e nella contabilità ufficiale.

Questa disposizione normativa, sempre secondo la cassazione, costituisce una regola rispetto al criterio del corrispettivo pattuito, che opera quando il corrispettivo può essere manipolato dalle parti ai danni del fisco, come nel caso degli scambi transnazionali tra soggetti i cui processi decisionali siano riconducibili a un centro unitario.

La previsione normativa in esame completa «il catalogo delle garanzie offerte dalla legislazione a favore dell’Erario, con riferimento a tutte quelle ipotesi nelle quali il corrispettivo pattuito – data la sostanziale unicità del soggetto economico, trattandosi di rapporti commerciali tra articolazioni dello stesso gruppo – può non riflettere il reale valore dei beni e dei servizi scambiati».

Ciò sia per impedire le «condotte ‘simulatorie’ danti luogo a fenomeni di tipo evasivo», sia per «evitare che, mediante fenomeni non simulatori come l’alterazione del prezzo di trasferimento, l’Erario italiano abbia a subire comunque un concreto pregiudizio».

Sulla base di tali considerazioni, la Corte ritiene che la disciplina sul transfer pricing costituisca una clausola antielusiva, coerente con i principi comunitari in tema di abuso del diritto, finalizzata ad evitare che all’interno del gruppo di società vengano effettuati trasferimenti di utili mediante l’applicazione di prezzi inferiori o superiori al valore normale dei beni ceduti, al fine di sottrarli all’imposizione fiscale in Italia a favore di tassazioni estere inferiori.

L’articolo del TUIR deve essere coordinato con l’art. 9 del modello di convenzione OCSE1, secondo il quale «quando le condizioni convenute o imposte tra le due imprese, nelle loro relazioni commerciali o finanziarie, sono diverse da quelle che sarebbero state convenute tra imprese indipendenti, gli utili che in mancanza di tali condizioni sarebbero stati realizzati da una delle due imprese, ma che a causa di dette condizioni non lo sono stati, possono essere inclusi negli utili di questa impresa e tassati di conseguenza».

Pertanto, il criterio principale per la valutazione dei prezzi di trasferimento tra le imprese associate di un gruppo multinazionale è costituito dal principio di libera concorrenza, fondato sul regime che si instaura tra imprese indipendenti.

Ciò spiega perché – in assenza di adeguate motivazioni – le transazioni tra parti correlate, non indipendenti, nel contesto del transfer price vengano valorizzate secondo il criterio del valore normale, che è ancorato al regime della libera concorrenza.

 

Il caso esaminato dalla Corte

La vicenda dalla quale ha tratto origine il contenzioso giunto alla fase del ricorso per cassazione riguardava una società toscana sottoposta a verifica fiscale nel 2005, alla quale erano stati contestati i corrispettivi inferiori al valore normale derivanti da cessioni nei confronti di una società tedesca, nonché la deduzione (indebita secondo l’amministrazione finanziaria) di componenti reddituali negativi.

La sentenza della CTR aveva escluso l’applicabilità della disciplina del TP in quanto non ravvisava l’intento elusivo della società in ragione di due motivi specifici: 1) non sussistenza di un vantaggio per lo spostamento di redditi dal momento che nel periodo di effettuazione delle operazioni la tassazione in Germania era superiore a quella italiana; 2) inattendibilità del criterio usato per determinare il valore normale di riferimento.

L’Agenzia delle Entrate aveva proposto ricorso per cassazione prospettando i seguenti sette motivi:

  1. violazione e falsa applicazione dell’art. 76, quinto comma, e dell’art. 9 del TUIR [all’epoca vigenti], nonché dell’art. 12 delle preleggi, in relazione all’art. 360, primo, n. 3 del c.p.c. (al riguardo era richiesto se l’applicazione del TP sia condizionata dalla sussistenza di un vantaggio concreto, ovvero si tratti di una normativa che si applica in ogni caso);

  2. motivazione insufficiente su un punto decisivo delle controversia, in relazione all’art. 360, primo comma, n.5, c.p.c. (al riguardo l’Agenzia contestava la sentenza di merito affermando di aver utilizzato, nella determinazione del valore normale, delle transazioni del tutto comparabili);

  3. violazione e falsa applicazione dell’art. 75 del TUIR [oggi artt. 64 e 109], in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., con riguardo a costi ritenuti non inerenti, sostenuti dalla società per la redazione del bilancio consolidato;

  4. violazione e falsa applicazione dell’art.75 del TUIR all’epoca vigente per difetto di competenza dei costi relativi a un corso di inglese per i dipendenti;

  5. motivazione omessa o insufficiente per le conclusioni fatte dalla CTR a fronte dei numerosi argomenti svolti dall’appellante e non esaminati;

  6. violazione e falsa applicazione del vecchio art. 75, terzo comma 3, e del vecchio art. 66, secondo comma, del TUIR, per non avere la CTR considerato che la normativa in esame non consente al contribuente di dedurre liberamente le sopravvenienze passive, imponendo invece il rispetto del criterio della competenza fiscale per l’individuazione del momento in cui vengono ad esistenza i due requisiti di certezza e determinabilità;

  7. insufficiente o contraddittoria su un punto decisivo della controversia (relativo alla contestazione di costi non documentati).

