La validità del tovagliometro negli accertamenti fiscali ai ristoranti

Secondo la Corte di Cassazione in fase di accertamento del reddito di un ristorante, la presunzione basata sull’utilizzo di tovaglioli (cd. tovagliometro) è una presunzione logica e forte per supportare la presenza di ricavi non contabilizzati.

Con la sentenza n. 20060 del 24 settembre 2014 (ud. 10 febbraio 2014) la Corte di Cassazione ha ancora una volta legittimato l’accertamento effettuato nei confronti di un ristorante, utilizzando il metodo basato sul cd. tovagliometro.

 

Tovagliometro – Il caso

L’Amministrazione finanziaria recuperava a tassazione i maggiori redditi di impresa, sulla base del numero dei pasti (desumibile dal consumo dei tovaglioli di carta, ridotto di una percentuale di errore del 25% – c.d. sfrido – e di stoffa adoperati) maggiore di quelli risultanti dalle fatture e ricevute fiscali emesse negli anni in contestazione.

La C.T. di primo accoglieva parzialmente il ricorso, dichiarando legittimo l’accertamento induttivo operato dall’Ufficio, ma aumentando la percentuale di sfrido al 40%, con conseguente abbattimento dei ricavi accertati.

In sede di appello, il giudice di secondo cure riteneva corretto l’accertamento induttivo effettuato dall’Ufficio, a fronte delle irregolarità contabili riscontrate, nonché adeguata la percentuale di sfrido del 25%, considerando del tutto immotivata, invece, quella del 40% applicata dal giudice di prima istanza.

 

Tovagliometro: il pensiero della Cassazione

La Corte, innanzitutto, osserva che “l’accertamento con metodo analitico-induttivo, con il quale l’Ufficio finanziario procede alla rettifica di componenti reddituali, ancorchè di rilevante importo, è consentito, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacchè la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata; sicchè essa possa essere considerata, nel suo complesso, inattendibile (Cass. 20857/07; 26341/09; 5731/12)”.

Nel caso concreto, si evince che i rilievi mossi ai contribuenti, consistevano:

  1. nella mancata conservazione ed esibizione ai verbalizzanti, in sede di verifica fiscale, di un inventario delle merci in giacenza al 31 dicembre di ogni anno;
  2. nella mancata conservazione di 40 ricevute fiscali;
  3. nella mancata corrispondenza dei corrispettivi annotati negli appositi registri IVA con quello risultanti dai documenti fiscali emessi;
  4. nell’inattendibilità dei redditi dichiarati per sole L. 55.197.000 nel 1998, a fronte di un volume di affari di ben L. 659.793.000, di L. 82.351.000 nel 1999, a fronte di un volume di affari di L. 679.082.000, e di L. 159.063.000 nel 2000, a fronte di un volume di affari di L. 693.681.000.

Per la Corte,

“non può revocarsi in dubbio che la complessiva inattendibilità della contabilità aziendale, seppure regolarmente tenuta sul piano formale, desumibile dai rilievi suesposti – tutt’altro che di scarsa entità, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti – sia idonea a legittimare l’accertamento induttivo, correttamente espletato dall’Ufficio sulla base del riscontro relativo al consumo dei tovaglioli utilizzati”.

I massimi giudici, quindi, rilevano che la Corte “ha più volte avuto modo di affermare, in materia, che in tema di accertamento presuntivo del reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati (risultante, per quelli di carta, dalle fatture o ricevute di acquisto, e per quelli di stoffa, dalle ricevute della lavanderia), costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto idoneo, anche di per sè solo, a lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati. E tuttavia, è evidente che devesi, del pari ragionevolmente, sottrarre dal totale una certa percentuale di tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, l’uso da parte dei camerieri, le evenienze più varie per le quali ciascun cliente può essere indotto ad utilizzare più tovaglioli, ecc. (c.d. percentuale di sfrido) (cfr. Cass. 9884/02; 15808/06; 13068/11)”.

E quindi, il metodo di ricostruzione del reddito utilizzato dall’Ufficio, “nel caso di specie, deve ritenersi del tutto legittimo”.

Né può condividersi “l’assunto dei contribuenti, secondo i quali l’accertamento induttivo operato nel caso di specie sarebbe inficiato dalla conformità dei ricavi aziendali agli studi di settore in materia, dei quali l’Ufficio non avrebbe tenuto alcun conto.

