nelle società in accomandita semplice vige il divieto per i soci accomandanti di partecipare alla gestione della società: ecco quali conseguenze ha violare tale divieto
Come noto, la società in accomandita semplice si differenzia dalle altre società di persone per la presenza dei soci accomandatari, che sono solidalmente ed illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali ed hanno il potere esclusivo di amministrazione della società, e dei soci accomandanti, che rispondono limitatamente alla quota conferita e sono esclusi dalla direzione della società.
Appare fin da subito evidente come la figura del socio accomandante sia particolarmente delicata in quanto potrebbe essere utilizzata per godere dei vantaggi della responsabilità limitata ed allo stesso tempo di esercitare la direzione di fatto della società di persone.
Per contrastare il verificarsi di tale problematica, sono previste severe conseguenze all’ingerenza del socio accomandante nella gestione della società: l’art. 2320 c.c. prevede, infatti, che, i soci accomandanti non possono compiere atti di amministrazione, né trattare o concludere affari in nome della società… Il socio accomandante che contravviene a tale divieto assume responsabilità illimitata e solidale verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali”.
Peraltro, il socio accomandante che viola il divieto di immistione, oltre a rispondere solidalmente ed illimitatamente di tutte le obbligazioni sociali passate, presenti e future nei confronti dei terzi, può essere escluso dalla società ai sensi dell’art. 2286 c.c..
La sanzione più severa è rappresentata comunque dal fatto che, in caso di fallimento della società, l’accomandante che abbia violato il divieto di immistione, può essere dichiarato personalmente fallito (Cassazione n. 4270/1999 e Cassazione n. 29794/2008).
Il citato art. 2320 c.c. elenca, tuttavia, alcune deroghe al divieto di ingerenza che si esplicano in una serie di atti gestori in senso lato che il socio accomandante può esperire senza incorrere nella violazione delle proprie prerogative.
In primo luogo, il socio accomandante non rischia il beneficio della limitazione patrimoniale, per gli atti di amministrazione compiuti in forza di una procura speciale per singoli affari, a condizione che la procura in parola contenga l’indicazione puntuale del singolo atto o della serie di atti giuridici a lui consentiti, oppure contenga la specificazione dell’affare, inteso come operazione commerciale unitaria, cui la procura si riferisce. In alternativa alle predette indicazioni, è sufficiente che dalla procura affidata emerga ogni informazione utile per inquadrare l’attività affidata all’accomandante su espressa volontà degli amministratori. Ad ogni modo, sono procure speciali illegittime quelle che, ad esempio, conferiscono all’accomandante una piena capacità decisionale in quanto indeterminate, illimitate o addirittura in bianco (Cassazione n. 6429/1984 e Cassazione n. 29794/2008), ovvero si riferiscono ad una serie di atti generici, pur essendo formalmente procure speciali (Cassazione n.11973/2010).
Non ingerisce nella gestione, il socio accomandante che presta la propria opera nell’amministrazione interna della società sotto le direttive degli amministratori e quindi in un piano subordinato rispetto agli stessi: è permesso, quindi, all’accomandante, l’esercizio di compiti dirigenziali e amministrativi (quali la tenuta della contabilità o la direzione del personale) purché non riguardino la gestione diretta dell’attività sociale (Trib. Torino 14/03/1994 e Cassazione n. 1632/1882).
Anche lo stesso contratto sociale (atto costitutivo) può prevedere, qualora sia necessario al compimento di particolari operazioni sociali, che il socio accomandante dia la propria autorizzazione o esprima il proprio parere.
Risulta evidente come la presenza di tali clausole nel rapporto societario possa essere un modo indiretto dell’accomandante di esercitare la gestione, che sarebbe in questo caso “negativa” anziché “positiva” e perciò la giurisprudenza è spesso stata chiamata a decidere in questo ambito: sono ritenute illegittime le clausole statutarie che attribuiscono ai soci accomandanti il diritto di rilasciare pareri e autorizzazioni che assumono carattere generale, sottraendo di fatto la gestione agli amministratori, ovvero che attribuiscono a tali soci la possibilità di rilasciare autorizzazioni per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione o per l’assunzione di obbligazioni che superino un determinato importo.
Ancora, per meglio comprendere quali atti il socio accomandante può esercitare e quali no, possono esserci utili le pronunce giurisprudenziali, ormai consolidate sul tema, secondo le quali vi è violazione del divieto di immistione anche in presenza di meri atti di gestione interna, anche quindi senza entrare in contatto con i terzi o concorrere a veicolare all’esterno la volontà della società (in questo senso Trib. Cassino 14/02/2008, App. Genova 04/03/1997 e Cassazione n. 7554/2000). Di contro, invece, non vi è violazione del divieto di immistione attraverso il compimento di atti riguardanti la mera esecuzione di rapporti obbligatori della società, che derivi da atti di attività gestoria di altri soggetti sociali (in tal senso Trib. Ferrara 29/10/2001, Trib. Milano 07/07/2007, Cassazione n. 172/1987 e Cassazione n. 13468/2010).
Su questo specifico tema, è intervenuta, di recente, la Corte di Cassazione ( sentenza n. 186 del 7 gennaio 2013) la quale ha stabilito che: la prestazione di garanzia in favore di una società in accomandita semplice ed il prelievo di fondi dalle casse sociali per le esigenze personali (quand’anche indebito o addirittura illecito) non integrano l’ingerenza del socio accomandante nell’amministrazione della società in accomandita semplice … in quanto la prima attiene al momento esecutivo delle obbligazioni ed il secondo non costituisce un atto di gestione della società”
13 maggio 2013
Sandro Cerato
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