Il presente contributo si limiterà all’esame dei punti nei quali assume rilevanza la disciplina del TP, con particolare riguardo alla giustificazione delle condizioni negoziali difformi rispetto a quelle normali di mercato.

 

La soluzione fornita

La Cassazione ha affrontato i primi due motivi del ricorso, riferiti proprio al TP, prendendo innanzi tutto in esame le considerazioni assorbenti del secondo motivo.

Nel caso in esame, secondo la Corte2 l’Agenzia ricorrente per cassazione non aveva chiarito perché l’asserita insufficienza della motivazione della sentenza di merito la rendesse inidonea a giustificare la decisione assunta sulla rispondenza del valore di trasferimento al valore normale.

Osserva al riguardo la Cassazione che la CTR aveva fornito una motivazione imperniata sulla determinante rilevanza «di alcuni aspetti dei complessi rapporti contrattuali intercorrenti tra le società consorelle e con la società terza acquirente, rapporti considerati di diretta incidenza sulla determinazione del valore normale».

In particolare la CTR aveva sottolineato la rilevante differenza di posizione economica e contrattuale tra la G. Gmbh, titolare della proprietà intellettuale del know-how di produzione dei beni commercializzati, e la G. S.p.a., produttrice sulla base di un contratto di licenza intercorso con la G. Gmbh con obbligo di rivendere i prodotti realizzati alla stessa G. Gmbh ovvero all’acquirente italiano B S.p.a..

La CTR aveva altresì sottolineato le differenti posizioni contrattuali che connotavano i due rapporti intercorrenti tra G. Gmbh e G. S.p.a. e che venivano a incidere sul contenuto economico degli stessi:

  • con il primo la società italiana interveniva come mera fabbricante di un prodotto da fornire alla società tedesca, che ne deteneva la proprietà intellettuale;

  • con il secondo, avendo ottenuto il diritto di fabbricare in proprio le apparecchiature e di commercializzarle, essa assumeva i rischi dell’operazione.

Secondo i giudici di legittimità la CTR aveva posto in evidenza il ruolo predominante della società tedesca in quanto detentrice del know-how di produzione: la corte di merito aveva quindi fornito una motivazione analitica e sufficiente sul punto delle particolari condizioni contrattuali praticate, mentre il motivo di ricorso per cassazione non svolgeva alcuna critica su tale aspetto (appunto, sulla detenzione del know-how).

Il rigetto del secondo motivo di ricorso ha comportato, come preannunciato, l’assorbimento del primo motivo per carenza di interesse nella controversia specifica.

 

Considerazioni di sintesi

La normativa di contrasto al fenomeno del TP è in linea di principio un validissimo strumento finalizzato a evitare le delocalizzazioni di basi imponibili, e in ciò concorre con altri strumenti ciascuno pensato per far fronte a determinati comportamenti.

In sintesi, l’anti-TP evita che la transazione con società controllate, collegate o controllanti del soggetto italiano, effettuata al di sotto del valore normale di mercato, consenta una artificiosa e arbitraria diminuzione del reddito dell’impresa residente.

E’ evidente che l’affidamento al criterio del valore normale pone l’amministrazione di fronte all’arduo compito di stimare detto valore di riferimento, che spesso manca di una base di determinazione inequivoca, trattandosi di cessioni e prestazioni che possono avere carattere particolare, episodico, difforme rispetto a qualsiasi ipotizzabile media o pratica comune.

Pur non essendo in grado di ricostruire puntualmente i vari «step» dell’accertamento e del successivo contenzioso di merito, si ritiene quindi che la fissazione di un valore normale sia operazione dotata sempre di un elevato grado di approssimazione, e pertanto soggetta alle incertezze emergenti in sede di contenzioso.

Si osserva conclusivamente che alcune delle ipotesi maggiormente controverse collegate all’applicazione delle disposizioni sul TP possono trovare risoluzione mediante un’intesa formale tra i contribuenti e l’amministrazione finanziaria, nelle forme del ruling di standard internazionale introdotto dall’art. 8 del D.L. 30.9.2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla L. 24.11.2003, n. 326.

Questo istituto è stato concretamente attuato con il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate 23.7.2004, e prevede, tramite istanza trasmessa all’Agenzia delle Entrate (Ufficio Ruling Internazionale), la preventiva definizione in contraddittorio dei metodi di calcolo del valore normale delle operazioni.

Le operazioni rientranti nell’ambito applicativo del TP possono generalmente riguardare, sempre nei rapporti infragruppo, cessioni di beni, materiali e immateriali, prestazioni di servizi, accordi di ripartizione di costi («cost sharing agreements»), spese di regia, cioè l’addebito alle varie branches di quote di spese generali sostenute dalla casa madre («management fees»), etc.

 

21 aprile 2015

Fabio Carrirolo

 

1 La Corte da riferimento alla versione 1995/1996 del Modello OCSE.

2 Che richiamava i precedenti di Cass. SS.UU. sent. n. 24148/2013 e Cass. sent. n.3668/2013.