Va osservato, invero, in proposito, che gli studi di settore costituiscono, come si evince dal D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, convertito nella L. n. 427 del 1993, solo uno degli strumenti utilizzabili dall’Amministrazione finanziaria per accertare in via induttiva – in presenza di una contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile – il reddito reale del contribuente.

Siffatto accertamento, infatti, ben può essere condotto anche sulla base del riscontro – nella specie operato alla stregua degli elementi presuntivi suesposti – di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta. Sicchè, anche a prescindere dagli studi di settore, è ben possibile all’Amministrazione fare uso di tali incongruenze a fini accertativi, essendo le stesse di per sè suscettibili di evidenziare che lo stato economico della ditta presenta caratteristiche di stranezza, di singolarità e di contrasto con elementari regole economiche, tali da renderlo immediatamente percepibile come inattendibile secondo la comune esperienza (Cass. 26341/09).

E non può revocarsi in dubbio che le anomalie gestionali riscontrate, nel caso concreto, in sede di verifiche fossero, di per sè, tali da giustificare il ricorso all’accertamento induttivo, mediante gli indici parametrici suindicati, a prescindere dalle risultanze degli specifici studi di settore”.

 

Le sentenze della Cassazione in materia di tovagliometro maggiormente significative

Indichiamo, brevemente, le diverse sentenze sulla prova presuntiva per il controllo dei ristoranti, emesse dalla Corte di Cassazione.

  • Sentenza n. 51 del 14 luglio 1998, dep. il 7 gennaio 1999, secondo cui è legittimo l’avviso di accertamento che ricostruisca presuntivamente i ricavi di un ristorante sulla base del numero dei tovaglioli fatti lavare e sul consumo delle materie prime. La Corte ritiene corretto “il procedimento accertativo dell’ufficio, costituendo dato assolutamente normale quello per cui per ciascun pasto ogni cliente adoperi un solo tovagliolo, ed essendo poi ragionevolmente possibile e verosimile ricavare dal numero dei tovaglioli usati il numero dei pasti consumati, pur dovendosi ragionevolmente sottrarre i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi (posti dei soci e dei dipendenti, uso da parte dei camerieri, ecc.); così come, una volta calcolata la quantità normale di materie prime che si utilizza per ciascun pasto, è ragionevole desumere che il numero dei posti sia uguale alle materie prime acquistate diviso la quantità normale per ciascun posto (cfr. Cass. n. 23091/1991)”.

  • sentenza n. 12121 del 19 aprile 2000, dep. il 15 settembre 2000, che ha legittimato l’accertamento nei confronti di un ristorante operato dall’ufficio attraverso la quantità di materie prime (carne e pesce) acquistata. Afferma la Corte, “ l reddito di un ristorante può essere dedotto dal numero dei coperti, a sua volta dedotto dal numero di tovaglioli lavati; oppure dalla quantità di materie prime utilizzate (Cass. 7 gennaio 1999, n.51; si vedano in questi termini le sentenze della Cassazione n. 12774 del 22 dicembre 1998 e n.12482 dell’11 dicembre 1998”. In un simile quadro “appare perfettamente legittimo l’operato della Amministrazione che ha dedotto il reddito del ristorante gestito dal contribuente dalla quantità di materie prime (carne e pesce) acquistata”.

  • Sentenza n. 9884 dell’1 marzo 2002, dep. l’8 luglio 2002, secondo cui “… è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati (pur dovendosi, del pari ragionevolmente, sottrarre dal totale i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, l’uso da parte dei camerieri e simili)”. La Corte di Cassazione, dopo aver affermato la legittimità dell’accertamento, sostiene che “una volta calcolata la quantità normale di materie prime che si utilizza per ciascun pasto, è ragionevole desumere che il numero dei pasti sia uguale alle materie prime acquistate diviso la quantità normale occorrente per ciascun pasto (Corte Cass. n. 51/1999, cit.)”. Resta salva, “l’apprezzamento della cosiddetta percentuale di scarto, la quale, come si è detto, deve essere applicata per sottrarre i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi (Cass. n. 51/1999), è palese che, in forza dei principi sopra richiamati, il consumo unitario dei tovaglioli impiegati, ovvero il numero di questi, rappresenta un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente, cioè del tutto legittimamente (senza che intervenga la mediazione di alcun terzo fattore o l’applicazione di alcuna presunzione di secondo grado), presumere il numero dei pasti effettivamente forniti dall’impresa di ristorazione, così da ricostruirne i ricavi in sede di accertamento analitico-induttivo di tali specifiche poste”.

  • Sentenza n. 16048 del 28 aprile 2005, dep. il 29 luglio 2005, che ha ritenuto legittimo “l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base di del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ogni pasto, ciascun cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati, e pur dovendosi, del pari ragionevolmente, presumere una sottrazione dal totale dei tovaglioli usati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, o l’uso da parte dei camerieri”.

  • Sentenza n. 8643 del 13 marzo 2007 (dep. il 6 aprile 2007). Per la Corte, i giudici di secondo grado hanno osservato che, “nel caso di specie, l’ufficio avrebbe legittimamente applicato il metodo induttivo per la ricostruzione degli esatti ricavi, giungendo a risultati accettabili, pur in presenza di un solo dato certo costituito dal numero di tovaglioli lavati. Ma poi, in realtà, enumera altri dati giustificativi della presunzione di reddito, affermando testualmente che – nel caso in esame i fatti noti sono: il numero dei tovaglioli lavati, i prezzi dei singoli pasti ricavati dalle ricevute fiscali esaminate; aggiungendo a ciò il rilievo che il numero presunto dei coperti serviti trovava riscontro nella quantità di vino e di altri alimenti consumati”.

  • Sentenza n. 8869 del 5 marzo 2007, dep. il 13 aprile 2007, secondo cui è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un ristorante sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati.

  • Sentenza n. 12438 del 28 marzo 2007 (dep. il 28 maggio 2007), secondo cui è legittimo che da un fatto noto, nella specie, dal numero dei tovaglioli, si possa dedurre un primo fatto ignoto, il numero dei coperti e da questo fatto un terzo elemento, il reddito.

  • Sentenza n. 17408 del 23 luglio 2010 (ud. del 24 giugno 2010) che ha legittimato la ricostruzione indiretta effettuata dall’ufficio, ad un ristorante, sulla base del consumo dell’acqua. La Corte richiama suoi precedenti, ove ha ritenuto che “nella prova per presunzioni, la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza del fatto da dimostrare derivi come conseguenza del fatto noto alla stregua di canoni di ragionevole probabilità.
    Pertanto, in tema di accertamento presuntivo del reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, (quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sè solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati (pur dovendosi, del pari, ragionevolmente, sottrarre dal totale i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, l’uso da parte dei camerieri e simili)” (cfr., Cass. civ. sentt. nn. 51/1999, 6465/2002 e 9884/2002). “Se tale presunzione è stata più volte ritenuta valida per l’accertamento del reddito di un impresa di ristorazione deve anche convenirsi che le stesse considerazioni devono ritenersi valide anche in caso di accertamento I.V.A. e che l’elemento de quo (acqua minerale) può anch’esso costituire valido elemento per la ricostruzione presuntiva del volume di affari della società intimata, esercente la medesima attività, in quanto il consumo dell’acqua minerale deve ritenersi un ingrediente fondamentale, se non addirittura indispensabile, nelle consumazioni effettuate sia nel settore del ristorante che della pizzeria, più degli altri elementi indicati dalla parte ricorrente (gas, elettricità, tovaglie e tovaglioli o dal numero di coperti disponibili, dal personale dipendente e dai prezzi praticati)”.

  • Sentenza n. 11622 del 15 maggio 2013 (ud. 10 dicembre 2012) secondo cui “è legittima la ricostruzione dei ricavi di un’impresa di ristorazione anche sulla base del solo consumo di acqua minerale, costituendo lo stesso un ingrediente fondamentale, se non addirittura indispensabile, nelle consumazioni effettuate (Sez. 5, Sentenza n. 17408 del 23/07/2010, Rv. 614681)”.Inoltre, non può dirsi che, riguardo al settore della ristorazione, vi sia un indicatore “principe” per la ricostruzione presuntiva dei ricavi, ben potendo gli indici rivelatori variare da caso a caso ed essendo compito del fisco, prima, e del giudice tributario di merito, poi, quello di cogliere i peculiari nessi inferenziali che siano adeguati alla singola fattispecie concreta. “Nella prova per presunzioni, il giudice di merito deve esercitare la sua discrezionalità nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento.
    Occorre, prima, una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria. Occorre, poi, una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida presunzione semplice, nel senso che ognuno rafforzi e tragga vigore dall’altro in rapporto di vicendevole completamento (Sez. 5, Sentenza n. 9108 del 06/06/2012, Rv. 622995)”.Ed è ciò che ha fatto, nella specie, “il giudice di appello che: (a) ha scartato i dati sul consumo unitario dei tovaglioli risultanti dalla fatturazione dei lavaggi preferendo altro dato obiettivo ossia quello del consumo di acqua minerale, il cui legittimo utilizzo estimativo è confermato dalla giurisprudenza di questa Corte; (b) ha, inoltre, trovato ulteriore riscontro al proprio convincimento nella relazione tra unità di pasto e consumo di caffè; (c) indi, ha riscontrato che, ben potendo i consumi di acqua minerale e caffè essere inferiori all’effettivo numero dei pasti a seconda delle preferenze dei clienti in tema di bevande, il risultato finale è approssimato per difetto ed è, dunque, più che favorevole per le parti contribuenti e tale da coprire anche l’incidenza dell’autoconsumo (soci; personale di sala e di cucina)”.
    Per la Corte, “il risultato finale, essendo approssimato per difetto è in grado di coprire anche ipotesi riduttive (autoconsumo, sfrido etc.; cfr. gli abbattimenti di cui al p.v.c. richiamato nell’accertamento e nelle difese erariali di merito), dovendosi ricordare che il deperimento non ha senso per le acque minerali ed è poco verosimile per un elemento di continuo consumo come il caffè, mentre l’invocato utilizzo in cucina nelle preparazioni ha scarso senso per l’acqua minerale mentre manca qualsiasi riferimento, finanche grafico, a non consuete preparazioni (es. di pasticceria) a base di caffè”.Ed ancora, quanto ai dati sulla fatturazione del lavaggio dei tovaglioli, “essi forniscono nello specifico caso in esame conclusioni illogiche, perchè, tali dati, anche se rapportati al prezzo/coperto stimato dall’Ufficio, portano, per espressa indicazione delle ricorrenti, addirittura a un ammontare di ricavi (L. 1.006.489.320) inverosimilmente inferiore a quello dichiarato (L. 1.035.819.000), il che costituisce indubbio indice rivelatore della inattendibilità dei dati medesimi, scartati dal giudice di merito e additati a sospetto dalla controricorrente (perchè inficiato dal possibile ricorso a prestazioni non fatturate, ad es. perchè effettuate in proprio)”.

  • Sentenza n. 6361 del 19 marzo 2014 (ud. 26 giugno 2013), con cui la Corte di Cassazione ha legittimato l’accertamento presuntivo, effettuato nei confronti di un ristorante, partendo dall’acquisto delle materie prime.La Corte, sul punto, richiama un proprio precedente con cui ha chiarito che “mentre in presenza di irregolarità della contabilità meno gravi, contemplate dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, l’amministrazione può procedere a rettifica analitica, utilizzando gli stessi dati forniti dal contribuente, ovvero dimostrando, anche per presunzioni, purchè munite dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c., l’inesattezza o incompletezza delle scritture medesime, allorquando, invece, constati un’inattendibilità globale delle scritture, l’ufficio è autorizzato, ai sensi del successivo comma 2, a prescindere da esse ed a procedere in via induttiva, avvalendosi anche di semplici indizi sforniti dei requisiti necessari per costituire prova presuntiva. La circostanza che le irregolarità cantabili siano così gravi e numerose da giustificare un giudizio di complessiva inattendibilità delle stesse rende, dunque, di per sè sola legittima l’adozione del metodo induttivo, senza che sui presupposti per il ricorso ad esso incidano le modalità con cui tale forma di accertamento viene poi eseguita: l’amministrazione può quindi utilizzare elementi esterni rispetto alle scritture, ma anche dati da queste emergenti, nella misura in cui risultino singolarmente affidabili. L’esistenza dei presupposti per l’applicazione del metodo induttivo non esclude, infatti, che l’amministrazione possa servirsi, nel corso del medesimo accertamento e per determinate operazioni, del metodo analitico di cui all’art. 39, comma 1, oppure contemporaneamente di entrambe le metodologie” (Cass. n. 27068 del 2006; ed inoltre, Cass. n. 25001 del 2006 e n. 23096 del 2012).

21 ottobre 2014

Roberta De Marchi